venerdì 30 luglio 2004

 


Sandor Marai: La donna giusta. Adelfi.
Lettura (di Paola)
Paola mi sorprende al computer, alle prese con Tiziano e mi parla del libro che sta leggendo: forte, molto bello, approfondito psicologicamente, un libro vero. Sono quattro monologhi che rappresentano 4 punti di vista, pirandellianamente: tutti diversi ma tutti veri.


Uno dei 4 punti di vista:
"Non esiste la persona giusta, adatta per te: quello che veramente esiste è il sentimento che tu provi per quella persona. Questo sentimento la rende giusta e adatta per te sulla base dei tuoi sentimenti reali, a prescindere dalla realtà effettuale".


Così l'ho ascoltata e tale a voi la passo.


Paola legge un libro al giorno: queste donne! Buonanotte.

giovedì 29 luglio 2004


Spigolature terzaniane


Scalata alle nuvole - in solitaria -


"...L'ultimo pezzo del cammino, quella scaletta che conduce al tetto dal quale si vede il mondo o sul quale ci si puo' distendere a diventare una nuvola, quell'ultimo pezzo va fatto a piedi, da soli».



Camaleonte - ma con i cinesi non funziona


...in Cina ho studiato il cinese, mi sono vestito da cinese, viaggiavo in bicicletta, come loro. Alla fine mi hanno detto: "Oh, ma tu chi sei?" e mi hanno arrestato. Vado dai musulmani e divento musulmano. La mia barba mi ha salvato a Kabul, quando due malandrini di notte hanno assaltato il nostro taxi, puntando il kalashnikov: mi hanno guardato e hanno chiesto "musulmano?". "Sì, musulmano". Nell'ashram divento ashramita...».


Fiorentino ma in senso "stretto"


«La fiorentinità, di cui sono orgoglioso, mi è però stata stretta. Ho voluto essere straniero perché mi è sempre pesato il noi, l'appartenenza a qualche gruppo, o categoria. Ho preferito andare a capire gli altri. Il mio mondo lo conosco e non mi interessa più».


Mortalità sirena del mondo


«È stata una sofferenza parlare di sé» ammette «l'ho sempre fatto e si potrebbe dire che anche questo è un esercizio di narcisismo. Eppure stavolta non era per me, ma per dire qualcosa che potesse aiutare gli altri. Una via per chi deve fare la stessa strada, non quella della malattia, ma quella della scoperta che siamo malati di qualcosa di molto più grande: siamo malati di una cosa stupenda che è la mortalità.


Sono quasi pronto a morire perché mi diverte vedere che cosa è questa morte: l'unico rimpianto che ho è che non riuscirò a scriverne.


Eutanasia all'indiana

"In un ashram sulla strada per la mia baita himalayana, c'era un vecchio baba di cui sono stati seguaci personaggi come Timothy Leary. Di notte arriva un tipo di corsa: "Baba! Baba! Mio padre sta malissimo, devi fare qualcosa!". "Cosa vuoi, va' via!" risponde il santone duramente, perché la dottrina del karma impedisce all'induismo la compassione. Quello si butta ai suoi piedi, piange. Allora il baba, per toglierselo di torno: "Be', prendi una banana, riducila in poltiglia e fagliela mangiare, vedrai che tutto andrà bene". L'uomo corre a casa, fa come gli ha detto il baba, offre la banana al parente che, subito dopo, muore. Noi avremmo pensato che "bene" era se il malato campava altri cinque anni: ma perché non pensare che "bene" è il fatto che ha mangiato la banana ed è morto serenamente?».


Estratte da qui





 


Tiziano Terzani


ci saluta un'ultima volta, da Palazzo Vecchio.


Allora, cosa fare?


Bisogna convincere tutti che, se il problema è il terrorismo, non sconfiggeremo il terrorismo uccidendo i terroristi ma eliminando le ragioni che portano un uomo, nato come me, come lei, per vivere, per essere felice, a compiere quell'atto così innaturale, così disumano, com'è l'uccidersi uccidendo.


Riflettere, fermarsi, costringere i nostri politici che fanno quella politica di automatismi.


Ricordo di Proserpina

Ricordo di Barbabianca


Anche su Bloggerdiguerra


Dal Corriere di oggi: La razionale follia del mondo moderno era tutta concentrata lì, in quei pochi, meravigliosi, vitali chilometri quadrati di cemento fra l'East River e l'Hudson, sotto un cielo terso, sempre pronto a riflettere l' increspato splendore delle acque. Quello era il cuore di pietra del dilagante, disperante materialismo che sta cambiando l' umanità


Una guerra a cui non ero abituato, essendo vissuto per più di venticinque anni in Asia, era la guerra dei sessi, combattuta in una direzione soltanto: le donne contro gli uomini. Seduto ai piedi di un grande albero a Central Park, le stavo a guardare. Le donne: sane, dure, sicure di sé, robotiche. Prima passavano sudate, a fare il loro jogging quotidiano in tenute attillatissime, provocanti, con i capelli a coda di cavallo; più tardi passavano vestite in uniforme da ufficio - tailleur nero, scarpe nere, borsa nera con il computer - i capelli ancora umidi di doccia, sciolti. Belle e gelide, anche fisicamente arroganti e sprezzanti. Tutto quello che la mia generazione considerava «femminile» è scomparso, volutamente cancellato da questa nuova, perversa idea di eliminare le differenze, di rendere tutti uguali e fare delle donne delle brutte copie degli uomini.

martedì 27 luglio 2004

Nota: col permesso dell'autrice, pubblico il testo della conferenza tenuta dalla Prof.ssa Magnaldi. Per far capire meglio la mia rielaborazione confezionata nei post precedenti intitolati "le nostre antiche radici".
Grazie, Pinuccia.

La felicità degli antichi


Argomento della mia esposizione non sarà, in generale, “la felicità”, come troppo ambiziosamente recita il titolo apposto al nostro incontro, ma “la felicità degli antichi”. Proverò infatti a riassumere, in base alle mie competenze di antichista, la concezione che la cultura greco-latina ebbe della felicità come sommo bene, fine ultimo a cui tendono e su cui si commisurano tutte le azioni dell’individuo, qualunque sia il genere di vita (bios) prescelto da ciascuno.
A differenza della maggior parte delle etiche moderne, quelle antiche (da Socrate a Platone ad Aristotele fino a Lucrezio, Cicerone e Seneca) sono tutte eudaimonistiche, ovvero credono nella possibilità per l’uomo di essere felice, e di esserlo qui su questa terra, dal momento che nessuna rivelazione di eternità garantisce la sopravvivenza dopo la morte. C’è tuttavia un momento particolare in cui la speculazione sulla felicità sembra assorbire le migliori energie dei filosofi, ed è il periodo ellenistico (IV-III sec. a. C.), quando la città-stato greca ha ormai ceduto il passo alla monarchia macedone e il libero cittadino ateniese, lo zoon politikon per eccellenza, il cui destino privato si intrecciava indissolubilmente con quello pubblico, è diventato un suddito: cittadino del mondo, dicono i filosofi, ma più realisticamente, commentiamo noi, uomo solo alle prese col suo personale progetto di vita da adeguare alle nuove contingenze storiche.
E’ in questo periodo che i pensatori post-aristotelici, Epicurei, Stoici e Peripatetici, focalizzano l’indagine sulla natura del singolo essere vivente, cercando di definirla scientificamente. Il momento in cui essa si presenta per così dire allo stato puro, ancora indenne dai condizionamenti sociali (cattivi costumi e false opinioni), è quello della nascita. In questo stadio primigenio l’essere vivente (animal) appare tutto teso ad amare se stesso e ad autoconservarsi. Proprio di qui, da questa tendenza istintiva all’amore di sé e alla salvaguardia della propria integrità psico-fisica, prende le mosse il processo di perfezionamento, che può e deve condurre l’uomo a raggiungere il sommo bene e ad acquisire la felicità. Oikeiosis, ovvero accasamento, appropriazione di ciò che è davvero nostro, è il nome di questa dottrina naturalistica che collega il fine della vita umana al suo principio. Del resto, “conosci te stesso” era l’antico precetto dell’Apollo di Delfi, che Nietzsche tradurrà suggestivamente con “diventa quello che sei”.
Che cos’è dunque l’uomo al momento della nascita? Soprattutto sensorialità e istinto, constatano i filosofi, ma anche ragione, sia pure soltanto allo stato virtuale: semina rationis è il termine che usa Cicerone, cui dobbiamo la traduzione in latino, e dunque la trasmissione al mondo moderno, dell’oikeiosis greca. Sulle modalità di sviluppo di quei semi, un vocabolo botanico derivato da Teofrasto, si concentrano le filosofie ellenistiche, con divergenze notevoli che sarebbe però fuori luogo esaminare in questa sede. Preferisco soffermarmi sull’analogia di fondo che le accomuna: la convinzione che la parte migliore dell’uomo sia la ragione, e che ad essa vada perciò progressivamente assoggettata, a mano a mano che si diventa adulti, la componente istintuale o affettiva, preponderante al momento della nascita. La lotta della ragione contro le passioni, da moderare, come dicono i Peripatetici, o da estirpare, come dicono gli Stoici, diventa così l’unica strada possibile per autorealizzarsi come esseri virtuosi (ossia giusti, forti, temperanti, in una parola sapienti), e in quanto tali raggiungere la felicità.
Le passioni, infatti, soggiogano l’animo (patior) e lo sommuovono, mentre per essere felice esso deve mantenersi sempre uguale a se stesso, non esaltarsi nella laetitia (euforia, ebbrezza della gioia eccessiva) né rinserrarsi nell’aegritudo (ansia, angoscia, depressione). I due termini greci che designano questa condizione di costante equilibrio psichico sono apatia (stoico) e atarassia (epicureo). L’aggettivo latino che descrive l’animo felice è aequus = piatto, eguale, etimologicamente collegato con aequor, la ferma distesa del mare calmo. Tutte le passioni, esplorate una per una con sottile finezza dai filosofi antichi, nascono da due tendenze morbose (vitia) fondamentali: cupiditas e metus. La cupiditas è il desiderio illimitato di ricchezza (avaritia) e di potere (ambitio). Il metus è la paura irragionevole del dolore fisico e della morte, nostra e dei nostri cari.
Contro le lotte defatiganti che la maggior parte degli uomini intraprende per conquistare ricchezza e potere si esprime Lucrezio, sulle orme di Epicuro, nel proemio del secondo libro del De rerum natura, esaltando la felicità appartata del saggio che contempla il mondo dall’esterno, con pietoso distacco:
(Lucr. 2.1-33) E’ dolce, quando sul vasto mare i venti sollevano i flutti, assistere da terra alle dure prove altrui, non perché quella sofferenza sia un piacere per noi, ma perché vediamo a quali mali siamo riusciti a sfuggire. E’ dolce occupare saldamente gli alti luoghi fortificati dalla scienza dei saggi: regioni serene da dove si può abbassare lo sguardo sugli altri uomini, vederli errare, cercare a tentoni il cammino della vita, competere in genialità, disputarsi la gloria, sforzarsi notte e giorno di elevarsi al colmo delle ricchezze o impadronirsi del potere. O misero cuore degli uomini, o mente accecata! In quali tenebre si trascorre quel breve istante che è la vita! Non sentite quel che grida la natura? Null'altro reclama che l'assenza di dolore per il corpo e di inquietudine per lo spirito. Se la nostra casa non riluce di oro, a noi basta, distesi fra amici su un morbido prato, presso un’acqua corrente, sotto i rami di un albero, appagare con poco il nostro appetito, specie se il tempo sorride e la stagione cosparge di fiori il verde dell’erba.
Anche sulla paura della morte i versi lucreziani, fondati sulla concezione materialistica della dissoluzione dell’anima insieme col corpo, rappresentano una delle vie maestre con cui l’antichità cerca di consolare l’uomo per la sua mortalità:
(Lucr. 3.830 sgg. ) La morte non è nulla per noi e non ci tocca per niente, se la sostanza dell’anima ci appare mortale… Quando cesseremo di esistere, dopo il divorzio dell’anima dal corpo, la cui unione compone la nostra individualità, nulla potrà più raggiungere i nostri sensi, neppure il rimpianto per i bimbi che correvano incontro ai nostri baci, neppure le preoccupazioni per la sorte del nostro cadavere, inumato o posto sul rogo o lasciato in pasto alle fiere. Al vecchio carico d’anni che non vuol morire si rivolge la natura personificata, ingiungendogli di cedere ad altri il suo posto: “Le cose si rinnovano una a spese dell’altra secondo un ordine obbligato… E’ necessaria materia nuova (atomi) perché crescano le nuove generazioni… Gli esseri non cesseranno mai di nascere gli uni dagli altri. La vita non è stata concessa in proprietà a nessuno, a tutti in usufrutto”.
A differenza di Lucrezio, Cicerone non si pronuncia mai dal punto di vista teorico sulla mortalità o immortalità dell’anima, ma cerca in concreto qualche conforto per la perdita dell’amatissima figlia Tullìola, morta di parto. Egli non teme la morte sua propria, e anzi la desidera nello stato di emarginazione politica in cui si trova (la maggior parte delle opere filosofiche è scritta sotto la dittatura di Cesare, quando gli è ormai preclusa ogni attività pubblica), ma piange quella di lei. Si immerge nella solitudine, passeggia nei boschi più fitti e selvaggi, come confessa all’amico Attico, legge e scrive di filosofia, intendendola essenzialmente come terapia dell’anima, chiamata a raccolta di tutte le energie psichiche atte a sconfiggere l’aegritudo. Nascono da quest’esperienza personale del dolore, oltre alla Consolatio a se stesso e all’Hortensius (opere perdute per noi, ma che spinsero Agostino a dedicarsi alla filosofia), il De finibus bonorum et malorum e le Tusculanae disputationes.
Alla prima opera dobbiamo gran parte di ciò che sappiamo sulla dottrina greca dell’oikéiosis; alla seconda il tentativo più strenuo di stabilire che basta la virtù a garantire la felicità, come sostengono gli Stoici, anche in caso di malattia o di povertà o di esilio o di perdita dei propri cari. Il ragionamento, che a noi moderni appare un po’ astratto e aprioristico, è che fra i tre generi di beni, dell’anima, del corpo ed esterni, solo i beni dell’anima, ovvero le virtù (sapienza, giustizia, fortezza e temperanza), sono essenziali per la felicità. Soltanto esse, infatti, sono in pieno potere del sapiens, mentre i beni del corpo (salute, integrità delle membra, bellezza) e i beni esterni (materiali, come il benessere economico, o sociali, come l’affetto di familiari e amici e condizioni politiche soddisfacenti) dipendono dalla fortuna.
Per quanto riguarda la capacità dell’uomo di tollerare il dolore fisico, ossia di essere felice anche se malato o invalido, Cicerone fa appello alla forza trainante degli esempi. Se sanno sopportare il dolore, grazie alla continuità dell’esercizio, il ragazzino spartano o lo schiavo gladiatore o il soldato veterano, altrettanto possiamo fare noi con la contentio animi (tensione, attivazione orientata di tutte le energie psichiche), la forza dell’abitudine, il dialogo interiore (sermo intumus), che prescrive di guardarsi da tutto ciò che è debole, vergognoso, non virile. Più ardua è la lotta di Cicerone per dimostrare che si può essere felici anche in presenza di un lutto grave come la morte di un figlio. Soccorrono anche in questo caso gli esempi (Tusc. 3.57 “E’ possibile tollerare, se altri hanno saputo farlo”; Tusc. 3.29: Anassagora risponde a chi gli annuncia la morte del figlio: “Sapevo di averlo generato mortale”) e la meditatio. Gran parte del nostro dolore non nasce dalla natura ma dalla falsa opinione che sia giusto soffrire: in realtà la natura non ci chiede affatto di accettare la sofferenza o di manifestarla con modalità contrarie al decoro, ma ci esorta ad amare gli altri come noi stessi; se ci affliggiamo per qualcuno, ci comportiamo contro natura, perché amiamo un altro più di quanto non amiamo noi stessi.
Non tutti i filosofi antichi consentono col principio stoico che basti la virtù per essere felici: Teofrasto, per esempio, nega che la felicità sia in potere del sapiens, il quale si trova anche lui, come il resto del genere umano, in balia della fortuna per quanto riguarda i beni del corpo e quelli esterni. Altri Peripatetici tornano alla formula quantitativa e ‘media’ di Aristotele, secondo cui può definirsi felice un uomo che agisca secondo perfetta virtù e sia provvisto di una sufficiente quantità di beni corporei ed esterni. In ogni caso, ciò che tutte le etiche antiche prescrivono all’individuo come soggetto morale non è tanto raggiungere la felicità quanto fare il possibile per raggiungerla: come il compito dell’arciere non consiste nel colpire il bersaglio, ma nel fare tutto il possibile per colpirlo, compito dell’uomo non è conseguire il sommo bene, ma adoprarsi con tutte le sue forze per conseguirlo (Cic. fin. 3.22).
Sulle varie tappe di questo processo lungo e difficile verso la perfezione fanno luce le Lettere a Lucilio di Seneca, tanto più affascinanti in quanto scritte a un amico più giovane, ancora impegnato nell’amministrazione dello stato, da un uomo che si sta preparando a morire (dopo essersi ritirato a vita privata una volta fallito il progetto politico di trasformare Nerone in un principe illuminato). Lo spunto per la meditazione filosofica è offerto dalla quotidianità: un viaggio, un incontro, una vacanza, un’indisposizione. Le esortazioni riguardano l’uso del tempo (epist. 1 Lucilio, vindica te tibi, renditi padrone di te stesso, raccogli e custodisci quel tempo che ti viene continuamente sottratto o ti sfugge); la concentrazione nella lettura (epist. 2 C’è qualcosa di vago e instabile nel vagabondare tra un autore e l’altro: dopo aver letto, scegli un solo pensiero che tu possa assimilare quel giorno); la diffidenza nei confronti degli occupati (epist. 8 Credimi, quelli che sembrano non fare nulla compiono azioni molto più grandi di chi è perennemente indaffarato: meditano sulle cose umane e divine); la coerenza fra le parole e i fatti (epist. 20 La filosofia insegna ad agire, non a parlare; le parole non devono essere in contraddizione con la vita né questa deve discordare da se stessa: unus color); il rapporto di benevolenza e perfino di amicizia con gli schiavi (epist. 47 Servi sunt, immo homines. Servi sunt, immo humiles amici. Servi sunt, immo conservi, se pensi che la fortuna esercita lo stesso potere su noi e loro).
Sarebbe impossibile seguire nei particolari questo itinerario rigoroso e complesso verso la perfezione, ma lo si può riassumere prendendo a prestito la frase finale dell’ultima lettera sulla falsa equiparazione tra felicità e successo: “Eccoti, dice Seneca a Lucilio nell’epist. 124, una formula sintetica per misurare i tuoi progressi e darti la coscienza della raggiunta perfezione: possiederai il vero bene il giorno in cui capirai che gli uomini comunemente ritenuti felici sono in realtà i più infelici. Addio”.


Poppi, 27 maggio 2004


Bibliografia
Cicerone, Tuscolane, BUR, Milano 1996
Lucrezio, La natura delle cose, BUR, Milano 1994
Seneca, Lettere a Lucilio, BUR, Milano 1974
De Luise Fulvia – Farinetti Giuseppe, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Einaudi, Torino 2001
Magnaldi Giuseppina, L’oikeiosis peripatetica in Ario Didimo e nel De finibus di Cicerone, Le Lettere, Firenze 1991
Nussbaum Martha, La fragilità del bene, trad. it. Il Mulino, Bologna ??
         

lunedì 26 luglio 2004

titolo

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Politicamente non corretto


LA STAMPA ARABA CONTRO YASSER ARAFAT
di redazione


I crescenti disordini nell'Autorità Palestinese (AP) hanno intensificato gli attacchi contro il suo presidente Yasser Arafat sulla stampa araba: gli editorialisti lo incolpano dell'anarchia e della corruzione nell'AP e gli chiedono apertamente di dimettersi. Pubblichiamo alcuni passaggi tratti dagli articoli e dai commenti di diverse testate arabe.


http://www.reporterassociati.org/index.php?option=news&task=viewarticle&sid=3004


Sono d'accordo con la stampa araba.
Insieme alle dimissioni di Arafat vorrei - per motivi diversi, anche molto diversi - quelle di:
Carol Vojtila, anche se è tardi, perché nel frattempo i curiali dell'Opus dei hanno predisposto i giochi della successione;
Tony Blair, per crisi parlamentare;
Berlusconi, c.s. (non c'è tempo da perdere; si sta mangiando l'Italia e sta comprando a uno a uno i partner determinanti); Follini forse l'ha capito, ma anche Berlusca che gli sta mettendo contro i poteri forti al suo interno: opus dei, Com. e liberaz. che fanno rima con buttigl.;
Bush, tramite impeachment per alto tradimento (compagno di merende- insieme ai suoi familiari - dei Lad-r-en, compreso Bin).
Quanto a Israele, non aspetto né chiedo dimissioni; uno peggio dell'altro. Finché il 63 per cento degli israeliani considera la demolizione delle case palestinesi come normale operazione insetticida. Per Israele solo l'intervento Onu con i caschi blu.
Nel frattempo questo il mio Slogan per le piazze di Tel Aviv: Uri Avneri al governo: in fondo anche Berlusca governa col 30% dei consensi e Bush col 10%.
Ora che ho scritto e pubblicato quello che nessun grande giornale si può permettere, vado nell'orto delle Lame, Casentino doc, colgo i fagiolini biologici e burrini, le zucchine dolci e tenere come  la faccia di Rachel Corrie prima di essere schiacciata dal bulldozer israeliano, i fiori di zucca ora splendidi di sole mattutino - poi duri e croccanti nella padella di mezzogiorno - dopo la pioggia rinfrescante di ieri.
Seguirà - il trash è alla moda - il beneficio di corpo mattutino e la tromba del vecchio Amstrong: What a wanderfull word.  Buona giornata ai 25 lettori e que viva Internet.


 


 

giovedì 15 luglio 2004

Louis Armstrong: What a wanderfull world


I see trees of green, red roses too
I see them bloom for me and you
And I think to myself what a wonderful world.
I see skies of blue and clouds of white
The bright blessed day, the dark sacred night
And I think to myself what a wonderful world.

The colors of the rainbow so pretty in the sky
Are also on the faces of people going by
I see friends shaking hands saying how do you do
They're really saying I love you.

I hear babies crying, I watch them grow
They'll learn much more than I'll never know
And I think to myself what a wonderful world
Yes I think to myself what a wonderful world

mercoledì 14 luglio 2004

Divertissement
con quiz

L'aggredita del metrò: ho mentito.
È stata arrestata la giovane donna che ha commosso la
Francia per aver subito un'aggressione a sfondo antisemita
nel metrò di Parigi. Nel pomeriggio di ieri, messa alle
strette dagli inquirenti che fin dalle prime ore avevano
considerato troppe incongruenze nel suo racconto, ha
confessato di essersi inventata tutto. Dunque non erano
maghrebini, non erano africani, non erano immigrati dei
ghetti imbevuti di antisemitismo. Erano solo fantasmi,
nella mente un po' confusa di Marie-Leonie L., la giovane
madre che ha fatto commuovere e indignare il paese.
[Massimo Nava - Corriere della Sera]


Ma non erano fantasmi.
Chi l'ha pagata?
Prima risposta - da sinistra -: I Servizi segreti israeliani;
Seconda risposta:-da destra - I Servizi segreti francesi;
Terza risposta: - Jolly - Si è fatta pagare da tutti e due.


Tu quoque, fili mi!
Per i repubblicani, Ronald Reagan è come John Kennedy per i
democratici: il presidente dell'epoca d'oro, che indusse
l'America a sognare. Ma l'ultimo Reagan, Ronald jr, non
apparirà alla loro convention a fine agosto, parlerà invece
a quella democratica tra due settimane. I repubblicani, che
vorrebbero ammantare Bush jr nella gloria reaganiana,
dovranno accontentarsi di un filmato sul leader scomparso e
spiegare al paese perché il figlio del loro idolo ne neghi
l'eredità politica all'attuale presidente in maniera così
pubblica e brutale.
[Ennio Caretto - E Reagan (figlio) tradisce Bush Corriere della Sera]

martedì 13 luglio 2004

Forza, Italia

   " Si possono brevettare le piante officinali? Le sementi del riso,
     oppure gli estratti di fiori che hanno una potente azione
     anticancro? O addirittura il pane? Certo che si può. Basta avere
     molti soldi, buoni avvocati in caso di ricorso, e soprattutto la
     copertura di un organismo come il Wto, l'Organizzazione mondiale
     del commercio: all'interno della quale tutto si può vendere e
     tutto si può comperare, comprese le conoscenze che i popoli si
     tramandano da secoli."


Cunegonda: Inventare il pane e farsi pagare i diritti
http://www.zmag.org/Italy/cunegonda-brevettipane.htm

Rende l'idea


 

Le nostre radici antiche IV bis (fine)


La ricerca della felicità
in Seneca


Lo spunto per la meditazione filosofica è offerto dalla quotidianità: un viaggio, un incontro, una vacanza, un’indisposizione. Le esortazioni riguardano l’uso del tempo (epist. 1 Lucilio, vindica te tibi, renditi padrone di te stesso, raccogli e custodisci quel tempo che ti viene continuamente sottratto o ti sfugge); la concentrazione nella lettura (epist. 2 - C’è qualcosa di vago e instabile nel vagabondare tra un autore e l’altro: dopo aver letto, scegli un solo pensiero che tu possa assimilare quel giorno); la diffidenza nei confronti degli occupati (epist. 8 Credimi, quelli che sembrano non fare nulla compiono azioni molto più grandi di chi è perennemente indaffarato: meditano sulle cose umane e divine); la coerenza fra le parole e i fatti (epist. 20 La filosofia insegna ad agire, non a parlare; le parole non devono essere in contraddizione con la vita né questa deve discordare da se stessa: unus color); il rapporto di benevolenza e perfino di amicizia con gli schiavi (epist. 47 Servi sunt, immo homines. Servi sunt, immo humiles amici. Servi sunt, immo conservi, se pensi che la fortuna esercita lo stesso potere su noi e loro).
Sarebbe impossibile seguire nei particolari questo itinerario rigoroso e complesso verso la perfezione, ma lo si può riassumere prendendo a prestito la frase finale dell’ultima lettera sulla falsa equiparazione tra felicità e successo: “Eccoti, dice Seneca a Lucilio nell’epist. 124, una formula sintetica per misurare i tuoi progressi e darti la coscienza della raggiunta perfezione: possiederai il vero bene il giorno in cui capirai che gli uomini comunemente ritenuti felici sono in realtà i più infelici. Addio”.


Bibliografia
Cicerone, Tuscolane, BUR, Milano 1996
Lucrezio, La natura delle cose, BUR, Milano 1994
Seneca, Lettere a Lucilio, BUR, Milano 1974
De Luise Fulvia – Farinetti Giuseppe, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Einaudi, Torino 2001
Magnaldi Giuseppina, L’oikeiosis peripatetica in Ario Didimo e nel De finibus di Cicerone, Le Lettere, Firenze 1991
Nussbaum Martha, La fragilità del bene, trad. it. Il Mulino, Bologna

(Magnaldi - fine)


Estratti delle lettere citate.


Liber I, 8
. 5 Seguite questa sana e salutare regola di vita: concedete al corpo solo quanto basta a mantenerlo in salute. Bisogna trattarlo con una certa durezza perché non disobbedisca alla mente: il cibo deve estinguere la fame, il bere la sete, i vesti devono proteggere dal freddo, la casa difendere dalle intemperie. Non importa se è stata costruita con zolle o con marmo variegato di importazione: sappiate che un tetto di foglie copre bene quanto uno d'oro. Ornamenti e fregi ottenuti grazie a inutili fatiche, disprezzateli tutti; pensate che nulla è straordinario tranne l'anima e per un'anima grande nulla è
grande." 6 Dico queste cose a me stesso, le dico ai posteri; e non mi rendo più utile secondo te che se mi presentassi come difensore in giudizio o imprimessi il sigillo ai testamenti o mettessi gesto e voce a servizio di un candidato senatoriale? Credimi, fa di più chi sembra che non faccia niente: si cura nello stesso tempo delle faccende divine e di quelle umane.


Contemnite omnia quae supervacuus labor velut ornamentum ac decus ponit;cogitate nihil praeter animum esse mirabile, cui magno nihil magnum est.'[6] Si haec mecum, si haec cum posteris loquor, non videor tibi plusprodesse quam cum ad vadimonium advocatus descenderem aut tabulis testamentianulum imprimerem aut in senatu candidato vocem et manum commodarem? Mihicrede, qui nihil agere videntur maiora agunt: humana divinaque simultractant



Liber II, 20


Ti esorto caldamente, Lucilio mio, scolpisci nel profondo del tuo animo i principî filosofici e constata i tuoi progressi non in base ai discorsi o agli scritti, ma alla fermezza d'animo e al controllo delle passioni: dimostra con i fatti la verità delle parole. 2 Diverso proposito hanno gli oratori che cercano di ottenere il consenso del pubblico, oppure coloro che attirano l'attenzione dei giovani e degli oziosi dissertando con scioltezza su svariati argomenti: la filosofia insegna ad agire, non a parlare, ed esige che si viva secondo le sue leggi, perché la vita non sia in contrasto con le parole, né con se stessa, e tutte le nostre azioni si uniformino a un unico principio. Questo è il compito principale della saggezza, e anche l'indizio più certo: che le azioni concordino con i discorsi, così che l'uomo sia sempre uguale e identico a se stesso. "Chi si comporta così?" Pochi, ma qualcuno c'è. Certo non è facile; io non
sostengo che il saggio avanzerà sempre con lo stesso passo, ma per una stessa via.

20 SENECA LUCILIO SUO SALUTEM


[1] Si vales et te dignum putas qui aliquando fias tuus, gaudeo; mea enim gloria erit, si te istinc ubi sine spe exeundi fluctuaris extraxero. Illud autem te, mi Lucili, rogo atque hortor, ut philosophiam in praecordia ima demittas et experimentum profectus tui capias non oratione nec scripto, sed animi firmitate, cupiditatum deminutione: verba rebus proba. [2] Aliud propositum est declamantibus et assensionem coronae captantibus, aliud his qui iuvenum et otiosorum aures disputatione varia aut volubili detinent: facere docet philosophia, non dicere, et hoc exigit, ut ad legem suam quisque vivat, ne orationi vita dissentiat vel ipsa inter se vita; unus sit omnium actio[dissentio]num color [sit].


47
1 Ho sentito con piacere da persone provenienti da Siracusa che tratti familiarmente i tuoi servi: questo comportamento si confà alla tua saggezza e alla tua istruzione. "Sono schiavi." No, sono uomini. "Sono schiavi". No, vivono nella tua stessa casa. "Sono schiavi". No, umili amici. "Sono schiavi." No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro. 2 Perciò rido di chi giudica disonorevole cenare in compagnia del proprio schiavo; e per quale motivo, poi, se non perché è una consuetudine dettata dalla piú grande superbia che intorno al padrone, mentre mangia, ci sia una turba di servi in piedi? Egli mangia oltre la capacità del suo stomaco e con grande avidità riempie il ventre rigonfio ormai disavvezzo alle sue funzioni: è più affaticato a vomitare
il cibo che a ingerirlo. 3 Ma a quegli schiavi infelici non è permesso neppure muovere le labbra per parlare: ogni bisbiglio è represso col bastone e non sfuggono alle percosse neppure i rumori casuali, la tosse, gli starnuti, il singhiozzo: interrompere il silenzio con una parola si sconta a caro prezzo; devono stare tutta la notte in piedi digiuni e zitti. 4 Così accade che costoro, che non possono parlare in presenza del padrone, ne parlino male. Invece quei servi che potevano parlare non solo in presenza del padrone, ma anche col padrone stesso, quelli che non avevano la bocca cucita, erano pronti a offrire la testa per lui e a stornare su di sé un pericolo che lo minacciasse; parlavano durante i banchetti, ma tacevano sotto tortura. 5 Inoltre, viene spesso ripetuto quel proverbio frutto della medesima arroganza: "Tanti nemici, quanti schiavi": loro non ci sono nemici, ce li rendiamo tali noi. Tralascio per ora maltrattamenti crudeli e disumani: abusiamo di loro quasi non fossero uomini, ma bestie. Quando ci mettiamo a tavola, uno deterge gli sputi, un altro, stando sotto il divano, raccoglie gli avanzi dei convitati ubriachi.

47 SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Libenter ex iis qui a te veniunt cognovi familiariter te cum servis tuis vivere: hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet. 'Servi sunt.' Immo homines. 'Servi sunt ' Immo contubernales. 'Servi sunt.' Immo humiles amici. 'Servi sunt.' Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae. [2] Itaque rideo istos qui turpe existimant cum servo suo cenare: quare, nisi quia superbissima consuetudo cenanti domino stantium servorum turbam circumdedit? Est ille plus quam capit, et ingenti aviditate onerat distentum ventrem ac desuetum iam ventris officio, ut maiore opera omnia egerat quam ingessit. [3] At infelicibus servis movere labra ne in hoc quidem ut loquantur, licet; virga murmur omne compescitur, et ne fortuita quidem verberibus excepta sunt, tussis, sternumenta, singultus; magno malo ulla voce interpellatum silentium luitur; nocte tota ieiuni mutique perstant. [4] Sic fit ut isti de domino loquantur quibus coram domino loqui non licet. At illi quibus non tantum coram dominis sed cum ipsis erat sermo, quorum os non consuebatur, parati erant pro domino porrigere cervicem, periculum imminens in caput suum avertere; in conviviis loquebantur, sed in tormentis tacebant. [5] Deinde eiusdem arrogantiae proverbium iactatur, totidem hostes esse quot servos: non habemus illos hostes sed facimus.


Liber XX lett.124
24 Stìmati felice solo quando ogni gioia nascerà dal tuo intimo, quando, alla vista di quei beni che gli uomini cercano di afferrare, desiderano e custodiscono gelosamente, non troverai nulla che, non dico preferisci, ma neppure desideri. Ti darò una piccola regola per valutare i tuoi progressi e per renderti conto di avere ormai raggiunto la perfezione: possiederai il tuo bene quando capirai che gli uomini considerati felici sono in realtà i più infelici. Stammi bene.


[24] Tunc beatum esse te iudica cum tibi ex te gaudium omne nascetur,cum visis quae homines eripiunt, optant, custodiunt, nihil inveneris, nondico quod malis, sed quod velis. Brevem tibi formulam dabo qua te metiaris,qua perfectum esse iam sentias: tunc habebis tuum cum intelleges infelicissimosesse felices. Vale.
Seneca - Lettere a Lucilio:
Per il testo latino
Per il testo italiano

La ricerca della felicità IV

Le nostre radici antiche IV


La ricerca della felicità
in Seneca



Non tutti i filosofi antichi consentono col principio stoico che basti la virtù per essere felici: Teofrasto, per esempio, nega che la felicità sia in potere del sapiens, il quale si trova anche lui, come il resto del genere umano, in balia della fortuna per quanto riguarda i beni del corpo e quelli esterni. Altri Peripatetici tornano alla formula quantitativa e ‘media’ di Aristotele, secondo cui può definirsi felice un uomo che agisca secondo perfetta virtù e sia provvisto di una sufficiente quantità di beni corporei ed esterni. In ogni caso, ciò che tutte le etiche antiche prescrivono all’individuo come soggetto morale non è tanto raggiungere la felicità quanto fare il possibile per raggiungerla: come il compito dell’arciere non consiste nel colpire il bersaglio, ma nel fare tutto il possibile per colpirlo, compito dell’uomo non è conseguire il sommo bene, ma adoprarsi con tutte le sue forze per conseguirlo (Cic. De finibus, 3.22).


Sulle varie tappe di questo processo lungo e difficile verso la perfezione fanno luce le Lettere a Luciliø di Seneca, tanto più affascinanti in quanto scritte a un amico più giovane, ancora impegnato nell’amministrazione dello stato, da un uomo che si sta preparando a morire (dopo essersi ritirato a vita privata una volta fallito il progetto politico di trasformare Nerone in un principe illuminato). Lo spunto per la meditazione filosofica è offerto dalla quotidianìtà: un viaggio, un incontro, una vacanza, un’indisposizione. Le esortazioni riguardano l’uso del tempo (epist. i Lucilio, vindica te tibi, renditi padrone dite stesso, raccogli e custodisci quel tempo che ti viene continuamente sottratto o ti sfugge); la concentrazione nella lettura (epist. 2) C’è qualcosa di vago e instabile nel vagabondare tra un autore e l’altro: dopo aver letto, scegli un solo pensiero che tu possa assimilare quel giorno. (Magnaldi)


LIBRO PRIMO

1 Comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell'agire diversamente dal dovuto. 2 Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l'altro la vita se ne va. 3 Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l'unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire.
...stammi bene.


I. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM


[1] Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi, et tempus quod adhuc aut auferebatur aut subripiebatur aut excidebat collige et serva. Persuade tibihoc sic esse ut scribo: quaedam tempora eripiuntur nobis, quaedamsubducuntur, quaedam effluunt. Turpissima tamen est iactura quae perneglegentiam fit. Et si volueris attendere, magna pars vitae elabitur maleagentibus, maxima nihil agentibus, tota vita aliud agentibus. [2] Quem mihidabis qui aliquod pretium tempori ponat, qui diem aestimet, qui intellegatse cotidie mori? In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna parseius iam praeterît; quidquid aetatis retro est mors tenet. Fac ergo, miLucili, quod facere te scribis, omnes horas complectere; sic fiet ut minusex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris. [3] Dum differtur vitatranscurrit. Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huiusrei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, ex qua expellitquicumque vult. Et tanta stultitia mortalium est ut quae minima et vilissimasunt, certe reparabilia, imputari sibi cum impetravere patiantur, nemo seiudicet quicquam debere qui tempus accepit, cum interim hoc unum est quod negratus quidem potest reddere. ...Vale



2
1 Da quanto mi scrivi e da quanto sento, nutro per te buone speranze: non corri qua e là e non ti agiti in continui spostamenti. Questa agitazione indica un'infermità interiore: per me, invece, primo segno di un animo equilibrato è la capacità di starsene tranquilli in un posto e in compagnia di se stessi. 2 Bada poi che il fatto di leggere una massa di autori e libri di ogni genere non sia un po' segno di incostanza e di
volubilità. Devi insistere su certi scrittori e nutrirti di loro, se vuoi ricavarne un profitto spirituale duraturo. Chi è dappertutto, non è da nessuna parte. Quando uno passa la vita a vagabondare, avrà molte relazioni ospitali, ma nessun amico. Lo stesso capita inevitabilmente a chi non si dedica a fondo a nessun autore, ma sfoglia tutto in fretta e alla svelta. 3 Non giova né si assimila il cibo vomitato subito dopo il pasto. Niente ostacola tanto la guarigione quanto il frequente cambiare medicina; non si cicatrizza una ferita curata in modo sempre diverso. Una pianta, se viene spostata spesso, non si irrobustisce; niente è così efficace da poter giovare in poco tempo. Troppi libri sono dispersivi: dal momento che non puoi leggere tutti i volumi che potresti avere, basta possederne quanti puoi leggerne. ...stammi bene.


II. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM


[1] Ex iis quae mihi scribis et ex iis quae audio bonam spem de te concipio: non discurris nec locorum mutationibus inquietaris. Aegri animi ista iactatio est: primum argumentum compositae mentis existimo posse consistere et secum morari. [2] Illud autem vide, ne ista lectio auctorum multorum et omnis generis voluminum habeat aliquid vagum et instabile. Certis ingeniis immorari et innutriri oportet, si velis aliquid trahere quod in animo fideliter sedeat. Nusquam est qui ubique est. Vitam in peregrinatione exigentibus hoc evenit, ut multa hospitia habeant, nullas amicitias; idem accidat necesse est iis qui nullius se ingenio familiariter applicant sed omnia cursim et properantes transmittunt. [3] Non prodest cibus nec corpori accedit qui statim sumptus emittitur; nihil aeque sanitatem impedit quam remediorum crebra mutatio; non venit vulnus ad cicatricem in quo medicamenta temptantur; non convalescit planta quae saepe transfertur; nihil tam utile est ut in transitu prosit. Distringit librorum multitudo; itaque cum legere non possis quantum habueris, satis est habere quantum legas. ...Vale.


Le lettere di Seneca
Continua

lunedì 12 luglio 2004

Le nostre radici antiche 3

Le nostre radici antiche III


La ricerca della felicità
in Cicerone


Sapevo di averlo generato mortale


A differenza di Lucrezio, Cicerone non si pronuncia mai dal punto di vista teorico sulla mortalità o immortalità dell’anima, ma cerca in concreto qualche conforto per la perdita dell’amatissima figlia Tullìola, morta di parto. Egli non teme la morte sua propria, e anzi la desidera nello stato di emarginazione politica in cui si trova (la maggior parte delle opere filosofiche è scritta sotto la dittatura di Cesare, quando gli è ormai preclusa ogni attività pubblica), ma piange quella di lei. Si immerge nella solitudine, passeggia nei boschi più fitti e selvaggi, come confessa all’amico Attico, legge e scrive di filosofia, intendendola essenzialmente come terapia dell’anima, chiamata a raccolta di tutte le energie psichiche atte a sconfiggere l’aegritudo. Nascono da quest’esperienza personale del dolore, oltre alla Consolatio a se stesso e all’Hortensius (opere perdute per noi, ma che spinsero Agostino a dedicarsi alla filosofia), il De flnibus bonorum et malorum e le Tusculanae disputationes.
Queste ultime costituiscono il tentativo più strenuo di stabilire che basta la virtù a garantire la felicità, come sostengono gli Stoici, anche in caso di malattia o di povertà o di esilio o di perdita dei propri cari. Il ragionamento, che a noi moderni appare un po’ astratto e aprioristico, è che fra i tre generi di beni, dell’anima, del corpo ed esterni, solo i beni dell’anima, ovvero le virtù (sapienza, giustizia, fortezza e temperanza), sono essenziali per la felicità. Soltanto esse, infatti, sono in pieno potere del sapiens, mentre i beni del corpo (salute, integrità delle membra, bellezza) e i beni esterni (materiali, come il benessere economico, o sociali, come l’affetto di familiari e amici e condizioni politiche soddisfacenti) dipendono dalla fortuna. Per quanto riguarda la capacità dell’uomo di tollerare il dolore fisico, ossia di essere felice anche se malato o invalido, Cicerone fa appello alla forza trainante degli esempi. Se sanno sopportare il dolore, grazie alla continuità dell’esercizio, il ragazzino spartano o lo schiavo gladiatore o il soldato veterano, altrettanto possiamo fare noi con la contentio animi (tensione, attivazione orientata di tutte le energie psichiche), la forza dell’abitudine, il dialogo interiore (sermo intumus), che prescrive di guardarsi da tutto ciò che è debole, vergognoso, non virile.
Più ardua è la lotta di Cicerone per dimostrare che si può essere felici anche in presenza di un lutto grave come la morte di un figlio.
Soccorrono anche in questo caso la meditatio e gli esempi (Tusc. libro III.cap.23.cpv.57) “E’ possibile tollerare, se altri hanno saputo farlo”.
Anassagora risponde a chi gli annuncia la morte del figlio: “Sapevo di averlo generato mortale”) (III, 14, 30) .
(Dal testo di Giuseppina Magnaldi)
Direbbe Dante: Saetta previsa vien più lenta.
Continua.


 

domenica 11 luglio 2004

 


Il post di oggi


Dal muro del pianto a quello della vergogna

Le nostre radici antiche II


La ricerca della felicità


Anche sulla paura della morte i versi lucreziani, fondati sulla concezione materialistica della dissoluzione dell’anima insieme col corpo, rappresentano una delle vie maestre con cui l’antichità cerca di consolare l’uomo per la sua mortalità:


La morte non è nulla per noi e non ci tocca per niente,
se la sostanza dell’anima ci appare mortale…
Quando cesseremo di esistere, dopo il divorzio dell’anima dal corpo,
la cui unione compone la nostra individualità,
nulla potrà più raggiungere i nostri sensi,
neppure il rimpianto dei bimbi
che correvano incontro ai nostri baci,
neppure le preoccupazioni per la sorte
del nostro cadavere, inumato o posto sul rogo
o lasciato in pasto alle fiere.



Al vecchio carico d’anni che non vuol morire si rivolge la natura personificata, ingiungendogli di cedere ad altri il suo posto: “Le cose si rinnovano una a spese dell’altra secondo un ordine obbligato…E’ necessaria materia nuova perché crescano le nuove generazioni…Gli esseri non cesseranno mai di nascere gli uni dagli altri. La vita non è stata concessa in proprietà a nessuno, a tutti in usufrutto.



Ancora, se la natura d'un tratto parlasse e a qualcuno di noi così facesse, in persona, questo rimprovero: "Che cosa, o mortale, ti preme tanto che indulgi oltremisura a penosi lamenti? Perché per la morte ti affliggi e piangi? Infatti, se ti è stata gradita la vita che hai trascorsa prima, né tutti i suoi beni, come accumulati in un vaso bucato, sono fluiti via e si sono dileguati senza che ne godessi, perché non ti ritiri, come un convitato sazio della vita, e non prendi, o stolto, di buon animo, un riposo sicuro?


Denique si vocem rerum natura repente.
mittat et hoc alicui nostrum sic increpet ipsa:
'quid tibi tanto operest, mortalis, quod nimis aegris
luctibus indulges? quid mortem congemis ac fles?
nam [si] grata fuit tibi vita ante acta priorque
et non omnia pertusum congesta quasi in vas
commoda perfluxere atque ingrata interiere;
cur non ut plenus vitae conviva recedis
aequo animoque capis securam, stulte, quietem?


Ma se tutti i godimenti che ti sono stati offerti, sono stati dissipati
e perduti, e la vita ti è in odio, perché cerchi di aggiungere ancora
q
uello che di nuovo andrà malamente perduto e tutto svanirà
senza profitto? Perché non poni piuttosto fine alla vita e al travaglio?
Infatti non c'è più nulla che io possa escogitare e scoprire
per te, che ti piaccia: tutte le cose sono sempre uguali.
Se il tuo corpo non è ancora sfatto dagli anni, né le membra
stremate languiscono, tuttavia tutte le cose restano uguali,
anche se tu dovessi vincere, continuando a vivere,
tutte le età, anzi perfino se tu non dovessi morire mai"; -
che cosa risponderemmo, se non che la natura intenta
un giusto processo e con le sue parole espone una causa vera?


sin ea quae fructus cumque es periere profusa
vitaque in offensost, cur amplius addere quaeris,
rursum quod pereat male et ingratum occidat omne,
non potius vitae finem facis atque laboris?
nam tibi praeterea quod machiner inveniamque,
quod placeat, nihil est; eadem sunt omnia semper.
si tibi non annis corpus iam marcet et artus
confecti languent, eadem tamen omnia restant,
omnia si perges vivendo vincere saecla,
atque etiam potius, si numquam sis moriturus',
quid respondemus, nisi iustam intendere litem
naturam et veram verbis exponere caus
am?
E quando ti dicono:
"Ora, ora mai più la casa ti accoglierà in letizia, né la sposa
ottima, né i dolci figli ti correranno incontro a contendersi
i primi baci, né invaderanno il tuo cuore di tacita dolcezza.
Non potrai essere uomo di prospere imprese, né sostegno
ai tuoi. A te misero dicono "un solo giorno
avverso tutti ha tolti i molti doni della vita".
Ma questo, a tale proposito, non aggiungono: "né più
il rimpianto di quelle cose ti accompagna e resta in te".
Se ciò vedessero chiaro con la mente e vi s'attenessero con le parole,
si scioglierebbero da grande angoscia e timore dell'animo.



E se ora un vecchio cadente si lagnasse e lamentasse
l'incombere della morte rattristandosi più del giusto,
non avrebbe essa ragione d'alzare la voce e rimbrottarlo con voce aspra?
"Via di qui con le tue lacrime, o uomo da baratro, e rattieni i lamenti.
Tutti i doni della vita hai già goduti e sei marcio.
Ma, perché sempre aneli a ciò che è lontano e disprezzi quanto è presente,
incompiuta ti è scivolata via, e senza profitto, la vita,
e inaspettatamente la morte sta dritta accosto al tuo capo
prima che tu possa andartene sazio e contento d'ogni cosa.
Ora, comunque, lascia tutte queste cose che non si confanno più alla tua età
e di buon animo, suvvia, cedi il posto ‹ad altri›: è necessario".



grandior hic vero si iam seniorque queratur
atque obitum lamentetur miser amplius aequo,
non merito inclamet magis et voce increpet acri:
'aufer abhinc lacrimas, baratre, et compesce querellas.
omnia perfunctus vitai praemia marces;
sed quia semper aves quod abest, praesentia temnis,
inperfecta tibi elapsast ingrataque vita,
et nec opinanti mors ad caput adstitit ante
quam satur ac plenus possis discedere rerum
.


Giusta, penso, sarebbe l'accusa, giusti i rimbrotti e gl'improperi.
Sempre infatti, scacciate dalle cose nuove, cedono il posto
le vecchie, ed è necessario che una cosa da altre si rinnovi;
né alcuno nel baratro del tenebroso Tartaro sprofonda.
Di materia c'è bisogno perché crescano le generazioni future;
che tutte, tuttavia, compiuta la loro vita, ti seguiranno;
e dunque non meno di te le generazioni son cadute prima, e cadranno.
Così le cose non cesseranno mai di nascere le une dalle altre,
e la vita a nessuno è data in proprietà, a tutti in usufrutto.



nunc aliena tua tamen aetate omnia mitte
aequo animoque, age dum, aliis concede nocesse est.
Cedit enim rerum novitate extrusa vetustas
semper, et ex aliis aliud reparare necessest.
Nec quisquam in baratrum nec Tartara deditur atra;
materies opus est, ut crescant postera saecla;
quae tamen omnia te vita perfuncta sequentur;
nec minus ergo ante haec quam tu cecidere cadentque.
sic aliud ex alio numquam desistet oriri
vitaque mancipio nulli datur, omnibus usu.


Lucrezio, III, vv. 880 sgg.


sabato 10 luglio 2004

La felicità degli antichi-1


Le nostre radici antiche I



La ricerca della felicità
in Lucrezio


Spunti da una conversazione tenuta il 27 maggio u.s. a Poppi da Giuseppina Magnaldi, docente di letteratura latina all’Università di Torino: Pinuccia per noi; grande infaticabile compagna di camminate nelle magnifiche faggete ad alto fusto delle foreste casentinesi. Le riflessioni che seguono sono rielaborazioni delle suggestioni seguite a quell’incontro.

I nomi ricorrenti saranno quelli di Socrate, Platone, Aristotele, Lucrezio, Cicerone, Seneca. Gente che credeva nella possibilità per l’uomo di essere felice, e di esserlo qui su questa terra, dal momento che “nessuna rivelazione di eternità garantisce la sopravvivenza dopo la morte”.
Tra il quarto e il terzo secolo a.C. i Greci hanno finito di combattersi città contro città, resi sudditi domestici dalla monarchia macedone, e i seguaci di Aristotele, Epicurei, Stoici e Peripatetici, focalizzano l’indagine “sulla natura del singolo essere vivente”, considerato com’è al momento della nascita. E’ un batuffolo di senso e istinto con dentro dei semi: i semi della ragione (semina rationis, Cicerone). Gli ortocultori - i filosofi ellenistici – studiano e suggeriscono varie modalità di sviluppo per questi semi: sono modalità tra loro anche molto differenti, ma c’è una analogia che le accomuna: tutti questi giardinieri sono convinti che la parte migliore dell’uomo sia la ragione la quale deve assoggettare la parte istintuale preponderante al momento della nascita, per raggiungere la felicità. I peripatetici sono per il metodo dolce: moderare gli istinti; gli stoici ci vanno di brutto: estirpare. Così si diventa virtuosi, cioè giusti, forti, temperanti, in una parola sapienti, e, in quanto tali, felici, almeno tendenzialmente.
L’immagine che corrisponde al concetto è il mare calmo della sera: aequor (distesa del mare) richiama aequus, animo felice. I due venti tempestosi che scompaginano questo mare portano il nome di cupiditas e metus.
Cupiditas = desiderio illimitato di ricchezza e di potere;
metus = paura irragionevole del dolore fisico e della morte, nostra e dei nostri cari.


Tutto questo è detto in prosa. Chi ha retto fino a qui merita di sentirselo dire in poesia:
È dolce, mentre nel grande mare i venti sconvolgono le acque,
guardare dalla terra la grande fatica di un altro;
non perché il tormento di qualcuno sia un giocondo piacere,
ma perché è dolce vedere da quali mali tu stesso sia immune.
Dolce è anche contemplare grandi contese di guerra
apprestate nei campi senza che tu partecipi al pericolo.
Ma nulla è più piacevole che star saldo sulle serene regioni
elevate, ben fortificate dalla dottrina dei sapienti,
donde tu possa volgere lo sguardo laggiù, verso gli altri,
e vederli errare qua e là e cercare, andando alla ventura,
la via della vita, gareggiare d'ingegno, rivaleggiare di nobiltà,
adoprarsi notte e giorno con soverchiante fatica
per assurgere a somma ricchezza e impadronirsi del potere.
O misere menti degli uomini, o petti ciechi


Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest.
suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli;
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
o miseras hominum mentes, o pectora caeca!



In che tenebre di vita e tra quanto grandi pericoli
si consuma questa esistenza, quale che sia! E come non vedere
che nient'altro la natura latrando reclama, se non che il dolore
sia rimosso e sia assente dal corpo, e nella mente essa goda
di un senso giocondo, libera da affanno e timore?
E dunque vediamo che alla natura del corpo sono necessarie
assolutamente poche cose, quelle che tolgono il dolore,
e sono tali che possono anche procurare molte delizie;
né la natura stessa talvolta richiede cosa più gradita -
se in casa non ci sono auree statue di giovani
che tengano nelle mani destre torce fiammeggianti,
sì che sia data luce ai notturni banchetti,
né il palazzo rifulge d'argento e brilla d'oro,
né alla cetra fanno eco i soffitti a riquadri e dorati -
quando tuttavia, familiarmente distesi sull'erba morbida,
presso un ruscello, sotto i rami di un albero alto,
con tenui mezzi ristorano giocondamente i corpi;
soprattutto quando il tempo arride e la stagione
cosparge di fiori le erbe verdeggianti.


qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?
ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino: quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint
gratius inter dum, neque natura ipsa requirit,
si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes
lampadas igniferas manibus retinentia dextris,
lumina nocturnis epulis ut suppeditentur,
nec domus argento fulget auroque renidet
nec citharae reboant laqueata aurataque templa,
cum tamen inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivum sub ramis arboris altae
non magnis opibus iucunde corpora curant,
praesertim cum tempestas adridet et anni
tempora conspergunt viridantis floribus herbas.


(Lucrezio, II, 1-33)


Continua...

Sessant'anni fa


fu un'estate memorabile per il raccolto, in Toscana e anche in Casentino, dove abitavo insieme alla gente mia campagnola: covoni di grano alti come pagliai, a prova di schegge e pallottole vaganti, patate bianche e saporite grosse come meloni, i soldati tedeschi sempre a bocca piena (Kartoffen). Per mandar giù le patate i tedeschi, in mancanza della birra, usavano il marsala della distilleria Stock di Rassina. Anch'io ho continuato a mandar giù bicchierini per alcuni anni a seguire, grazie alla botte lasciata a Guzzigli, podere camaldolese gestito dai miei zii, allora sede del Comando Tedesco di zona, centro di raccolta dei viveri razziati e destinati ai soldati al fronte, a quei tempi molto vicino. Una vera pacchia.


Su questa splendida geografia della Natura, questa fu la storia della Scimmia a stazione eretta.


Continua da queste parti.

venerdì 9 luglio 2004



"...quando sarò diventato
uno sguardo,
un palpito azzurro
nel cielo di Cupra".


Mario Bucci
5.1.1925 - 21-6.2004


 



Un saluto mio e di Paola a un amico che è rientrato.

L'autobus n.9

Il 9 è un autobus storico,


 




qui all’Isolotto di Firenze. Cinquant’anni fa esatti, quando La Pira consegnò mille appartamenti mille a istriani in fuga da Tito, a meridionali in fuga dalla miseria, a impiegati in fuga dai centri-sfrattati il 9 si affacciava arrancando nelle vicinanze, senza addentrarsi nelle nuove vie ancora in fase di costruzione e quando arrivava alla salita del Ponte alla Vittoria, in direzione del Centro, a volte gli stantuffi del motore avevano attacchi d’asma e bisognava scendere per dargli il fiato da respirare prima che espirasse. Poi, oltre il ponte, zona Porta a Prato, direzione stazione centrale la via filava liscia. Oggi è un lungo elegante serpente di 18 metri che sfreccia da Via Torcicoda, nuovo di fabbrica, elegante nelle sue maniglie rosse, particolarmente soddisfatto quando i giovani autisti, uomini e donne, che lo guidano mettono in mostra l’efficienza dei freni e la capacità di accelerazione che costringe noi barbebianche a non mollare di un attimo la presa delle maniglie, l’appoggio dei sostegni. In 8 minuti ci porta da Piazza Batoni a S.Maria Novella; o meglio ci portava; adesso possono passare anche 20 minuti; aspettiamo che la nuova riconfermata Amministrazione ci faccia intravedere la fine dei lavori stradali che rendono Firenze potenzialmente la Mecca dei podisti. Anche le biciclette di Ferrara qui farebbero fatica a mantenere la velocità media di crociera del caro vecchio intramontabile velocipede, così lo chiamano ancora i francesi:velò.


Con il seguente racconto surreale di Paola, compagna di vita, ispiratrice d’arte, fonte di serenità alleggerisco oggi il mio blog dall’ossessione sempre più incombente di questo nostro attuale capo del governo che, abbandonato dai più cari amici, si è messo a tirare il carro da solo. La strada è impervia, scoscesa, piena di curve; non basta il servofreno (Ah, la vecchia martinicca, voi giovani non l’avete mai vista, come non avete più visto un pagliaio!). Bisognerà saltare dal carro per l’opposto motivo per cui i vecchi isolottiani saltavano dal 9: loro per spingerlo e riprenderlo, noi per lasciarlo andare al suo destino, con il solo autista inguaribilmente uscito di senno.


Nella speranza di incrociare anche noi, per una volta, gli autisti dell’autobus n.9, come segue.


 



AUTOBUS DI PERIFERIA


 



Qualche volta succede che gli autobus, passino con molto ritardo alle fermate della periferia. La gente aspetta, si spazientisce, guarda i modelli esposti nella vetrina del negozio di abbigliamento, le scatole dei cioccolatini troppo grandi del bar in angolo e si scambia occhiate indignate.


Ma che fanno questi autisti? Ma dove si saranno cacciati? Io lo so dove s’infilano gli autisti dell’autobus numero 9, un serpentone lungo a due carrozze, nuovo, di un verde tenero e lucido, uno dei più belli della città. Lo so perché, incuriosito da queste lunghe e snervanti sparizioni, ho rifatto da me il percorso verso la periferia e ho scoperto che non è affatto vero quello che ci dicono e cioè che c’è una precisa fermata di capolinea e che tutto finisce lì. Sarebbe troppo semplice e in definitiva anche piuttosto deludente. In realtà l’autobus va molto al di là di quella fermata, s’inoltra nella piana, in mezzo alle fabbrichette di scarpe e di bidoni di plastica, oltrepassa il blocco bianco sporco dell’ASNU, poi corre via verso la collina spelacchiata che proprio per questo si chiama Calvana e arriva fin quasi alla città vicina. E allora? Non sapevo darmi ragione di tutto questo, capire perché non se ne sa nulla di questo percorso fuori città di cui gli autisti non dicono mai nulla. Mai che cerchino di giustificare i grandi ritardi, ma, se li guardi attentamente negli occhi, ti accorgi che c’è sotto qualcosa, un preciso segreto, che li potresti anche trattar male, non te lo diranno mai. Ma io sono un appassionato di segreti grandi e anche piccoli, ce la metto tutta per conoscerli perché non sopporto che la mia vita diventi grigia e piatta come quella di tanti, la maggior parte della gente, credo di poter dire. Gli eventi che interessano di solito, quelli che hanno una finalità precisa, che so, una partenza a un’ora stabilita, la spesa in un supermercato faraonico, un appuntamento di lavoro in un giorno qualsiasi oppure la visita a una mostra, un pranzo con gli amici, cento altre ne potrei dire, sono tutte cose che mi lasciano indifferente, di più, mi danno pena. Così sto sempre all’erta, in uno stato di attesa continua che succeda qualcosa di nuovo che mi ridia fiato, che mi faccia battere il cuore un po’ più rapido e mi stringa leggermente alla gola. A volte mi aspetto di svegliarmi con un viso diverso, vado allo specchio e niente.


Quando torno in città, dopo essere stato fuori, mi guardo in giro per vedere se le vie sono per caso un po’ cambiate, le chiese fuori posto, se c’è una bella statua nuova al posto di una che non m’era mai piaciuta. Lo stesso quando rientro in casa. Guardo se qualcuno ha portato un pacco di biscotti in cucina, una salsiccia in frigorifero, un libro interessante che io non abbia ancora letto sul comodino. E il fatto che questo non succede non mi toglie la voglia di continuare perché non saprei fare a meno dell’emozione che questo gioco mi comunica.


C’è un’altra cosa che mi coinvolge sempre e mi impedisce di annoiarmi, guardare bene la gente e cercar di capire cosa pensa, cosa vorrebbe dire al posto di quello che dice.


Anche questo è un aspetto del mistero, così mi piace chiamare questa specie di doppia realtà, una sotto gli occhi di tutti, l’altra che vive e respira dietro. E non è affatto vero che è difficile a percepirsi. Sta là sotto, se ti interessa saperla, se vuoi farlo. Spesso abbiamo troppa fretta e troppi stimoli esterni per capire davvero quanto è interessante la retrovita.


Ma, per tornare all’argomento, una mattina ho preso la Panda e sono andato anch’io laggiù nella piana. Oltrepassato il cavalcavia, è stato come inoltrarsi in un paese sconosciuto. La strada costeggiava il fiume, ma tutto intorno diventava un po’ più arido e polveroso, le case sparivano e anche la gente. Per un certo tratto mi sentivo ancora accompagnato dai blocchi bassi delle piccole fabbriche che occhieggiavano qua e là come funghi biancastri e malaticci. Poi finirono anche quelle. Anche il fiume mi sembrava diventato più brutto, scorreva piano, cosparso di larghe macchie biancastre di spurghi, chissà quante zanzare d’estate, ora nemmeno un’anatra selvatica, nemmeno una nutria. Talpe probabilmente ce n’erano parecchie infilate nelle buche che stavano sotto, quasi al pelo dell’acqua grigia. Provavo un po’ schifo a pensarci.


- Ma che ci viene a fare l’autobus qui – mi domandavo. A chi può servire questo percorso così fuori mano. Poi vidi la collinetta e l’autobus fermo proprio sotto.


Intorno c’era gente che parlava, rideva, si chiamava. Soprattutto bambini e ragazzi, vestiti come capita, con blusotti troppo larghi, calzoni adattati in qualche modo alla persona, che pareva si dessero un gran da fare. Mi avvicinai un po’ e vidi che erano dietro a dipingere l’autobus con vernici e pennelli. Sul fianco destro avevano dipinto dei fiori gialli immensi e un po’ sbilenchi, sul sinistro dei fiori rossi sotto un cielo con tanti soli. L’autista in un angolo, sotto un alberello stento, stava seduto a guardare e sembrava tranquillo.


Mi avvicinai.


- Vorrei capire – dissi – l’autobus arriva qui tutte le volte e succede sempre questa storia?-


- No di certo. Questa è la manutenzione straordinaria – rispose un po’ annoiato.


- E le altre volte? –


- Di tutto un po’-


- - Qualche volta qui ballano e cantano, si mangia qualcosa, a volte si parla e basta. Oppure mi aiutano a pulire la vettura. –


Lo guardavo e pensavo a come poteva essere così tranquillo di affidare l’autobus a quel gruppo di ragazzini cenciosi. Eppure le pitture erano belle, vivaci e comunicavano qualcosa, la voglia di vivere, direi, la bellezza delle cose. Ma quale bellezza, se lì di fiori non ce n’era uno, se le case sulla collinetta erano tutte baracche col tetto di bandone e coi cenci che sventolavano da tutte le parti.


- Ma voi autisti ci venite volentieri qui, l’avete scelto voi questo posto?-


- Non capisco il problema. – rispose lui guardandomi per la prima volta negli occhi.


- Lei ci sta volentieri nel casino di tutti i giorni, nei posti dove nessuno ti regala nulla e tu sei sotto pressione dalla mattina alla sera, scambiando poche parole a volte arrabbiate e ti butti giù la sera che sei proprio fatto?-


- Ma io c’ho i miei misteri da risolvere – risposi un po’ risentito. – Che crede –


- Beh, - rispose lui con un tono benevolo che mi fece sentir meglio – Allora vuol dire che non sta sempre a lavorare, a sbattersi per guadagnarsi da vivere, ma si diverte anche lei e magari senza dover pagare. Perché tutto si paga, presto anche l’aria buona per respirare dovremo comprarci, perché quella normale è diventata invivibile. E non ci sarà nemmeno più tanto tempo per dormire. Non ha visto che tutti quei grandi supermercati ora restano aperti anche la notte? –


Mi ero seduto accanto a lui sulla poca erba dell’argine.


- E le foglie, le piante – chiesi quasi come se riflettessi con me stesso – sopravvivranno o le faranno di plastica? –


- Bravo, e le macchine saranno così tante che faranno parcheggi perfino sui tetti delle case, rinforzati, si capisce. E i vestiti saranno di plastica anche loro. –


Masticavamo in silenzio, svogliati, guardando i ragazzini che avevano finito di sistemare l’autobus e parevano molto contenti.


- E quelli lassù – dissi a un certo punto, indicando le baracchette in cima alla collina – che ne ricavano di buono a stare fuori dal caderone? Non hanno casa, non hanno lavoro, le sembra un vita dignitosa?


- Nulla – rispose lui, alzando le spalle – quelli sono i paria, ma siccome non ne hanno coscienza e questo vuol dire proprio esser poveri fino in fondo, poveri da far pena, il doro desiderio è sedersi da Mc Donald e comprare le scarpe Nike per i loro figlioli. –


- E questo lo trova così incomprensibile? – azzardai – Lo trovo triste – rispose guardando fisso avanti a sé.


Concordavo, ma siccome non avevamo voglia di continuare a essere tristi, abbiamo guardato l’autobus che era proprio molto attraente coi suoi fiori colorati.


- I fiori – disse lui e aveva cambiato voce.


- Vede, è come se ci volessero impedire di farci prendere dallo sconforto, come se quei bambini volessero darci un messaggio positivo, che forse avrà qualche probabilità di aiutare qualcuno a inventare cose un po’ più decenti di quelle che ci tocca mandare giù ora. –


Poi si alzò, spolverandosi il fondo dei pantaloni e fece un cenno di saluto.


- Bisogna che vada, perché la gente a questo punto ha già aspettato abbastanza. –


- Non mi andava di risalire subito in macchina, anche perché ero inquieto e turbato da quello che avevo visto e sentito. Perciò volevo star solo. Scesi giù al fiume a guardare se c’erano le buche delle talpe. Così, a prima vista, non ne vidi, poi, guardando meglio, scorsi una famigliola intera, una bestia grossa con certi baffi lunghi e tre piccine che si rincorrevano vicino all’acqua. Mi parvero bellini, come sono tutti i cuccioli, bisognosi di essere protetti e rispettati come lo sono tutti gli animali.



Scritto da Paola e pubblicato con il suo permesso.


venerdì 2 luglio 2004



 


 


La sonda Cassini-Huygens in orbita attorno al pianeta degli anelli
 
1 Luglio 2004   ESA PR 36-2004. Dopo un viaggio di sette anni all'interno del Sistema Solare, la scorsa notte Cassini-Huygens, la sonda protagonista della missione congiunta NASA/ESA/ASI, è entrata con successo nell'orbita di Saturno.


Dante a bordo della sonda Cassini


Primo servizio


   O insensata cura de' mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l'ali!  


 Chi dietro a iura e chi ad amforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi, 


  e chi rubare e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s'affaticava e chi si dava a l'ozio, 


  quando, da tutte queste cose sciolto,
con Bëatrice m'era suso in cielo
cotanto glorïosamente accolto. 
Par. XI, 1-12


Secondo servizio


Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante;  135
  e quel consiglio per migliore approbo
che l' ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo.  138
  Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quell'ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa.  141
  L'aspetto del tuo nato, Iperïone,
quivi sostenni, e vidi com' si move
circa e vicino a lui Maia e Dïone.  144
  Quindi m'apparve il temperar di Giove
tra 'l padre e 'l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove;  147
  e tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi e quanto son veloci
e come sono in distante riparo.  150
  L'aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom'io con li etterni Gemelli,
tutta m'apparve da' colli a le foci;  153
  poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.    
   
Par XXII, 133-154


 

Padre Pio e Frate Francesco - L'eccezione e la regola



 


 


L'eccezione e La regola




S.Giovanni Rotondo, 1 lug. 2004


Il Business


(AGI) - - E' di oltre 50 milioni di euro l'anno il giro d’affari stimato del turismo religioso a S.Giovanni Rotondo; e' articolato in attivita' turistiche, commerciali e di editoria specializzata. Basti dire che 25 milioni di euro provengono dai diritti sui titoli legati al Santo delle stimmate. Rilevante anche il flusso di pellegrini che ogni anno fanno visita al santuario, primo in Italia e secondo nel mondo per affluenza solo a quello di Nostra Signora di Guadalupe.
Nel 2002 il flusso e' aumentato di quasi il 37% rispetto al 2001: era destinato a crescere dopo che il Papa ha concesso il privilegio dell’indulgenza plenaria ai fedeli che vanno a pregare sulla tomba del Santo. ... (AGI) .


Le buone intenzioni


L’autore della basilica dedicata al frate di Pietrelcina dice di non aver accettato l’incarico per soldi, «di cui per fortuna non bisogno», ma per misurarsi, da laico e credente, con una dimensione interiore, spirituale, «che mi ha portato a concepire quest’opera in pietra e in legno, due materiali forti, perché questi due elementi sono, per me, il ritratto della caratterialità e della umanità di Padre Pio, perché dalla sua presunta dimensione miracolistica non sono attratto ».
art. del Corriere


La regola


24. Si guardino bene i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e quanto altro viene costruito per loro, se non fossero come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre ospitandovi come forestieri e pellegrini.


25. Comando fermamente per obbedienza a tutti i frati che, dovunque si trovino, non osino chiedere lettera alcuna (di privilegio) nella curia romana, nè personalmente nè per interposta persona, nè per una chiesa nè per altro luogo, nè per motivo della predicazione, nè per la persecuzione dei loro corpi;


Dal Testamento di San Francesco (1226)

Lassù.


Frate Francesco si sposta dalla prima galleria per la seconda. Lo segue Giotto, più a malincuore.
In prima galleria Padre Pio si siede al posto di Francesco, di fianco a quello lasciato libero da Giotto, in attesa di Renzo Piano.


Cimabue (seconda galleria, secondi posti, non lontano da Dante): sorride sotto i baffi, guardando Giotto.


Commento di Dante (seconda galleria, secondi posti):


... la regola mia
rimasa è per danno de le carte.
75
Le mura che solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria. 78

La carne d'i mortali è tanto blanda,
che giù non basta buon cominciamento
dal nascer de la quercia al far la ghianda. 87
Pier cominciò sanz'oro e sanz'argento,
e io con orazione e con digiuno,
e Francesco umilmente il suo convento; 90
e se guardi 'l principio di ciascuno,
poscia riguardi là dov'è trascorso,
tu vederai del bianco fatto bruno. 93
Par,XII


Gino Bartali, ultime file del loggione: L'ho sempre detto: è tutto da rifare.


Divagazioni di Barbabianca:


A S.Pio Rotondo ieri i politici, presenti al completo, han fatto quadrato.


Un santuario destinato ad andar forte visto che l'ha fatto Piano.


"La c'è la c'è la Provvidenza", dice Renzo Tramaglino, riconvertito da artigiano tessile a operatore turistico.




 


 


Traianos DELLAS
AS Roma Difensore
Altezza: 1.96m. Peso: 95.00kg. NazionalitຠGr裥
Nato: 31/01/1976 a Monastiri







Il primo desiderio si è avverato: finale tra Portogallo e Grecia.


Aspetto l'inveramento del secondo mio desiderio.

giovedì 1 luglio 2004

Portogallo-Olanda: 2-1.


Bella partita. Così dovranno essere gli scontri tra uomini nel futuro. Ma bisogna garantirlo a chi verrà dopo, questo futuro. 


Sogno la finale Portogallo-Grecia, le ali dell'Europa del Sud.