venerdì 26 agosto 2005

Sandor Màrai III

Uno dei primi giorni della nostra presenza a Budapest ci siamo trovati a tavola in 10 persone: noi quattro italiani, Adam, i genitori di Adam, Anna, sorella di Adam, con il fidanzato più un amico del fidanzato, un finlandese. Il padre parlava tedesco e russo, Adam francese e inglese, la sorella masticava un po’ di italiano (15 giorni di presenza alla mostra del libro di Torino). Considerando il finnico, Adam osservò sorridendo: a questa tavola si parlano sette lingue.

Nei giorni seguenti Franco, il nostro prof. Di storia contemporanea,  scorrendo le pagine di “Terra Terra” di Màrai mi faceva osservare le pagine riportate qui sotto per dirmi: in effetti gli Ungheresi, siccome sono solo 10 milioni e parlano una lingua incomprensibile a tutti gli altri, sono stati obbligati ad aprirsi agli altri linguaggi, in uno sforzo di comprensione che li ha educati a socializzare con tutti.  Per questo, aggiungeva Paola, a Budapest uno si sente a casa propria anche se non si capisce una sola parola del loro linguaggio. 

 
           Leggiamo Marai:

Credo che tra gli scrittori europei lettori più assidui sia­no sempre stati gli ungheresi. La lettura era per, i nostri scrittori una prova di diligenza perfino più importante dello scrivere, poiché la lingua ungherese non era anco­ra penetrata così profondamente tra le pieghe del sapere letterario come era accaduto al tedesco, all'italiano e al francese. Queste lingue europee avevano ricevuto un nutrimento continuo dalle lingue delle zone confinanti, dal germanico, dal latino, dallo slavo... La lingua ungherese .non si era depositata da nessuna parte: per mille anni le sue parole erano state necessariamente modellate su vo­caboli presi a prestito, spesso estranei al suo spirito. Il poeta ungherese, se indagava a fondo nella propria co­scienza, non sempre trovava espressioni pertinenti, con­cetti sensibili ai nuovi fenomeni: come se la lingua so­gnasse, rimasta indietro di alcuni secoli.


Anche gli scrittori ungheresi del XX secolo leggevano con avida curiosità, come chi ha un compito indifferibi­le: dovevano rimediare alle carenze di mille anni di soli­tudine e di silenzio, a quella soffocante mancanza d'aria rappresentata dalla penuria di parole - troppo poche ne avevano per raccontare a se stessi il Grande Segreto, l'« Ungherese »" e le scoperte della « cultura»... Per gli al­tri popoli i concetti della «cultura» si erano formati si­multaneamente, le idee affluivano in continuazione nei grandi territori linguistici, si mescolavano, si sedimenta­vano. La lingua ungherese rimase povera di parole. Dico­no che Shakespeare disponesse di trentamila parole... di quante parole potevano disporre Balassa, Pazmany o Zrìnyi? Per questo quando gli scrittori ungheresi scrive­vano - in ogni epoca, gli scrittori della Guardia quanto i poeti che componevano nei caffè di Budapest, Csokonai nel fumo soffocante della pipa come Zoltan Somly6 in quello amaro della sigaretta - contrabbandavano nell'a­nemica, scheletrica lingua nutrimento straniero, a volte in modo irriconoscibile, a volte velando saporitamente la parola forestiera. Ma era troppo poco. Perché non si trattava solo di proteggere, concimare, ripulire la bellissima e solitaria lingua ungherese, ma di alimentare il suo anemico metabolismo spirituale con le sollecitazioni delle lingue straniere. (L'unica sua parentela al mondo è coi la lingua finlandese, ma nessuno capiva più questo «parente» ad eccezione dei linguisti ugro-finnici). Bisogna_ dare vitamine alla lingua ungherese, che ancora, dopo un millennio di esercizio linguistico europeo, era assetata di nutrimento straniero. Se uno scrittore ceco, mentre componeva, abbisognava di una parola, poteva attingere con noncuranza alla tasca del vicino russo, polacco o a qualche dialetto slavo meridionale e subito trovava ciò che gli serviva. Ma lo scrittore ungherese a chi poteva chiedere un prestito?

...
Le tribù ungheresi che portarono le radici della lingua, partendo dalle paludose zone della Lebedia, oltrepassarono i Carpazi e lentamente penetrarono nelle valli del Danubio e del Tibisco: avevano con sé poche parole e non sapevano leggere. Quando  iniziarono la loro calata attraverso foreste vergini e strade impervie, altri popoli - i Greci, i Cinesi, gli Indù - avevano ormai accumulato una tale quantità di letture che la loro mente era impregnata di parole. I Magiari invece - così affermano i linguisti - erano ancora allo stadio di «antichi selvaggi ». Avevano pochi vocaboli per raccontare all'Europa tutto quello che provavano e pensavano. Non potevano intendersi con coloro che già avevano molti vocaboli - per quanto usati, strapazzati -  non potevano «scambiarsi idee ». Per l'idea ci vuole la parola, senza la parola non c'è scambio, giusto un brulichio nella coscienza, come formiche sulla pelle. E i loro numeri arrivavano solo a quattro o a cinque, le dita di una mano..  Non avevano fretta di forgiare parole, come non ne ave­!vano di occupare un territorio per edificare una patria: erano privi di carte geografiche e senza una meta precisa. Non cercavano una «patria», ma pascoli. 

  Sono stati i poeti che più tardi fecero di quei pascoli una patria: Sono sempre i .poeti quelli che trasformano in patria i pascoli. Ha ragione Ezra Pound quando di­chiara che nella poesia si avvera tutto ciò che i popoli desiderano. Ad esempio Kosztolanyi descrive una sua visita a Benedek Virag, che sempre qui nei dintorni, in un tugurio ammuffito, scriveva «con la penna d'oca canzoni fiorite». Una mattina Kosztolanyi -libero dai concetti di spazio e tempo, che non esistono per lo spirito come non esistono nel vuoto per gli astronauti - lascia il quartiere Krisztina per recarsi a trovare il Santo Vecchio. Gli legge alcune sue poesie e l'anziano poeta «aveva lodato il pote­re della poesia e gli aveva fatto dono di una mela». Nessuno mai in Ungheria regalava niente ai poeti, che al massimo si donavano a vicenda una mela. 

 K
osztolanyi e con lui Virag e ogni altro poeta unghere­se sapevano di avere una sola patria, schiacciata tra slavi e germani: la lingua ungherese. In ogni tempo tutto il re­sto era stato nebbioso, vago e mutevole: i confini, la popolazione. La lingua rimaneva, come un diamante. E bi­sognava sfaccettarla di continuo perché sprigionasse il suo bagliore. ( Terra Terra già citato 111 – 112

  Che cosa avevo conosciuto in quegli anni, tra le due guerre mondiali? La risposta mi stordì con la forza del tanfo di muffa che si sprigiona di un cassetto aperto casualmente: solo menzogna – questo ho conosciuto fra le due guerre in Europa. Poiché violenza e pietà, eroismo e vigliaccheria, crudeltà e pazienza ci sono sempre stati... Ma la menzogna non era mai stata una forza creatrice di storia come in quegli anni.      


In Europa la si avvertiva regolarmente, sistematicamente, untuosa e inappuntabile: dalla stampa e dalla radio, dall'editoria e dai nuovi mezzi di comunicazione, da ogni tipo di foglio stampato, dalla spazzatura di carta con la quale veniva riempita la mente dell'uomo occidentale... da tutto evaporava la menzogna, come il fumo.velenoso dell'autocombustione dal mucchio di letame. In questo secolo l'Occidente ha mentito a se stesso e al mondo. Ha mentito sempre: tutti dicevano «patria», le strombazzavano intorno con qualche rauco festeggiamento - ed era solo menzogna, perché le conventicole che possedevano le patrie vedevano in esse solo possibilità di investimento. Dicevano «religione» e mentivano, perché con una bella facciata nascondevano un'illusione ormai demitizzata. Dicevano «arte» e mentivano, perché non esigevano dall'artista immagini la cui forza si riflet­tesse sulla vita, frutto dell'energia creatrice, ma prodotti di massa, robetta commerciale o politica da comprare e rivendere: Parlavano di diritti umani, e hanno tollerato che tutti i sistemi più umilianti per l'uomo diventassero potenti. L'Occidente ha mentito con la parola sonante e la parola stampata: ha mentito persino con la musica, rimpiazzando l'armonia e la melodia con isterici miagolii da strapazzo. L'Occidente, quello che nella fossa della guerra ricordavo come un samaritano salvifico, aveva mentito. Cosa potevamo aspettare noi ungheresi da que­sto Occidente infettato dalla menzogna? Aiuto e solida­rietà no di certo. Per noi - come individui e come collet­tività - l'unico aiuto poteva essere il tempo.


Sì, l'acquavite francese è eccellente. Mette in moto.una calda ondata di sangue, dilata i vasi capillari e sulla sua spinta il sangue che pompa l'ossigeno, nutrimento della ­coscienza, arriva più velocemente al cervello. Dov' era il mio posto? Nell'Occidente bruciato, obnubilato dalla menzogna? O in Ungheria? Cosa mi aspettava a casa? La “ patria”? ... Non avevo voglia di fare scommesse né di in­gannarmi. Non credevo nella «patria» che mi aspettava.


Ma ci sono dei momenti in cui - silenziosamente - una ri­sposta, un messaggio arrivano a noi. Era uno di quei momenti. E la risposta arrivò silenziosa come due decenni prima nella stessa situazione. Dovevo tornare in Unghe­ria  dove non mi aspettava nessuno, né «ruolo» né «vocazione », ma quello che per me ha rappresentato l'unico si­gnificato della vita: la lingua ungherese.


Perché la lingua ungherese e la sua espressione più elevata, la letteratura, sono state le uniche cose che mi abbiano veramente, profondamente, totalmente interes­sato - sia da giovane sia con i capelli brizzolati, dopo due guerre mondiali. Questa lingua capita da dieci milioni di persone su miliardi di uomini. Una letteratura raccolta In una lingua che nonostante gli sforzi eroici di intere ge­nerazioni non ha mai potuto parlare al mondo nella sua realtà autentica. Ma questa lingua e questa letteratura per me erano il vero valore della vita, perché riesco a di­ re quello che voglio dire solo in questa lingua. (E solo in questa lingua riesco a tacere quello che voglio tacere).


Perché sono me stesso solo quando e fin quando posso esprimere ciò che penso, ad esempio il rendermi conto la notte dellO febbraio del 1947 che per me non c'era più la «patria», soltanto la lingua ungherese. Ecco per­ ché dovevo tornare in Ungheria al più presto. Vivere là e aspettare di poter scrivere liberamente. « Scrivere». Di che cosa? I libri che avrei riportato dal viaggio in Occidente dicevano in toni diversi, ma con lo stesso significato, un «no» a tutto quello che c'era stato e tutto quello che c'era... Ma cos'era il «sì»? Una crociata contro il bol­scevismo? Ma è di nuovo un «no», una negazione, l'as­senza di qualcosa. «Democrazia cristiana»? La democra­zia non ha religione né confessione. «Socialismo umanistico»?.. Appena ne fanno un sistema il socialismo non può più essere umano, perché ogni sistema è disumano. 

 
Di che cosa scriverò io «liberamente», mi chiedevo, quando a casa si potrà di nuovo scrivere?..       

Come vent'anni prima mi guardai attorno nella veranda del Dome, e picchiando il bicchierino sul tavolino di ferro chiamai il cameriere, perché di colpo sentivo un 'urgente necessità di pagare e di mettermi in cammino - il treno parte la mattina presto... per dove? Per la lingua ungherese. Mi affrettai verso l'albergo - fare i bagagli, di gran carriera, e la mattina andare subito alla Gare de l'Est per non perdere il treno che mi avrebbe riportato nella lingua ungherese. Mentre il taxi correva verso l'albergo, nella notte parigina udivo una voce domandarmi impaziente: quando parte il treno per l’Oriente? (Più tardi avrei ripreso questa frase in un mio diario di viaggio).


Il treno partì in orario. E lentamente, sbuffando e sobbalzando, attraversò la gelida, misera Europa. Durante il viaggio ebbi tempo per fare un bilancio: che cosa portavo nella mia casa orientale dai giorni in  Occidente? Il «no»  ostinato e cocciuto della letteratura che lo ripeteva sia a destra sia a sinistra. Ma avrei voluto portare qualcos'altro dal mio errare: qualcosa che fosse una «risposta» dell'Occidente all'Oriente. Il treno era mal riscaldato, si fermava spesso, sostando a lungo nelle stazioni coperte dalla la neve.   


Sul confine segnato dal ponte sull'Enns, ai margini della zona di occupazione, un militare sovietico entrò nello scompartimento e chiese i passaporti. E lì, sulla linea che divideva l'Europa in due, un soldato rosso, addobbato come per una parata, esaminò a uno a uno i viaggiatori - te­tro, severo, ma cortese. Guardò il mio passaporto, studiò la  faccia dell'uomo sulla fotografia e la mia, confrontandole.


Poi senza urla parola ma con garbo mi restituì il documento, alzò la mano alla visiera, salutò, chiuse la porta dietro di sé e se ne andò. Lo seguii con lo sguardo e pensai che era un nemico. Aveva commesso  tanti orrori in Ungheria e poteva darsi che in futuro ci avrebbe portato altre crudeltà.


Ma una cosa è certa, pensavo: il soldato russo forse uccide, deruba me, l'ungherese, ma non mi disprezza. (Fino a po­co prima, in Occidente, con molta gentilezza eppure in qualche modo io, l'orientale, ero stato sempre disprezza­to. Per lui sono un nemico occidentale da mandare in ro­vina, ma non da disprezzare. Non valeva molto, come re­galo di viaggio, ma era pur sempre qualcosa.




.. Soltanto in ungherese capisci le parole «ti amo».


Farfalla, cigno, stella, angelo mio


in questa lingua solo sono più che concetti


un «di più» che ora è il tuo destino mortale.


Il mondo splende, non ti aspetta nessuno


perché con stolta irruenza galoppi verso casa?


La lingua ti chiama e in lei parla il destino


fa' che la balia non aspetti invano a braccia aperte...


  Non aspettò invano: al mio arrivo a casa mi attendeva la notizia della «congiura».


Fu uno strano arrivo. Quando, nel febbraio del 1947, in una sera di freddo agghiacciante di fine inverno, scesi alla stazione di Budapest - stavano già rimettendo le ve­trate sulla struttura di ferro a volta! ""', sentii con sollievo che era stato giusto tornare a casa: il mio posto era lì. Do­vevo tentare di formulare (a me stesso) la parola «sì» in ungherese con i metodi imperfetti e i modesti mezzi di uno scrittore - la risposta a quello che era maturato nel tempo sotto forma di domanda. Cosa poteva essere que­sto «sì»?.. Era stato più un sentire che un sapere, quan­do avevo pensato: eppure è qualcosa che si può ancora chiamare «umanesimo». (E lo sentivo con ridicola ur­genza). Prima, naturalmente, volevo fare un bagno e cambiarmi d'abito. Chiamai un taxi - già ne circolavano a Budapest!, - e andai a Buda, in quell'abitazione di for­tuna nella quale avevo trovato rifugio dopo l'assedio. ( Marai, Terra Terra pag. 244-247)


 


 

 



 


 

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