giovedì 16 gennaio 2003

De rerum natura

De rerum natura


 


Dedicato a (in ordine alfabetico): agnostici, anarchici, atei, bestemmiatori, dubbiosi, emarginati, epicurei, esclusi, laici, minoritari...


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


Lucrezio, De rerum natura, libro primo, inizio.










Madre degli Eneadi, piacere degli uomini e degli dèi,


Venere datrice di vita, che sotto i corsi celesti degli astri


dovunque ravvivi della tua presenza il mare percorso dalle navi,


le terre fertili di messi, poiché grazie a te ogni specie di viventi


è concepita e, sorta, vede la luce del sole -


te, o dea, te fuggono i venti, te le nuvole del cielo,


e il tuo arrivare; a te soavi fiori sotto i piedi fa spuntare


l'artefice terra, a te sorridono le distese del mare


e placato splende di un diffuso lume il cielo.


Ché appena è dischiuso l'aspetto primaverile del giorno


e, disserrato, si ravviva il soffio del fecondo zefiro,


prima gli aerei uccelli te, o dea, e il tuo giungere annunziano,


colpiti nei cuori dalla tua potenza.


Poi fiere e animali domestici bàlzano per i pascoli in rigoglio


e attraversano a nuoto i rapidi fiumi; così preso dal fascino


ognuno ti segue ardentemente dove intendi condurlo.


Infine, per i mari e i monti e i fiumi rapinosi


e le frondose dimore degli uccelli e le pianure verdeggianti,


a tutti infondendo nei petti carezzevole amore,


fai sì che ardentemente propaghino le generazioni secondo le stirpi -


poiché tu sola governi la natura


e senza di te niente sorge alle celesti plaghe della luce,


niente si fa gioioso, niente amabile,


te desidero compagna nello scrivere i versi


ch'io tento di comporre sulla natura


per il nostro Memmiade, che tu, o dea, in ogni tempo


volesti eccellesse ornato di ogni dote.


Tanto più dunque, o dea, da' ai miei detti fascino eterno.


Fa' sì che frattanto i fieri travagli della guerra,


per i mari e le terre tutte placati, restino quieti.


Tu sola infatti puoi con tranquilla pace giovare


ai mortali, poiché sui fieri travagli della guerra ha dominio


Marte possente in armi, che spesso sul tuo grembo


s'abbandona vinto da eterna ferita d'amore;


e così, levando lo sguardo, col ben tornito collo arrovesciato,


pasce d'amore gli avidi occhi anelando a te, o dea,


e, mentre sta supino, il suo respiro pende dalle tue labbra.


Quando egli sta adagiato sul tuo corpo santo, tu, o dea,


avvolgendolo dall'alto, effondi dalla bocca soavi parole:


chiedi, o gloriosa, pei Romani placida pace.


Ché in tempi avversi per la patria non possiamo noi compiere


quest'opera con animo sereno, né l'illustre progenie di Memmio


può in tali frangenti mancare alla comune salvezza.


Infatti è necessario che ogni natura divina goda


di per sé vita immortale con somma pace,


remota dalle nostre cose e immensamente distaccata.


Ché immune da ogni dolore, immune da pericoli,


in sé possente di proprie risorse, per nulla bisognosa di noi,


né dalle benemerenze è avvinta, né è toccata dall'ira.


*


Quanto al resto, presta alla vera dottrina orecchie sgombre


‹ed animo sagace›, scevro d'affanni,


affinché non abbandoni con disprezzo, prima di averli intesi,


i miei doni disposti per te con cura fedele.


Ché mi accingo ad esporti la suprema dottrina


del cielo e degli dèi, e ti rivelerò i primi principi delle cose,


da cui la natura produce tutte le cose, le accresce e alimenta,


e in cui la stessa natura di nuovo risolve le cose dissolte:


questi nell'esporre la dottrina noi siamo soliti chiamare


materia e corpi generatori delle cose,


e li denominiamo semi delle cose, e inoltre li designamo


corpi primi, perché tutto da essi primamente ha esistenza.


La vita umana giaceva sulla terra alla vista di tutti


turpemente schiacciata dall'opprimente religione,


che mostrava il capo dalle regioni celesti,


con orribile faccia incombendo dall'alto sui mortali.


Un uomo greco per la prima volta osò levare contro di lei


gli occhi mortali, e per primo resistere contro di lei.


Né le favole intorno agli dèi, né i fulmini, né il cielo


col minaccioso rimbombo lo trattennero: anzi più gli accesero


il fiero valore dell'animo, sì che volle, per primo,


infrangere gli stretti serrami delle porte della natura.


Così il vivido vigore dell'animo prevalse,


ed egli s'inoltrò lontano, di là dalle fiammeggianti mura del mondo,


e il tutto immenso percorse con la mente e col cuore.


Di là, vittorioso, riporta a noi che cosa possa nascere,


che cosa non possa, infine in qual modo ciascuna cosa


abbia un potere finito e un termine, profondamente confitto.


Quindi la religione è a sua volta sottomessa e dominata,


mentre noi la vittoria uguaglia al cielo.


Questo, a tale proposito, io temo: che per caso tu creda


d'essere iniziato ai fondamenti d'una dottrina empia e d'entrare


nella via della scelleratezza. Mentre per contro assai spesso proprio


essa, la religione, cagionò azioni scellerate ed empie.


Così in Aulide l'altare della vergine Trivia


col sangue d'Ifianassa turpemente macchiarono


gli eletti condottieri dei Danai, il fiore degli eroi.


Appena la benda avvolta attorno alla bella chioma virginea


le scese lungo le guance in due liste uguali,


appena si accorse che il padre stava mesto innanzi all'altare,


e accanto a lui i sacerdoti celavano il ferro,


e il popolo effondeva lacrime alla sua vista,


muta di terrore, piegate le ginocchia, crollava a terra.


Né alla misera in tale frangente poteva giovare


l'aver dato per prima al re il nome di padre.


Ché sollevata dalle mani dei guerrieri e tremante


fu portata all'altare, non già perché, compiuto il rito solenne,


potesse essere accompagnata al suono dello splendido imeneo,


ma perché pura impuramente, nel tempo stesso delle nozze,


cadesse vittima mesta immolata per mano del padre,


e così fosse data alla flotta partenza felice e fausta.


A tali misfatti poté indurre la religione.




Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas,

alma Venus, caeli subter labentia signa

quae mare navigerum, quae terras frugiferentis

concelebras, per te quoniam genus omne animantum

concipitur visitque exortum lumina solis:

te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli

adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus

summittit flores, tibi rident aequora ponti

placatumque nitet diffuso lumine caelum.

nam simul ac species patefactast verna diei

et reserata viget genitabilis aura favoni,

aeriae primum volucris te, diva, tuumque

significant initum perculsae corda tua vi.

inde ferae pecudes persultant pabula laeta

et rapidos tranant amnis: ita capta lepore

te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.

denique per maria ac montis fluviosque rapacis

frondiferasque domos avium camposque virentis

omnibus incutiens blandum per pectora amorem

efficis ut cupide generatim saecla propagent.

quae quoniam rerum naturam sola gubernas

nec sine te quicquam dias in luminis oras

exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam,

te sociam studeo scribendis versibus esse,

quos ego de rerum natura pangere conor

Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni

omnibus ornatum voluisti excellere rebus.

quo magis aeternum da dictis, diva, leporem.

effice ut interea fera moenera militiai

per maria ac terras omnis sopita quiescant;

nam tu sola potes tranquilla pace iuvare

mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors

armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se

reiicit aeterno devictus vulnere amoris,

atque ita suspiciens tereti cervice reposta

pascit amore avidos inhians in te, dea, visus

eque tuo pendet resupini spiritus ore.

hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto

circum fusa super, suavis ex ore loquellas

funde petens placidam Romanis, incluta, pacem;

nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo

possumus aequo animo nec Memmi clara propago

talibus in rebus communi desse saluti.

omnis enim per se divum natura necessest

immortali aevo summa cum pace fruatur

semota ab nostris rebus seiunctaque longe;

nam privata dolore omni, privata periclis,

ipsa suis pollens opibus, nihil indiga nostri,

nec bene promeritis capitur nec tangitur ira.

Humana ante oculos foede cum vita iaceret

in terris oppressa gravi sub religione,

quae caput a caeli regionibus ostendebat

horribili super aspectu mortalibus instans,

primum Graius homo mortalis tollere contra

est oculos ausus primusque obsistere contra;

quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti

murmure compressit caelum, sed eo magis acrem

inritat animi virtutem, effringere ut arta

naturae primus portarum claustra cupiret.

ergo vivida vis animi pervicit et extra

processit longe flammantia moenia mundi

atque omne immensum peragravit mente animoque,

unde refert nobis victor quid possit oriri,

quid nequeat, finita potestas denique cuique

qua nam sit ratione atque alte terminus haerens.

quare religio pedibus subiecta vicissim

opteritur, nos exaequat victoria caelo.

Illud in his rebus vereor, ne forte rearis

impia te rationis inire elementa viamque

indugredi sceleris. quod contra saepius illa

religio peperit scelerosa atque impia facta.

Aulide quo pacto Triviai virginis aram

Iphianassai turparunt sanguine foede

ductores Danaum delecti, prima virorum.

cui simul infula virgineos circum data comptus

ex utraque pari malarum parte profusast,

et maestum simul ante aras adstare parentem

sensit et hunc propter ferrum celare ministros

aspectuque suo lacrimas effundere civis,

muta metu terram genibus summissa petebat.

nec miserae prodesse in tali tempore quibat,

quod patrio princeps donarat nomine regem;

nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras

deductast, non ut sollemni more sacrorum

perfecto posset claro comitari Hymenaeo,

sed casta inceste nubendi tempore in ipso

hostia concideret mactatu maesta parentis,

exitus ut classi felix faustusque daretur.

tantum religio potuit suadere malorum.




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