lunedì 12 luglio 2004

Le nostre radici antiche 3

Le nostre radici antiche III


La ricerca della felicità
in Cicerone


Sapevo di averlo generato mortale


A differenza di Lucrezio, Cicerone non si pronuncia mai dal punto di vista teorico sulla mortalità o immortalità dell’anima, ma cerca in concreto qualche conforto per la perdita dell’amatissima figlia Tullìola, morta di parto. Egli non teme la morte sua propria, e anzi la desidera nello stato di emarginazione politica in cui si trova (la maggior parte delle opere filosofiche è scritta sotto la dittatura di Cesare, quando gli è ormai preclusa ogni attività pubblica), ma piange quella di lei. Si immerge nella solitudine, passeggia nei boschi più fitti e selvaggi, come confessa all’amico Attico, legge e scrive di filosofia, intendendola essenzialmente come terapia dell’anima, chiamata a raccolta di tutte le energie psichiche atte a sconfiggere l’aegritudo. Nascono da quest’esperienza personale del dolore, oltre alla Consolatio a se stesso e all’Hortensius (opere perdute per noi, ma che spinsero Agostino a dedicarsi alla filosofia), il De flnibus bonorum et malorum e le Tusculanae disputationes.
Queste ultime costituiscono il tentativo più strenuo di stabilire che basta la virtù a garantire la felicità, come sostengono gli Stoici, anche in caso di malattia o di povertà o di esilio o di perdita dei propri cari. Il ragionamento, che a noi moderni appare un po’ astratto e aprioristico, è che fra i tre generi di beni, dell’anima, del corpo ed esterni, solo i beni dell’anima, ovvero le virtù (sapienza, giustizia, fortezza e temperanza), sono essenziali per la felicità. Soltanto esse, infatti, sono in pieno potere del sapiens, mentre i beni del corpo (salute, integrità delle membra, bellezza) e i beni esterni (materiali, come il benessere economico, o sociali, come l’affetto di familiari e amici e condizioni politiche soddisfacenti) dipendono dalla fortuna. Per quanto riguarda la capacità dell’uomo di tollerare il dolore fisico, ossia di essere felice anche se malato o invalido, Cicerone fa appello alla forza trainante degli esempi. Se sanno sopportare il dolore, grazie alla continuità dell’esercizio, il ragazzino spartano o lo schiavo gladiatore o il soldato veterano, altrettanto possiamo fare noi con la contentio animi (tensione, attivazione orientata di tutte le energie psichiche), la forza dell’abitudine, il dialogo interiore (sermo intumus), che prescrive di guardarsi da tutto ciò che è debole, vergognoso, non virile.
Più ardua è la lotta di Cicerone per dimostrare che si può essere felici anche in presenza di un lutto grave come la morte di un figlio.
Soccorrono anche in questo caso la meditatio e gli esempi (Tusc. libro III.cap.23.cpv.57) “E’ possibile tollerare, se altri hanno saputo farlo”.
Anassagora risponde a chi gli annuncia la morte del figlio: “Sapevo di averlo generato mortale”) (III, 14, 30) .
(Dal testo di Giuseppina Magnaldi)
Direbbe Dante: Saetta previsa vien più lenta.
Continua.


 

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