sabato 10 luglio 2004

La felicità degli antichi-1


Le nostre radici antiche I



La ricerca della felicità
in Lucrezio


Spunti da una conversazione tenuta il 27 maggio u.s. a Poppi da Giuseppina Magnaldi, docente di letteratura latina all’Università di Torino: Pinuccia per noi; grande infaticabile compagna di camminate nelle magnifiche faggete ad alto fusto delle foreste casentinesi. Le riflessioni che seguono sono rielaborazioni delle suggestioni seguite a quell’incontro.

I nomi ricorrenti saranno quelli di Socrate, Platone, Aristotele, Lucrezio, Cicerone, Seneca. Gente che credeva nella possibilità per l’uomo di essere felice, e di esserlo qui su questa terra, dal momento che “nessuna rivelazione di eternità garantisce la sopravvivenza dopo la morte”.
Tra il quarto e il terzo secolo a.C. i Greci hanno finito di combattersi città contro città, resi sudditi domestici dalla monarchia macedone, e i seguaci di Aristotele, Epicurei, Stoici e Peripatetici, focalizzano l’indagine “sulla natura del singolo essere vivente”, considerato com’è al momento della nascita. E’ un batuffolo di senso e istinto con dentro dei semi: i semi della ragione (semina rationis, Cicerone). Gli ortocultori - i filosofi ellenistici – studiano e suggeriscono varie modalità di sviluppo per questi semi: sono modalità tra loro anche molto differenti, ma c’è una analogia che le accomuna: tutti questi giardinieri sono convinti che la parte migliore dell’uomo sia la ragione la quale deve assoggettare la parte istintuale preponderante al momento della nascita, per raggiungere la felicità. I peripatetici sono per il metodo dolce: moderare gli istinti; gli stoici ci vanno di brutto: estirpare. Così si diventa virtuosi, cioè giusti, forti, temperanti, in una parola sapienti, e, in quanto tali, felici, almeno tendenzialmente.
L’immagine che corrisponde al concetto è il mare calmo della sera: aequor (distesa del mare) richiama aequus, animo felice. I due venti tempestosi che scompaginano questo mare portano il nome di cupiditas e metus.
Cupiditas = desiderio illimitato di ricchezza e di potere;
metus = paura irragionevole del dolore fisico e della morte, nostra e dei nostri cari.


Tutto questo è detto in prosa. Chi ha retto fino a qui merita di sentirselo dire in poesia:
È dolce, mentre nel grande mare i venti sconvolgono le acque,
guardare dalla terra la grande fatica di un altro;
non perché il tormento di qualcuno sia un giocondo piacere,
ma perché è dolce vedere da quali mali tu stesso sia immune.
Dolce è anche contemplare grandi contese di guerra
apprestate nei campi senza che tu partecipi al pericolo.
Ma nulla è più piacevole che star saldo sulle serene regioni
elevate, ben fortificate dalla dottrina dei sapienti,
donde tu possa volgere lo sguardo laggiù, verso gli altri,
e vederli errare qua e là e cercare, andando alla ventura,
la via della vita, gareggiare d'ingegno, rivaleggiare di nobiltà,
adoprarsi notte e giorno con soverchiante fatica
per assurgere a somma ricchezza e impadronirsi del potere.
O misere menti degli uomini, o petti ciechi


Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest.
suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli;
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
o miseras hominum mentes, o pectora caeca!



In che tenebre di vita e tra quanto grandi pericoli
si consuma questa esistenza, quale che sia! E come non vedere
che nient'altro la natura latrando reclama, se non che il dolore
sia rimosso e sia assente dal corpo, e nella mente essa goda
di un senso giocondo, libera da affanno e timore?
E dunque vediamo che alla natura del corpo sono necessarie
assolutamente poche cose, quelle che tolgono il dolore,
e sono tali che possono anche procurare molte delizie;
né la natura stessa talvolta richiede cosa più gradita -
se in casa non ci sono auree statue di giovani
che tengano nelle mani destre torce fiammeggianti,
sì che sia data luce ai notturni banchetti,
né il palazzo rifulge d'argento e brilla d'oro,
né alla cetra fanno eco i soffitti a riquadri e dorati -
quando tuttavia, familiarmente distesi sull'erba morbida,
presso un ruscello, sotto i rami di un albero alto,
con tenui mezzi ristorano giocondamente i corpi;
soprattutto quando il tempo arride e la stagione
cosparge di fiori le erbe verdeggianti.


qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?
ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino: quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint
gratius inter dum, neque natura ipsa requirit,
si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes
lampadas igniferas manibus retinentia dextris,
lumina nocturnis epulis ut suppeditentur,
nec domus argento fulget auroque renidet
nec citharae reboant laqueata aurataque templa,
cum tamen inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivum sub ramis arboris altae
non magnis opibus iucunde corpora curant,
praesertim cum tempestas adridet et anni
tempora conspergunt viridantis floribus herbas.


(Lucrezio, II, 1-33)


Continua...

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