mercoledì 11 maggio 2005




UN ODORE DIVERSO


Quell’estate rimasi sola per quindici giorni perchè i padroni erano andati via. I primi tre o quattro e godetti pazzamente, correndo qua e là per i campi intorno e tornando alla casa solo quando il sole ricompariva, profumata di terra e col pelo annodato di bacche spinose e fili d’erba secca. Guardavo i gatti con disprezzo, come del resto avevo sempre fatto, ma ora di più perché mi sentivo libera e loro invece erano sempre lì accoccolati vicino al tavolo sotto l’ombra dei bossi e si muovevano solo la mattina quando arrivava in macchina la Lori dal paese a riempirci la scodella di croccantini, a tutt’e quattro. Quando mi buttavo per terra stanca e allungavo il muso per sentire la frescura dell’erba, li guardavo con rabbia e pensavo a come potevano stare lì squinternati al sole le mezze giornate, senza cercare odori, senza correre giù verso il bosco dove frusciavano le lucertole, buoni solo a confondere le loro teste lanose e grigie sul bordo della scodella per mangiare. Senza interrompersi mai, senza guardare intorno, come stupidi. Allora correvo su all’impazzata, ci ficcavo anch’io il muso in quella scodella e facevo piazza pulita degli odiati croccantini. Solo per levarli a loro. Sapevo che gli amici dei padroni li trovavano carini quei gatti. La vecchia gatta quasi persiana dal muso stucchevolmente perfetto con gli occhi verdi piazzati in diagonale stava sempre all’ombra sotto i ciuffi di rosmarino, quasi senza muoversi, con quell’espressione fissa tanto sdolcinata che pareva tonta. Secondo me, aveva il pelo abbastanza acciaccato e ormai irrecuperabile, anche se non faceva altro che leccarsi. Poi c’era il maschietto figlio, bello a suo modo col muso da duro e il triangolo bianco del pelo davanti. Quando chiudeva gli occhi, mi venivano in mente i bambini molto piccoli che qualche volta avevo visto in carrozzina. Lui invece stava spesso sdraiato sotto il tavolo e di lì guardava ogni tanto dalle fessure degli occhi. Quando era più piccolo, lo avevo amato un po’, rincorrendolo e leccandolo, ma col tempo lui si era  ribellato, aveva imparato a soffiare e non voleva più giocare con me. Poi c’era la smorfiosa, la rossina magra dagli occhi gialli nel musino a triangolo. Era agile e flessuosa quando correva giù per l’orto fra le gambe della padrona. Quando lei la carezzava, diventava gelosa matta. 

Perché il suo pelo era rado e il suo corpo magro e non c’era paragone col mio pelo riccio e nero che era un nero quasi blu e fra i suoi occhietti gialli e i miei che sono color dell’orzo bruciato. Lo so che in certi momenti hanno l’aria birbona, ma proprio di questo sono contenta, come delle mie zampe grosse e ben piantate, delle unghie solide e scure, rivestite di un bel pelo marrone, della coda affilata con lo spennacchietto bianco in cima che sembra intinto nel latte – una cosa unica, credo – e sotto, all’attaccatura, quel praticello nocciola che pare sfuggito per caso alla colorazione nera di tutto il resto. Per questo vorrei che tutti guardassero e carezzassero me, quelli che hanno il potere di farlo, come i padroni e i loro amici. E così aspettavo lei quando veniva, quell’amica che mi faceva segno di lontano e mi abbracciava in quel modo, mentre io sentivo un odore che avevo sentito anche altre volte, ma così forte mai. Mi ricordava un odore vecchio, che non sono tanto sicura se l’ho davvero sentito o l’ho solo immaginato, l’odore della mia mamma in quel brevissimo tempo in cui stetti con lei. Io lo avevo capito subito che quegli abbracci erano diversi, erano un po’ come i miei, lo sentivo che confondevano due nature simili, due odori che si mescolavano volentieri. Aprivo la bocca, lei mi ci infilava la mano e io stringevo, ma poco e intanto sentivo il sapore della carne calda e tastavo con la punta affilata dei canini gli ossetti duri e delicati. Quando diceva “Basta”, smettevo di stringere, ma a malincuore perché quello era il modo che preferivo per sentire la sua presenza, per assaporare il gusto della sua carne che era diversa dalla mia, ma anche simile. E poi lei mi iniziò a quella incredibile esperienza dell’accarezzamento del mio corpo che faceva con una mano a cominciare dal petto, scendendo poi giù alle cosce che io divaricavo ben bene perché le carezze fossero più profonde. E intanto mi diceva parole dolci. “Ma di chi è questo bel pettorone bianco, ma di chi sarà questa bella pancia rosa morbidona e queste belle cosciotte color oro fulvo di chi sono”.

Questo lo faceva con una mano mentre con l’altra mi reggeva una zampa e intanto mi stringeva la testa. Il fatto era che lei si stufava dopo un po’.

- Via, ora ho da fare – diceva scostandomi e io invece non ne volevo sapere perché con cosa avrei potuto sostituire quel piacere? Allora tornavo all’assalto, insistevo strofinando la testa contro il suo braccio, ma lei si arrabbiava e si allontanava brusca. Ma sapevo che sarebbe tornata perché anche lei era attratta dalla richiesta evidente nei miei occhi, quando la guardavo stesa sul pavimento della cucina. Quel messaggio che mandavo le faceva assaporare il momento in cui avrebbe infilato le mani nel pelo folto del mio petto, sotto la gola e mi avrebbe chiuso la bocca per un attimo ridendo, mentre fissava il mio muso che si contorceva per liberarsi. Qualche volta mi tirava i baffi e me li lasciavo tirare perché faceva piano e poi finiva sempre a carezzare. Dopo il lungo  tempo della notte in cui loro erano chiusi in casa e noi fuori sotto la loggia e nella capanna degli attrez-zi, imparai ad aspettarla la mattina, quando apriva la porta-finestra della camera. Appena la intravedevo fra le ante che si aprivano, le saltavo addosso con le zampe al petto. Lei rimaneva male all’inizio, disturbata dalla violenza, ma poi finiva soggiogata, quel tanto che mi bastava a compensare la lunga mancanza della notte. Un altro appostamento era al filo dove tendeva i panni. Mentre lei scendeva il leggero pendio col catino della roba lavata, sapevo che avrei potuto avere la meglio e la prendevo da dietro, appuntandole le zampe alle spalle. Una volta le strappai la camicetta e lei mi allontanò infuriata. Ma sapevo che sarei potuta tornare a girarle là intorno, mentre finiva di stendere i panni e intanto mi parlava, un po’ sgridandomi, un po’ facendomi complimenti, Ormai la conoscevo bene e sapevo che la sgridata era una nuvola leggera che sarebbe scomparsa presto e che comunque rendeva più godibile il ritorno del sereno.

Un’altra occasione che cercavo di non lasciarmi scappare mai era quando entrava in casa da un’entrata laterale. C’era una scaletta che girava ad angolo. Se mi mettevo sulla sinistra della scala, lei a un certo punto, passandomi accanto, si trovava sotto di me e io potevo allungare una zampa e toccarla. Avrei potuto addirittura saltarle addosso, ma non lo feci mai perché mi sembrava veramente un’arditezza eccessiva, che lei non mi avrebbe perdonata mai e invece che una richiesta, sarebbe diventata una violenza. Non mi ci riconoscevo.

In quei giorni d’estate non facevo un gran che. Il caldo mi levava la voglia di fare le corse pazze giù al paese dove c’erano i mangiari che la gattara preparava per i gatti spersi. Non arrivavo più nemmeno al fiume che scorreva, pulito e tranquillo, data la scarsezza dell’acqua e dove avrei potuto rincorrere le anatre che ci stavano sempre piuttosto fitte. Erano là impettite, con l’aria stupida. Mi piaceva spaventarla, ma era sempre una fatica perché si tenevano al largo col loro fare sussiegoso.                           .

Quando il verde degli alberi stava ormai ingiallendo e la valle si faceva più silenziosa e cominciava a riprendere quel colore viola bruno che mi piaceva tanto, lei tornò e mi accorsi che era cambiata, con qualche ruga in più e l’aria un po’ abbattuta. Ma era più attenta a me. Mi faceva dei giochi che prima non faceva, come voltarsi all’improvviso, mentre riposavo e magari aspettavo che arrivasse l’occasione, e venire lei a prendermi il muso e stringerlo o carezzarmi sulla testa e sulla pancia. Era una sensazione incredibile quella del passaggio improvviso dall’aspettativa incerta alla felicità straripante che mi riempiva tutta. A volte addirittura entrava in una stanza che restava sempre semibuia con le imposte accostate, fingendo di andare a prendere qualcosa, io la seguivo a due passi di distanza. Il buio mi ha sempre dato un senso di attesa ma anche d’inquietudine.

A un certo momento, di scatto si voltava ed era tutta per me in un gioco meraviglioso a cui la penombra della stanza aggiungeva incanto. E io la ripagavo bevendo sempre dalla caldarella quando lei portava l’acqua ai vasi dei fiori o trascurando la scodella dei croccantini per mangiare solo i tozzetti di pane secco che lei mi dava, quand’eravamo sole in cucina.

Ora mi lasciava entrare spesso in casa. Stavo sdraiata in un angolo della grande stanza e giravo gli occhi dietro a lei che si spostava qua e là. Aspettavo il tozzetto e forse più il gesto, ma lei spesso era pensosa. Speravo che si voltasse improvvisamente, con quello scarto che mi piaceva tanto e mi immergesse finalmente le mani nel folto del pelo. 

Qualche volta lo faceva, allora la guardavo con gli occhi che mi pareva fossero diventati incandescenti e la vedevo tornata quella di sempre, mentre mi diceva: - Questo è il pettorone più bello del mondo e questa è la panciona più speciale che c’è.- Quando andò via, mi lasciò entrare in camera dove non ero mai stata altro che di sfuggita, perché avevo capito che non voleva e vidi tutti i preparativi. Toglieva dall’armadio i vestiti, li piegava e li riponeva in valigia. Tolse anche tutto quello che c’era sul tavolino. Quando uscì, non ebbi la forza di saltarle addosso e neppure di andare alla macchina. Rimasi a guardare da lontano mentre lei accomodava tutto ed entrava. Da ultimo si voltò, mandandomi uno sguardo che mi inchiodò lì ferma. Seguii con gli occhi la macchina fino a che sparì alla curva. Allora andai in capanna e ci rimasi fino a notte. Sentii che mi cercavano.

Parecchie altre amiche della padrona sono venute dopo, ma non avevano quell’odore.


Racconto inedito di Paola (p.g.c.), su sollecitazione di Ornella.

Nessun commento:

Posta un commento