martedì 27 luglio 2004

Nota: col permesso dell'autrice, pubblico il testo della conferenza tenuta dalla Prof.ssa Magnaldi. Per far capire meglio la mia rielaborazione confezionata nei post precedenti intitolati "le nostre antiche radici".
Grazie, Pinuccia.

La felicità degli antichi


Argomento della mia esposizione non sarà, in generale, “la felicità”, come troppo ambiziosamente recita il titolo apposto al nostro incontro, ma “la felicità degli antichi”. Proverò infatti a riassumere, in base alle mie competenze di antichista, la concezione che la cultura greco-latina ebbe della felicità come sommo bene, fine ultimo a cui tendono e su cui si commisurano tutte le azioni dell’individuo, qualunque sia il genere di vita (bios) prescelto da ciascuno.
A differenza della maggior parte delle etiche moderne, quelle antiche (da Socrate a Platone ad Aristotele fino a Lucrezio, Cicerone e Seneca) sono tutte eudaimonistiche, ovvero credono nella possibilità per l’uomo di essere felice, e di esserlo qui su questa terra, dal momento che nessuna rivelazione di eternità garantisce la sopravvivenza dopo la morte. C’è tuttavia un momento particolare in cui la speculazione sulla felicità sembra assorbire le migliori energie dei filosofi, ed è il periodo ellenistico (IV-III sec. a. C.), quando la città-stato greca ha ormai ceduto il passo alla monarchia macedone e il libero cittadino ateniese, lo zoon politikon per eccellenza, il cui destino privato si intrecciava indissolubilmente con quello pubblico, è diventato un suddito: cittadino del mondo, dicono i filosofi, ma più realisticamente, commentiamo noi, uomo solo alle prese col suo personale progetto di vita da adeguare alle nuove contingenze storiche.
E’ in questo periodo che i pensatori post-aristotelici, Epicurei, Stoici e Peripatetici, focalizzano l’indagine sulla natura del singolo essere vivente, cercando di definirla scientificamente. Il momento in cui essa si presenta per così dire allo stato puro, ancora indenne dai condizionamenti sociali (cattivi costumi e false opinioni), è quello della nascita. In questo stadio primigenio l’essere vivente (animal) appare tutto teso ad amare se stesso e ad autoconservarsi. Proprio di qui, da questa tendenza istintiva all’amore di sé e alla salvaguardia della propria integrità psico-fisica, prende le mosse il processo di perfezionamento, che può e deve condurre l’uomo a raggiungere il sommo bene e ad acquisire la felicità. Oikeiosis, ovvero accasamento, appropriazione di ciò che è davvero nostro, è il nome di questa dottrina naturalistica che collega il fine della vita umana al suo principio. Del resto, “conosci te stesso” era l’antico precetto dell’Apollo di Delfi, che Nietzsche tradurrà suggestivamente con “diventa quello che sei”.
Che cos’è dunque l’uomo al momento della nascita? Soprattutto sensorialità e istinto, constatano i filosofi, ma anche ragione, sia pure soltanto allo stato virtuale: semina rationis è il termine che usa Cicerone, cui dobbiamo la traduzione in latino, e dunque la trasmissione al mondo moderno, dell’oikeiosis greca. Sulle modalità di sviluppo di quei semi, un vocabolo botanico derivato da Teofrasto, si concentrano le filosofie ellenistiche, con divergenze notevoli che sarebbe però fuori luogo esaminare in questa sede. Preferisco soffermarmi sull’analogia di fondo che le accomuna: la convinzione che la parte migliore dell’uomo sia la ragione, e che ad essa vada perciò progressivamente assoggettata, a mano a mano che si diventa adulti, la componente istintuale o affettiva, preponderante al momento della nascita. La lotta della ragione contro le passioni, da moderare, come dicono i Peripatetici, o da estirpare, come dicono gli Stoici, diventa così l’unica strada possibile per autorealizzarsi come esseri virtuosi (ossia giusti, forti, temperanti, in una parola sapienti), e in quanto tali raggiungere la felicità.
Le passioni, infatti, soggiogano l’animo (patior) e lo sommuovono, mentre per essere felice esso deve mantenersi sempre uguale a se stesso, non esaltarsi nella laetitia (euforia, ebbrezza della gioia eccessiva) né rinserrarsi nell’aegritudo (ansia, angoscia, depressione). I due termini greci che designano questa condizione di costante equilibrio psichico sono apatia (stoico) e atarassia (epicureo). L’aggettivo latino che descrive l’animo felice è aequus = piatto, eguale, etimologicamente collegato con aequor, la ferma distesa del mare calmo. Tutte le passioni, esplorate una per una con sottile finezza dai filosofi antichi, nascono da due tendenze morbose (vitia) fondamentali: cupiditas e metus. La cupiditas è il desiderio illimitato di ricchezza (avaritia) e di potere (ambitio). Il metus è la paura irragionevole del dolore fisico e della morte, nostra e dei nostri cari.
Contro le lotte defatiganti che la maggior parte degli uomini intraprende per conquistare ricchezza e potere si esprime Lucrezio, sulle orme di Epicuro, nel proemio del secondo libro del De rerum natura, esaltando la felicità appartata del saggio che contempla il mondo dall’esterno, con pietoso distacco:
(Lucr. 2.1-33) E’ dolce, quando sul vasto mare i venti sollevano i flutti, assistere da terra alle dure prove altrui, non perché quella sofferenza sia un piacere per noi, ma perché vediamo a quali mali siamo riusciti a sfuggire. E’ dolce occupare saldamente gli alti luoghi fortificati dalla scienza dei saggi: regioni serene da dove si può abbassare lo sguardo sugli altri uomini, vederli errare, cercare a tentoni il cammino della vita, competere in genialità, disputarsi la gloria, sforzarsi notte e giorno di elevarsi al colmo delle ricchezze o impadronirsi del potere. O misero cuore degli uomini, o mente accecata! In quali tenebre si trascorre quel breve istante che è la vita! Non sentite quel che grida la natura? Null'altro reclama che l'assenza di dolore per il corpo e di inquietudine per lo spirito. Se la nostra casa non riluce di oro, a noi basta, distesi fra amici su un morbido prato, presso un’acqua corrente, sotto i rami di un albero, appagare con poco il nostro appetito, specie se il tempo sorride e la stagione cosparge di fiori il verde dell’erba.
Anche sulla paura della morte i versi lucreziani, fondati sulla concezione materialistica della dissoluzione dell’anima insieme col corpo, rappresentano una delle vie maestre con cui l’antichità cerca di consolare l’uomo per la sua mortalità:
(Lucr. 3.830 sgg. ) La morte non è nulla per noi e non ci tocca per niente, se la sostanza dell’anima ci appare mortale… Quando cesseremo di esistere, dopo il divorzio dell’anima dal corpo, la cui unione compone la nostra individualità, nulla potrà più raggiungere i nostri sensi, neppure il rimpianto per i bimbi che correvano incontro ai nostri baci, neppure le preoccupazioni per la sorte del nostro cadavere, inumato o posto sul rogo o lasciato in pasto alle fiere. Al vecchio carico d’anni che non vuol morire si rivolge la natura personificata, ingiungendogli di cedere ad altri il suo posto: “Le cose si rinnovano una a spese dell’altra secondo un ordine obbligato… E’ necessaria materia nuova (atomi) perché crescano le nuove generazioni… Gli esseri non cesseranno mai di nascere gli uni dagli altri. La vita non è stata concessa in proprietà a nessuno, a tutti in usufrutto”.
A differenza di Lucrezio, Cicerone non si pronuncia mai dal punto di vista teorico sulla mortalità o immortalità dell’anima, ma cerca in concreto qualche conforto per la perdita dell’amatissima figlia Tullìola, morta di parto. Egli non teme la morte sua propria, e anzi la desidera nello stato di emarginazione politica in cui si trova (la maggior parte delle opere filosofiche è scritta sotto la dittatura di Cesare, quando gli è ormai preclusa ogni attività pubblica), ma piange quella di lei. Si immerge nella solitudine, passeggia nei boschi più fitti e selvaggi, come confessa all’amico Attico, legge e scrive di filosofia, intendendola essenzialmente come terapia dell’anima, chiamata a raccolta di tutte le energie psichiche atte a sconfiggere l’aegritudo. Nascono da quest’esperienza personale del dolore, oltre alla Consolatio a se stesso e all’Hortensius (opere perdute per noi, ma che spinsero Agostino a dedicarsi alla filosofia), il De finibus bonorum et malorum e le Tusculanae disputationes.
Alla prima opera dobbiamo gran parte di ciò che sappiamo sulla dottrina greca dell’oikéiosis; alla seconda il tentativo più strenuo di stabilire che basta la virtù a garantire la felicità, come sostengono gli Stoici, anche in caso di malattia o di povertà o di esilio o di perdita dei propri cari. Il ragionamento, che a noi moderni appare un po’ astratto e aprioristico, è che fra i tre generi di beni, dell’anima, del corpo ed esterni, solo i beni dell’anima, ovvero le virtù (sapienza, giustizia, fortezza e temperanza), sono essenziali per la felicità. Soltanto esse, infatti, sono in pieno potere del sapiens, mentre i beni del corpo (salute, integrità delle membra, bellezza) e i beni esterni (materiali, come il benessere economico, o sociali, come l’affetto di familiari e amici e condizioni politiche soddisfacenti) dipendono dalla fortuna.
Per quanto riguarda la capacità dell’uomo di tollerare il dolore fisico, ossia di essere felice anche se malato o invalido, Cicerone fa appello alla forza trainante degli esempi. Se sanno sopportare il dolore, grazie alla continuità dell’esercizio, il ragazzino spartano o lo schiavo gladiatore o il soldato veterano, altrettanto possiamo fare noi con la contentio animi (tensione, attivazione orientata di tutte le energie psichiche), la forza dell’abitudine, il dialogo interiore (sermo intumus), che prescrive di guardarsi da tutto ciò che è debole, vergognoso, non virile. Più ardua è la lotta di Cicerone per dimostrare che si può essere felici anche in presenza di un lutto grave come la morte di un figlio. Soccorrono anche in questo caso gli esempi (Tusc. 3.57 “E’ possibile tollerare, se altri hanno saputo farlo”; Tusc. 3.29: Anassagora risponde a chi gli annuncia la morte del figlio: “Sapevo di averlo generato mortale”) e la meditatio. Gran parte del nostro dolore non nasce dalla natura ma dalla falsa opinione che sia giusto soffrire: in realtà la natura non ci chiede affatto di accettare la sofferenza o di manifestarla con modalità contrarie al decoro, ma ci esorta ad amare gli altri come noi stessi; se ci affliggiamo per qualcuno, ci comportiamo contro natura, perché amiamo un altro più di quanto non amiamo noi stessi.
Non tutti i filosofi antichi consentono col principio stoico che basti la virtù per essere felici: Teofrasto, per esempio, nega che la felicità sia in potere del sapiens, il quale si trova anche lui, come il resto del genere umano, in balia della fortuna per quanto riguarda i beni del corpo e quelli esterni. Altri Peripatetici tornano alla formula quantitativa e ‘media’ di Aristotele, secondo cui può definirsi felice un uomo che agisca secondo perfetta virtù e sia provvisto di una sufficiente quantità di beni corporei ed esterni. In ogni caso, ciò che tutte le etiche antiche prescrivono all’individuo come soggetto morale non è tanto raggiungere la felicità quanto fare il possibile per raggiungerla: come il compito dell’arciere non consiste nel colpire il bersaglio, ma nel fare tutto il possibile per colpirlo, compito dell’uomo non è conseguire il sommo bene, ma adoprarsi con tutte le sue forze per conseguirlo (Cic. fin. 3.22).
Sulle varie tappe di questo processo lungo e difficile verso la perfezione fanno luce le Lettere a Lucilio di Seneca, tanto più affascinanti in quanto scritte a un amico più giovane, ancora impegnato nell’amministrazione dello stato, da un uomo che si sta preparando a morire (dopo essersi ritirato a vita privata una volta fallito il progetto politico di trasformare Nerone in un principe illuminato). Lo spunto per la meditazione filosofica è offerto dalla quotidianità: un viaggio, un incontro, una vacanza, un’indisposizione. Le esortazioni riguardano l’uso del tempo (epist. 1 Lucilio, vindica te tibi, renditi padrone di te stesso, raccogli e custodisci quel tempo che ti viene continuamente sottratto o ti sfugge); la concentrazione nella lettura (epist. 2 C’è qualcosa di vago e instabile nel vagabondare tra un autore e l’altro: dopo aver letto, scegli un solo pensiero che tu possa assimilare quel giorno); la diffidenza nei confronti degli occupati (epist. 8 Credimi, quelli che sembrano non fare nulla compiono azioni molto più grandi di chi è perennemente indaffarato: meditano sulle cose umane e divine); la coerenza fra le parole e i fatti (epist. 20 La filosofia insegna ad agire, non a parlare; le parole non devono essere in contraddizione con la vita né questa deve discordare da se stessa: unus color); il rapporto di benevolenza e perfino di amicizia con gli schiavi (epist. 47 Servi sunt, immo homines. Servi sunt, immo humiles amici. Servi sunt, immo conservi, se pensi che la fortuna esercita lo stesso potere su noi e loro).
Sarebbe impossibile seguire nei particolari questo itinerario rigoroso e complesso verso la perfezione, ma lo si può riassumere prendendo a prestito la frase finale dell’ultima lettera sulla falsa equiparazione tra felicità e successo: “Eccoti, dice Seneca a Lucilio nell’epist. 124, una formula sintetica per misurare i tuoi progressi e darti la coscienza della raggiunta perfezione: possiederai il vero bene il giorno in cui capirai che gli uomini comunemente ritenuti felici sono in realtà i più infelici. Addio”.


Poppi, 27 maggio 2004


Bibliografia
Cicerone, Tuscolane, BUR, Milano 1996
Lucrezio, La natura delle cose, BUR, Milano 1994
Seneca, Lettere a Lucilio, BUR, Milano 1974
De Luise Fulvia – Farinetti Giuseppe, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Einaudi, Torino 2001
Magnaldi Giuseppina, L’oikeiosis peripatetica in Ario Didimo e nel De finibus di Cicerone, Le Lettere, Firenze 1991
Nussbaum Martha, La fragilità del bene, trad. it. Il Mulino, Bologna ??
         

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