venerdì 9 settembre 2005

Natalino d'Avena



Silvana e Natalino

 Martedi 6 settembre 2005, a pranzo dalla Silvana, figliola di un fratello della mia mamma. Mia coetanea, ricordi d’infanzia nel podere Guzzigli, in quel di Lierna, paese divenuto noto alle cronache casentinesi per la sagra annuale dei ranocchi, vittime sacrificali inviate dalla Croazia. Menù della premiata trattoria Silvana: tortelli (di patate) e nana, biscottini di Prato (originali), vin santo genuino, cioè aspro e caffè corretto alla grappa. Ma non sto scrivendo per il menu. A capo tavola, di fronte a me, c’è Natalino, il marito, tra i settanta e gli ottanta. Quando arrivo con Paola – 12,30 – ha già mandato giù il primo, perché altrimenti si sarebbe sentito venir meno: alzato dalle sette, uscito di casa alle 7,20, fatto svariati km con la giardinetta tra Agna, la Sova, Ponte a Poppi per le solite mansioni ridotte a un quarto delle solite, causa l’età, l’operazione al cuore, un antico enfisema col quale fa convivere le ultime sigarette ecc. ecc. Insomma Natalino d’Avena. E’ così che, mentre mandiamo giù i tortelli a burro e salvia oppure  pommarola, Natalino dà la stura al suo deposito di una memoria inossidabile, tenuta in esercizio da una vita di transazioni commerciali fatte a mano, nel senso che la parte del notaio era tenuta dal suo pugno destro che abbrancava le due mani congiunte dei due clienti unite nell’accordo finalmente raggiunto sulla partita di fieno, l’acquisto vendita di due vacche da tiro, di quattro agnelli o di un intero gregge di pecore, il compromesso per la vendita di un annesso agricolo... Questo spiega la precisione del racconto, il vivo realismo del ricordo di 6 anni sei di guerra, 1939-1947, assegnato al 57° stormo aereo di cacciabombardieri, mansione assistente tecnico di volo. Mi sono morso le labbra, per aver dimenticato a casa il registratorino tascabile col quale ho già captato una sua conversazione due tre anni fa. Ma questa storia è più completa ed è per me un’occasione persa. Siccome la mia memoria non è la sua mi affretto a registrare dei flashes prima che il nitrato d’argento del mio cervello svanisca nella digestione del gran  piatto di tortelli casentinesi. 
Prima scena (giugno 1943), tra i boschi della Bosnia, su una montagna molto alta, tra Sarajevo e Zagabria: un gruppo di prigionieri italiani in mano ai partigiani titini: è vietato allontanarsi più di 10 metri dalla baracca. La sete spinge 25 italiani a superare la distanza per raggiungere l’acqua di una fonte, perché “la sete è peggio della fame”. Finiscono scannati, non fucilati, per il risparmio delle pallottole riservate ai tedeschi che percorrono il fondo valle con le camionette volkswagen...Natalino attutisce i morsi della fame con le bacche rosse e nere che riempiono i cespugli lì intorno, ma questo non basta. Per sopravvivere visita di nascosto una vicina discarica di ossa di animali macellati, li spezza e ne succhia il midollo. A quei tempi solo gli uomini erano pazzi, non le mucche, per sua fortuna. Quindi ossobuco-nature. Così salva lo stomaco e la vita. Ma rischia la pelle il giorno in cui la giovane sentinella italo-croata gli punta il fucile e sta premendo il grilletto: “Ferma, amico, vedi sono qui disarmato per la fame, non ti posso far del male, sono giovane come te, se tu mi ammazzi per tutta la vita ti verrà in mente questa cosa d’avere ammazzato un ragazzo come te, che non ti faceva del male; ti sentirai come quei tuoi amici che l’altro ieri hanno sgozzato 25 ragazzi mentre stavano bevendo un po’ d’acqua; per favore, non m’ammazzare; con questa buona azione ti sentirai meglio per tutta la tua vita...

Piano piano la canna del fucile si abbassa, i due si avvicinano e la conclusione fu che due giorni dopo, durante il turno di guardia del suo salvatore, all’imbrunire di una giornata novembrina dell’anno 1943, Natalino scivolò giù lungo il vallone della montagna, fino alla carrozzabile in mano alle camionette tedesche e alla prima che passò si fece incontro con le mani alzate, il petto aperto a mostrare la targhetta di soldato italiano del 57° stormo cacciabombardieri, “io scappare da slavi, voi prendere me...”

Finì in quel di Mengen (?), sul Danubio, insieme a uomini donne bambini deportati, soldati fatti prigionieri finché uno dei primi giorni all’appello si presenta un vecchio agricoltore tedesco che si mette a parlare con il corpo di guardia; dopo poco si fa avanti un soldato tedesco altoatesino che in italiano domanda: - C’è qualcuno tra voi che ha fatto il contadino? -  “Fui il primo ad alzare la mano; poi diversi altri. Io fui tra i 5 prescelti. Ci portarono di là dal fiume dove c’erano tante fattorie o simili, tutte alla stessa distanza, coi campi divisi in proporzioni uguali, in un terreno tutto pianeggiante.

Il proprietario ci mise in mano un attrezzo per uno e ci assegnò il lavoro. A me era toccato un arnese tra la zappa e il badile; non sapevo bene che farci. A uno dei cinque invece diedero un cavallo, uno di quei cavalli normanni grossi, con le zampe enormi...” “Come quelli – lo interrompo – che ho visto in piazza Nova (Ponte a Poppi) – nell’estate del 44: cavalli da tiro che usavano per tirar su le batterie antiaree nei boschi da Camaldoli, durante le costruzione della Linea Gotica. Parentesi: c’è una passeggiata segnata nel circuito delle foreste casentinesi che si chiama “sentiero dei tedeschi”, sopra Montanino, lungo la via per l’eremo, primo bivio a sinistra per Asqua, verso Pratovecchio; fatti 300 metri si lascia la macchina e si prende a salita sulla destra: il sentiero dei tedeschi. Due ore di splendido trekking nel Parco delle Foreste Casentinesi. Chiusa la parentesi.

Fatto sta che questo che aveva il cavallo non era pratico; non riusciva a tenere fermo l’aratro, era poco esperto del cavallo; i solchi venivano storti e diseguali. Per farla breve (sono io che stringo, non Natalino) dopo due giorni, a coltrare col cavallo c’era lui, Natalino d’Avena, già allora esperto di bestie da soma da tiro e da lavoro.

Perché il cavallo va saputo trattare. Dopo la fatica il cavallo va asciugato e strigliato, la paglia della lettiera va cambiata o comunque rivoltata, deve essere pulita e asciutta. Fu così che Natalino divenne il cavallaio anche della fattoria accanto, governata da una donna perché tutti gli uomini erano in guerra. Alla donna che lo ammira per come sa trattare i cavalli lui spiega che sa anche come vanno trattate le donne; non conoscendo ancora bene il tedesco, per farsi capire s’aiuta con le mani. La donna apprezza. E così furono otto mesi di completa sistemazione, in quel di Mengen, sul Danubio, mentre la guerra infuriava in Europa.

Poi un giorno il suo protettore, il vecchio proprietario, lo chiamò da una parte e gli disse che ci sarebbe stata la possibilità di tornare in Italia. Solo che avesse avuto coraggio e determinazione.

- ??? -

-         Tra due giorni un treno carico di carbone, coi vagoni scoperti, parte per l’Italia, destinazione Firenze. –

Fu così che Natalino, nel giugno del 1944, nascosto in una buca scavata nel carbone, fece il viaggio di ritorno in patria, cinque anni dopo la partenza per il servizio militare nell’aereonautica. Durata del viaggio tre giorni. L’unico vero rischio fu quello di morire soffocato dal fumo della vaporiera nei 19 km della galleria Bologna-Firenze (quella dell’Italicus, ndr).

A Firenze S.Maria Novella, sgattaiolò fuori dal carbone, nero come l’inferno, luminoso  come il paradiso, si rotolò in via Alamanni, a ridosso dei binari, e trovò assistenza e rifugio presso una conoscente.

 Ma la storia non era finita. Firenze era ancora occupata dai tedeschi, in Casentino i nazi della divisione Goering - specialisti in stragi e stermini di massa, già collaudati in varie zone d'Europa, stavano mettendo a ferro e fuoco la zona intorno alla linea Gotica, cioè tutto l'alto Casentino.  Avena era un paese sventrato e disabitato. Fu così che Natalino passò il fronte verso sud, si presentò a Roma al comando americano, fu riammesso alla squadriglia di caccia bombardieri, in tempo per partecipare alle ultime definitive operazioni di guerra che portarono il nazismo alla disfatta e i suoi capi al suicidio nel bunker di Berlino. Durante le poche settimane passate a Roma ritrovò Alberto Rabagliati che aveva da poco come lui superato il fronte dopo una lunga fuga dal Casentino in fiamme; ebbe modo di sentirlo ancora cantare, questa volta non per i tedeschi di Strumi (Poppi) ma per gli Americani, dove svolgeva il servizio di interprete. Rivide Rabagliati nel ruolo di interprete presso il comando americano, lo vide all’opera durante un paio di ricevimenti – a Rabagliati piaceva darsi da fare e servire paste e bicchierini ai commensali – In uno di questi ci scappò anche un ballo con Anna Magnani.  Fu Rabagliati che gli consigliò di arruolarsi con gli americani, perché si stava bene e c’erano pochi rischi, ormai.

Passata la guerra, ritornato al paese natale, ripreso il suo posto di agricoltore, commerciante, sensale di affari, Natalino fu convocato un giorno dal comando Militare Alleato a Roma: ritornò con 350.000 lire di liquidazione per il servizio reso nell’ultimo anno di guerra. Con quella cifra, allora si comprava un podere. Con questo capitale Natalino ripartì per la sua seconda vita, ed ora me lo vedo qui davanti con la sua Silvana (da lei  5 figlioli uno più bello dell’altro).

La storia è finita, per oggi.

 Ho avuto il tempo di mandar giù un piatto di tortelli a burro e salvia, un arrosto misto di anatra e piccione, i cantuccini originali di Prato, il vin santo originale di Natalino, il caffé corretto col grappino. Con la Silvana è stato tutto uno scambio di occhiate d’intesa mentre l’instancabile story-teller svolgeva la matassa ordinatissima dei suoi infiniti ricordi.



 Questa storia può entrare a far parte del Decamerone di Giovanni Boccaccio,  come undecima novella aggiunta alle 10 della seconda giornata nella quale,  sotto il reggimento di Filomena, si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia, oltre alla sua speranza, riuscito a lieto fine.

Puoi scegliere tra le novelle di Landolfo Rùfolo, Rinaldo d’Esti, Il conte d’Anguersa...

Ma la meglio rimane questa, perché è tanto vera che sembra inventata.

NB. Ho dimenticato l'operazione all'appendice di Natalino quando l'infezione aveva già cominciato ad attaccare il peritoneo: fatta in Bosnia su un tavolaccio, da un commilitone ventiesettenne, studente di medicina, mai preso un bisturi in mano...Ci vuole un altro post.

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