sabato 31 marzo 2007

Radici cristiane d’Europa (4)

Anniversario: 1307-2007

 



Il Monte Rubello, da "ribelli", nel Biellese, ove i resistenti montanari e gli eretici dolciniani si asserragliarono per l'ultima, disperata resistenza. Alla fine, molti furono massacrati sul posto, qualcuno riuscì a fuggire, mentre Dolcino, Margherita e Longino Cattaneo, catturati, furono successivamente posti al rogo. Sulla cima del Rubello, fu eretto dapprima un oratorio, poi un santuario dedicato a San Bernardo (nella foto), per celebrare la vittoria delle forze cattoliche contro i "figli di satana".

Trovato qui 

 

Durante settimana santa del 1307 ebbe fine la resistenza triennale di Fra Dolcino e Margherita contro la crociata indetta da papa Clemente V.

Freddo fame morte e distruzione, cavalieri dell’Apocalisse, arrivarono con le spade dei crociati sulla cima del monte ribelle e la pace fu.

Questa:



La crociata contro fra' Dolcino fu bandita dal papa Clemente V. Con lo "Statutum Ligae contra Haereticos" (statuto di Scopello) redatto il 24 agosto 1305 e firmato da quasi tutti i paesi della valle, i valligiani decisero di costituire una lega per combattere i dolciniani e il 3 settembre dello stesso anno, numerosi rappresentanti delle genti delle tre principali valli valsesiane, riuniti nella chiesa di San Bartolomeo a Scopa, giurarono sui Vangeli di scendere in armi contro i dolciniani fino al loro totale sterminio. Chiunque indossi la veste con croce e si appresti a partire verso le valli del Novarese e Vercellese per combattere l'eresia dolciniana - questo il senso della disposizione delle autorità ecclesiastiche - avrà rimessa la totalità dei peccati.

 

Nella settimana Santa (23 marzo) del 1307 le truppe di Raniero riuscirono a penetrare nel fortilizio fatto costruire da Dolcino sul Monte Rubello, vicino a Biella, dove ancora resistevano disperatamente gli ultimi superstiti del gruppo ormai falcidiato. Lo spettacolo che si presentò loro era drammatico: gli assediati, per sopravvivere, si erano cibati dei resti dei compagni morti. Tutti vennero immediatamente passati per le armi eccetto Dolcino, Longino e Margherita.

 

 Il processo e l'esecuzione

Fra' Dolcino fu processato a Novara e condannato a morte. L'Anonimo Fiorentino (uno dei primi commentatori della Divina Commedia) riferisce che egli rifiutò di pentirsi e anzi proclamò che, se lo avessero ucciso, sarebbe resuscitato il terzo giorno.

Margherita e Longino furono arsi vivi sulle rive del torrente Cervo, il corso d'acqua che scorre vicino a Biella. Un cronista annota che fra' Dolcino, costretto ad assistere, "darà continuo conforto alla sua donna in modo dolcissimo e tenero". L'Anonimo Fiorentino però scrive invece che Margherita fu giustiziata dopo di lui.

Per fra' Dolcino si volle procedere ad un'esecuzione pubblica esemplare: secondo Benvenuto da Imola (un altro antico commentatore dantesco), fu condotto su un carro attraverso la città, venne torturato a più riprese con tenaglie arroventate e gli furono strappati il naso e il pene. Dolcino sopportò tutti i tormenti con resistenza non comune, senza gridare né lamentarsi. Infine fu issato sul rogo e arso vivo a sua volta.



Dante ricorda fra' Dolcino nella Divina Commedia con questi versi:

 «Or di' a fra Dolcin dunque che s'armi,

tu che forse vedrai lo sole in breve,

s'egli non vuol qui tosto seguitarmi,

sì di vivanda, che stretta di neve

non rechi la vittoria al Noarese,

ch'altrimenti acquistar non sarìa lieve.»

" Dì dunque, tu che forse vedrai il sole tra poco, a fra Dolcino, se non vuole seguirmi all’inferno fra breve, di provvedersidi vettovaglie, in modo che l’assedio causato dalla neve non consenta al vescovo di Novara quella vittoria, che non sarebbe facile conquistare in altro modo. "



 (Inferno XXVIII, 55-60)





 Nota storica

Nel 1300 il Purgatorio era una scoperta recente. La seconda grande donazione a favore del papato romano. Se la prima, un dono del Secolo VIII, aveva fruttato a Bonifacio VIII  la primazia politica su tutta l’Europa occidentale, l’acquisto del Purgatorio, dono del secolo XIII, gli permise di inaugurare il secolo quattordicesimo con il primo Giubileo della storia ecclesiastica: amnistia generale da tutte le pene comminate al peccatore pentito, ivi comprese la custodia cautelare in purgatorio e l’affidamento ai servizi sociali delle buone opere sulla terra. Col giubileo diventi puro e perfetto e vai direttamente in paradiso, sei giubilato. Il potere delle chiavi, spirituale e materiale, di proprietà papale, ti apre le porte: l’offerta monetaria e la sottomissione a Roma sono la prova del pentimento, le sole condizioni e valgono il sangue di Cristo. Industria dell’olocausto.

Fu un grande avvenimento, il primo pellegrinaggio alla mecca romana, una folla ininterrotta sul ponte di Castel Sant’Angelo. Più tardi un altro giubileo romano permetterà al papa di pagare le spese della Cupola di Michelangelo anche se costerà la perdita di metà del gregge europeo.

Il primo giubileo fu illuminato da una grande fiaccolata: a Parma con Gherardo Segarelli.

Dante osserva questi fatti, prima da Firenze, consigliere comunale e anche ministro del governo per 2 mesi, poi dall’esilio romagnolo-casentinese. Mette all’inferno sia il papa che fra Dolcino, per motivi diversi. Con più simpatia per fra Dolcino.

venerdì 30 marzo 2007

Radici cristiane d'Europa (3)


Nel XV secolo la Spagna non era riunita in un singolo Stato ma in una federazione di Reami, ognuno con una propria amministrazione, come Aragona e Castiglia, governate rispettivamente da Ferdinando e Isabella.

Gran parte della Penisola iberica era stata governata dai musulmani e in particolar modo le regioni meridionali, fra cui Granada che mantenne la propria autonomia dai Regni cristiani fino al 1492, erano densamente abitate da Arabi e Berberi. Le città principali, come Siviglia, Valladolid (capitale della Castiglia) e Barcellona, capitale d'Aragona, includevano grandi comunità ebraiche nei propri ghetti, chiamati Juderías.

...
L'Inquisizione, in quanto organo religioso, era presieduto da autorità clericali; tuttavia, in caso di eresia accertata, il condannato veniva affidato alle autorità secolari per l'esecuzione della condanna. La tortura era ampiamente usata per ottenere la purificazione dell'anima del condannato. La penitenza andava dall'umiliazione pubblica al rogo - dopo lo strangolamento per chi si pentiva, da vivi per chi non rinnegava il proprio peccato; al posto degli irreperibili veniva bruciata una loro effige, per gesto simbolico. Queste erano le pene eseguite durante gli autodafé, che potevano durare un giorno intero. I membri religiosi del tribunale erano assistiti da civili (familiari), il cui incarico era molto prestigioso.


Molte delle condanne si basavano su accuse nate dall'invidia o dal desiderio di vendetta. Molte altre, rivolte ad Ebrei molto ricchi, erano molto probabilmente patrocinate dalla corona.


L'Inquisizione diresse la propria azione anche contro i primi Protestanti, gli Erasmiani, gli Illuministi, e nel XVIII secolo contro gli autori dell'Encyclopédie. Nonostante la piega presa dalle altre Inquisizioni, quella spagnola non si diede mai alla caccia alle streghe: la maggior parte delle donne accusate veniva prosciolta come malata di mente.


L'Inquisizione fu abolita dal governo napoleonico (1808-1812) ma fu reistituita col ritorno sul trono di Ferdinando VII; fu abolita definitivamente nel 1834.


Statistiche

Stabilire dei numeri relativi all'azione dell'Inquisizione spagnola è molto difficile, ed è in corso un dibattito tra le recenti indagini, supportate dalla Chiesa Cattolica, secondo cui le stime riguardo le condanne a morte sarebbero state sempre molto esagerate, e le teorie di altri storici, secondo cui sarebbero state eseguite anche centinaia di migliaia di persone. Alcuni studiosi e storici spagnoli sostengono l'esistenza di una leggenda nera al riguardo, che teorizza un "effetto distruttore" della Spagna verso le altre nazioni e popoli.


Alcuni rapporti di grandi stragi sono riportati da storici come Will Durant che, nel suo "The Reformation" (1957), cita Juan Antonio Llorente, Segretario Generale dell'Inquisizione dal 1789 al 1801, il quale stima l'esecuzione di 31.912 persone nel periodo 1480-1808; egli cita inoltre Hernando de Pulgar, segretario della regina Isabella, il quale stima che 2.000 persone siano state arse prima del 1490. Philip Schaff, nella sua Storia della Chiesa Cattolica, diede il numero di 8.000 persone arse nei 18 anni di azione di Torquemada. Matthew White, esaminando questi dati, dà un'approssimazione di 32.000 morti, di cui 9.000 sotto Torquemada. R.J. Rummel giudica queste "stime realistiche", nonostante altri studiosi attribuiscano a Torquemada la responsabilità per 135.000 decessi, includendo 125.000 avvenuti in prigione a causa degli stenti.


Altri studi, come quello del Prof. Agostino Borromeo della Sapienza di Roma, riporta 125.000 processi effettuati dall'Inquisizione, con sole 2.000 esecuzioni circa realmente avvenute, nonostante molte altre ne fossero state decretate da tribunali laici.


Un autodafé prevedeva:

una messa cattolica, preghiere, una processione pubblica dei colpevoli e la lettura della loro sentenza.

I condannati venivano trascinati in pubblico con i capelli rasati, vestiti con sacchi (sanbenitos) e berretti da somaro (corazos), o copricapi con la fenditura centrale.

Le immagini riprodotte sulle vesti del reo indicavano la pena decretata: una croce di Sant'Andrea se si era pentito in tempo per evitare il supplizio, mezza croce se aveva subito un'ammenda, le fiamme se condannato a morte.

Gli autodafé si svolgevano sulla pubblica piazza e duravano diverse ore: con la partecipazione di autorità ecclesiastiche e civili.


Il condannato che non aveva in alcun modo mostrato di pentirsi veniva bruciato sul rogo, anche se spesso veniva strangolato prima che venisse appiccato il fuoco.

A chi si presentava spontaneamente a confessare venivano inflitte pene inferiori, come pellegrinaggi, ammende pecuniarie, pubblica fustigazione o il recare croci cucite sui vestiti.

Ai falsi accusatori veniva imposto di cucire sugli abiti due lingue di panno rosso.

Nei casi gravi la pena era la confisca dei beni o il carcere, la più severa che gli inquisitori potessero comminare.

La condanna a morte poteva essere eseguita solo dall'autorità civile, a cui il condannato veniva consegnato, e poteva essere eseguita sul rogo.


Il primo autodafé di cui si ha notizia si svolse a Parigi nel 1242, durante il regno di Luigi IX (Stavans 2005:xxxiv).


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giovedì 29 marzo 2007

 Radici cristiane d'Europa (2)




La Guerra dei Trent'anni


estratto da: A.H.L. Fisher,

Storia d'Europa
,

vol. II, pp. 200-222,

Laterza, 1971











1. La tragedia della storia tedesca

2. Ferdinando II

3. Carattere generale della guerra

4. Compito della Svezia

5. Insurrezione in Boemia

6. La defenestrazione di Praga

7. Il conte Palatino

8. Responsabilità di Giacomo d'Inghilterra

9. La battaglia della Montagna Bianca

10. Intervento della Danimarca

11. Wallenstein

12. Minaccia cattolica del nord

13. Gustavo Adolfo

14. Oxestierna e l'alleanza di Heilbronn

15. Assassinio di Wallenstein e la pace di Praga

16. Trionfo di Richelieu

17. Rovesci della Spagna

18. La pace di Westfalia




La tragedia fondamentale della storia tedesca

Alla luminosa fioritura del genio europeo che si associa per noi ai nomi di Shakespeare e di Cervantes, seguì immediatamente una catastrofe che piombò gran parte dell'Europa centrale in un abisso d'infelicità e di barbarie. La guerra dei trent'anni, iniziatasi con una rivolta religiosa nella Boemia, avrebbe potuto facilmente essere isolata, ma, non trovando invece ostacolo alcuno, travolse nella lotta, quantunque in grado diverso, quasi tutti gli stati europei.

Carattere generale della guerra

La lunga e rovinosa lotta non fu però combattuta per scopi insignificanti; si trattava di decidere se la Germania dovesse essere strappata alla Controriforma, con grave danno dell'avanzata dei gesuiti, conservando alla chiesa luterana e alla calvinista il dominio su grandi tratti dell'Europa centrale.



All'inizio del secolo sedicesimo, la Germania era in primo piano nella civiltà europea. Alla fine della guerra dei trent'anni (1648), priva di letteratura e di arte, appesantita da una lingua quasi incomprensibile, appariva, quanto a modi e costumi sociali, di poco superiore alla barbarie moscovita.



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mercoledì 28 marzo 2007

Radici cristiane d'Europa (1)





A.H.L. Fisher, Storia d'Europa,

Vol. II, pp. 154-167, Laterza, 1971



Le guerre di religione in Francia














Gravi conseguenze della lotta civile

Le guerre di religione della seconda metà del sedicesimo secolo furono per la Francia assai più disastrose che non le campagne d'Italia che le avevano precedute. La politica che aveva ispirato queste ultime era stata poco saggia, ostacolando, tra l'altro, l'opera di esplorazione dei marinai bretoni e normanni nel Nuovo Mondo e dissipando vite e ricchezze senza che le ambizioni francesi fossero minimamente soddisfatte. Ma le guerre di religione minacciarono addirittura di spezzare l'unità della Francia, conquistata già con tanta fatica, provocando mali ben superiori alle perdite subite in battaglia. Si combatteva tra città e città, tra villaggio e villaggio, tra famiglia e famiglia: assalti armati e assassinii erano incidenti quotidiani. Si commettevan delitti per fanatismo religioso, a soddisfazione di vendette private, o anche, come accade in tutte le epoche in cui la peste dello spionaggio infetta la compagine politica, per insensato terrore. La moralità del santo ugonotto era impegnata in una lotta condotta in larga parte coi metodi degli sparatori irlandesi. I savi francesi umanisti si tenevano in disparte, come Montaigne, nei cui Saggi, pubblicati durante la selvaggia tirannide della lega cattolica, troviamo un evangelo di epicureismo illuminato e di caritatevole scetticismo.


Qua (italiano) e  ( francese)




La violenza delle guerre di religione nella 'civiltà' europea: Montaigne, d'Aubigné e Tasso.


Tra gli scrittori che, in modi diversi, riflettono sul dilagare in Europa del conflitto religioso, si presenta innanzitutto Michel de Montaigne (1533-1592), il noto autore francese degli Essais (1588), una raccolta di saggi dal contenuto filosofico, ove la riflessione appare di carattere più pratico che teorico, ed è percorsa da una vena di scetticismo. Il saggio 21 del primo libro si intitola Dei cannibali, perché parla delle abitudini antropofaghe di alcune popolazioni del nuovo mondo. Ma la didascalia che segue il titolo subito chiarisce l'angolazione dell'autore: "Non bisogna giudicare in ogni caso barbarie ciò che non rientra nei nostri costumi: spesso la vita di natura supera in candore ogni vita civile; spesso i popoli primitivi ignorano il tradimento, la menzogna, l'avarizia, l'invidia e altri vizi dell'uomo civile. Descrive molti usi di vari popoli a prova di questa affermazione e per dedurne che tutto è relativo agli usi e alle occasioni". Che cosa è dunque veramente terribile? Che cosa davvero barbaro? Il cannibalismo rituale di popoli indigeni o il sangue di una guerra condotta in nome della religione? Il nemico è solo chi, da un punto di vista eurocentrico, è diverso da noi, oppure si annida anche all'interno di una medesima civiltà e religione?


Je pense qu'il y a plus de barbarie à manger un homme vivant, qu'à le manger mort, à deschirer par tourmens et par gehennes, un corps encore plein de sentiment, le faire rostir par le menu, le faire mordre et meurtrir aux chiens, et aux pourceaux (comme nous l'avons non seulement leu, mais veu de fresche memoire, non entre des ennemis anciens, mais entre des voisins et concitoyens, et qui pis est, sous pretexte de pieté et de religion) que de le rostir et manger apres qu'il est trespassé

Io penso che ci sia più barbarie a mangiare un uomo vivo che mangiarlo da morto, a dilaniare tra i tormenti e il fuoco un corpo ancora pieno di sentimento, farlo arrostire per il menu, farlo mordere e mangiare dai cani e dai porci (come noi l'abbiamo non solamente visto di recente, non tra nostri vecchi nemici, ma tra vicini e concittadini, e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà e della religione) piuttosto che arrostirlo e mangiarlo dopo che è già morto.


Ici


Ben diversa dalla riflessione scettica di Montaigne, ma ispirata dal medesimo scenario storico, è la poesia del francese Agrippa d'Aubigné (1552-1630), che nel suo poema Les Tragiques (1616), descrive sdegnato la guerra di religione, dal punto di vista dell'ugonotto che, combattente egli stesso, vede i compagni di parte massacrati a Parigi, per ordine della monarchia cattolica, nella notte estiva di san Bartolomeo (1572). " Les tragiques rappresentano lo sforzo confuso di un contemporaneo delle guerre di religione per tornare a valutare i sanguinosi fatti di cronaca della sua epoca, e ricomporli bene o male in termini di giustizia e di ordine eterni" (M. Yourcenar): e difatti sugli avvenimenti incombe dall'alto lo sguardo giudicatore di un Dio severo, che vede punita l'oscurità di un mondo terreno non illuminato dalla Grazia. Nel libro V, intitolato Le spade, l'autore descrive la strage di san Bartolomeo. La campana suona il segnale del massacro proprio dall'alto del Palazzo di giustizia: è un tremendo paradosso, perché ad essere distrutta è proprio la casa del giusto, l'innocente ugonotto. È una 'guerra senza nemico', una guerra intestina tra appartenenti ad una medesima nazione; ed è una guerra vile, perché colpisce i dormienti nel cuor della notte, quand'essi non possono difendersi se non con le mani, e non sono protetti da corazza, ma da 'tenera veste'. Unica garanzia di salvezza pare essere il non esimersi dalla strage: perciò terribilmente persino "i fanciulli si coprono di sangue per non essere visti con mani immacolate". Conclude la scena il macabro spettacolo della Senna insanguinata di cadaveri.



Je veux peindre la France une mère affligée "

Dans ces deux pages célèbres des Tragiques, Agrippa d'Aubigné dresse un tableau pathétique de la France déchirée par les guerres de religion. Représentant allégoriquement la France sous les traits d'une mère, il dénonce l'absurdité et les atrocités d'un conflit fratricide, causé par l'intolérance religieuse, ayant pour seule conséquence l'affaiblissement général du royaume. La dimension religieuse est bien entendu sous-jacente, comme toujours dans les Tragiques : les querelles entre les deux partis, catholique et protestant, reproduisent les luttes que se livrent, dans la Bible, Esau et son frère Jacob, ou encore Caïn et Abel. Le thème des frères ennemis se rencontre d'ailleurs dans de nombreux mythes (Etéocle et Polynice, Romulus et Rémus...) et contes populaires. Signalons enfin qu'Agrippa était orphelin de mère, celle-ci n'ayant pas survécu à l'accouchement de son fils (d'où son nom : "Agrippa" vient du latin aegre partus signifiant " enfanté dans la douleur "). Faut-il donc voir aussi, dans l'évocation de ces fils ingrats, la trace d'une culpabilité plus ou moins consciente à l'égard de la mère ?

Je veux peindre la France une mère affligée,

Qui est entre ses bras de deux enfants chargée.

Le plus fort orgueilleux, empoigne les deux bouts

Des tétins nourriciers, puis à force de coups,

D'ongles, de poings, de pieds il brise le partage,

Dont nature donna à son besson l'usage :

Ce voleur acharné, cet Esau malheureux,

Fait dégât du doux lait qui doit nourrir les deux,

Si que pour arracher à son frère la vie,

Il méprise la sienne et n'en a plus d'envie :

Mais son Jacob pressé d'avoir jeûné mesui,

Etouffant quelque temps en son coeur son ennui,

A la fin se défend, et sa juste colère,

Rend à l'autre un combat dont le champ est la mère.

Ni les soupirs ardents, les pitoyables cris,

Ni les pleurs réchauffés ne calment leurs esprits :

Mais leur rage les guide et leur poison les trouble,

Si bien que leur courroux par leurs coups se redouble :

Leur conflit se rallume, et fait si furieux,

Que d'un gauche malheur ils se crèvent les yeux :

Cette femme éplorée en sa douleur plus forte,

Succombe à la douleur mi-vivante, mi-morte,

Elle voit les mutins tous déchirés, sanglants,

Qui ainsi que du coeur, des mains se vont cherchant,

Quand pressant à son sein d'une amour maternelle,

Celui qui a le droit et la juste querelle,

Elle veut le sauver, l'autre qui n'est pas las,

Viole en poursuivant l'asile de ses bras :

Adonc se perd le lait, le suc de sa poitrine,

Puis aux derniers abois de sa proche ruine

Elle dit : Vous avez, félons, ensanglanté

Le sein qui vous nourrit et qui vous a porté :

Or vivez de venin, sanglante géniture,

Je n'ai plus que du sang pour votre nourriture.



Ici et  (in francese)


Torquato Tasso (1544-1595) nell'ultimo canto della Gerusalemme liberata descrive l'assalto finale dell'esercito cristiano a Gerusalemme. L'assedio si conclude con l'espugnazione della città santa, prima in potere dei nemici 'infedeli', e con la vittoria di Goffredo di Buglione, capitano delle truppe crociate. Egli può dunque sciogliere il voto della promessa liberazione del Santo Sepolcro, pronunciando davanti ad esso la sospirata preghiera finale. Nella parte iniziale del canto imperversa tuttavia lo scontro feroce tra le armate, in cui si alternano visioni d'insieme della battaglia e duelli frontali tra i guerrieri delle opposte fazioni. In particolare, le ottave 29-31 descrivono la disposizione frontale degli schieramenti, prima che le ali dei fanti diano il via all'attacco: le armi sono tese, i cavalli fremono e scalpitano, si odono i primi segnali di tromba. Nella sua crudeltà, la guerra ha un segreto e voluttuoso fascino. Nel primo verso dell'ottava 30 il poeta commenta: "Bello in sì bella vista è anco l'orrore": la strage che si prepara ha un aspetto di sinistra bellezza, che si delinea in principio attraverso le forme eleganti dei destrieri, il luccicare delle armi, la musicalità degli strumenti che annunciano l'attacco. Questo contrasto è reso attraverso l'accostamento di termini contrapposti: così dalla "tema esce il diletto", e le trombe sono al tempo stesso "orribili e canore".


Le ottave 33-34 e 38-39 descrivono particolari raccapriccianti relativi alle mutilazioni che i guerrieri provocano all'avversario: da una parte una guerriera cristiana strazia i pagani Zopiro (che taglia a metà in orizzontale), Alarco (cui tronca la testa), Artaserse, Argeo e Ismael (cui ancora spicca la testa), mentre tutti questi stanno cavalcando; dall'altra il pagano Altamoro fa a pezzi i cristiani Brunellone (la cui testa, segata in verticale dalla spada, si apre in due metà pencolanti sulle spalle) e Ardonio (cui una ferita simile a quella di Brunellone stralcia la bocca in due macabre metà di un allucinante sorriso).


Sarebbe tuttavia fuorviante interpretare la Gerusalemme liberata come un poema inneggiante alla guerra. A ben guardare, risulta assai significativo il fatto che l'ultimo canto riservi un maggior numero di ottave al racconto dell'epilogo felice dell'amore fra Rinaldo e Armida (il famoso paladino cristiano e la guerriera pagana, maestra di arti magiche ed erotiche) piuttosto che alla narrazione della fase conclusiva del conflitto. Si apre quindi, nel finale del poema, una sorta di 'controcanto' dedicato non alla guerra, ma all'amore, e si affaccia, nello scenario di battaglia, desolato nonostante la vittoria cristiana, un'utopia di pace.



Qui (un articolo di Marta Guerra sulle "rappresentazioni del conflitto nel 500)


29



Sembra d'alberi densi alta foresta

l'un campo e l'altro, di tant'aste abbonda.

Son tesi gli archi e son le lancie in resta,

vibransi i dardi e rotasi ogni fionda;

ogni cavallo in guerra anco s'appresta;

gli odii e 'l furor del suo signor seconda,

raspa, batte, nitrisce e si raggira,

gonfia le nari e fumo e foco spira.


30


Bello in sí bella vista anco è l'orrore,

e di mezzo la tema esce il diletto.

Né men le trombe orribili e canore

sono a gli orecchi lieto e fero oggetto.

Pur il campo fedel, benché minore,

par di suon piú mirabile e d'aspetto,

e canta in piú guerriero e chiaro carme

ogni sua tromba, e maggior luce han l'arme.


31


Fèr le trombe cristiane il primo invito,

risposer l'altre ed accettàr la guerra.

S'inginocchiaro i Franchi e riverito

da lor fu il Cielo, indi baciàr la terra.

Decresce in mezzo il campo; ecco è sparito:

l'un con l'altro nemico omai si serra.

Già fera zuffa è ne le corna, e inanti

spingonsi già con lor battaglia i fanti.


 


33


Con la destra viril la donna stringe,

poi c'ha rotto il troncon, la buona spada,

e contra i Persi il corridor sospinge

e 'l folto de le schiere apre e dirada.

Coglie Zopiro là dove uom si cinge

e fa che quasi bipartito ei cada,

poi fèr la gola e tronca al crudo Alarco

de la voce e del cibo il doppio varco.


34


D'un mandritto Artaserse, Argeo di punta,

l'uno atterra stordito e l'altro uccide.

Poscia i pieghevol nodi, ond'è congiunta

la manca al braccio, ad Ismael recide.

Lascia, cadendo, il fren la man disgiunta,

su gli orecchi al destriero il colpo stride;

ei, che si sente in suo poter la briglia,

fugge a traverso e gli ordini scompiglia.


38


Tal fean de' Persi strage, e via maggiore

la fea de' Franchi il re di Sarmacante,

ch'ove il ferro volgeva o 'l corridore,

uccideva, abbattea cavallo o fante.

Felice è qui colui che prima more,

né geme poi sotto il destrier pesante,

perché il destrier, se da la spada resta

alcun mal vivo avanzo, il morde e pesta.


39


Riman da i colpi d'Altamoro ucciso

Brunellone il membruto, Ardonio il grande.

L'elmetto a l'uno e 'l capo è sí diviso

ch'ei ne pende su gli omeri a due bande.

Trafitto è l'altro insin là dove il riso

ha suo principio, e 'l cor dilata e spande,

talché (strano spettacolo ed orrendo!)

ridea sforzato e si moria ridendo.

Sto leggendo




Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni

 

Le parole. Dicevamo delle parole e del loro significato distorto, svuotato, geneticamente modificato. Come possiamo vivere insieme e sentirci comunità se non abbiamo più nemmeno un linguaggio comune? Da anni, ormai, chiamiamo «esule» il latitante Craxi. Chiamiamo «assolti» (cioè innocenti) i prescritti (cioè i colpevoli che la fanno franca). Chiamiamo «presunte tangenti» anche quelle consacrate da sentenze definitive di condanna. E «processi politici» i processi ai politici accusati di delitti comuni come la corruzione e la concussione. E «giustizialisti»  coloro che chiedono semplicemente giustizia, certezza della pena e una legge uguale per tutti, cioè i veri garantisti (cose che capitano in un paese che confonde Cesare Beccaria con Cesare Previti). Chi difende l’indipendenza della magistratura dal potere politico, invece, è chiamato «giacobino», anche se i giacobini teorizzavano la sudditanza della magistratura al potere politico, mentre chi chiedeva magistrati indipendenti erano semmai i girondini.

Chiamiamo «riformisti» strani personaggi che non hanno mai fatto né proposto uno straccio di riforma, ma in compenso predicano eternamente il dialogo, anzi l’inciucio con Berlusconi, e non si capisce che c’entri tutto questo col riformismo. Invece Rosi Bindi, autrice di una delle pochissime riforme degne di questo nome degli ultimi dieci anni, quella della sanità, passa per un’antiriformista «estremista» e «radicale». E così altri due riformisti ultramoderati, ma intransigenti, come Nanni Moretti e Giorgio Cofferati.

In compenso Berlusconi e Bossi, cioè gli estremisti più autoritari ed eversivi mai visti in una democrazia, rappresentano il polo «moderato» e «liberale».

Chiamiamo «demonizzatori» o «apocalittici» quanti hanno descritto e denunciato, insieme a tutto il mondo libero, il conflitto d’interessi illiberale del Cavaliere, il suo abuso delle televisioni, le sue censure di regime e le sue leggi d’impunità su misura: la semplice descrizione quotidiana delle mostruosità del quinquennio 2001-2006 è divenuta «antiberlusconismo», allarmando chi pensa che l’informazione e la satira debbano «moderare i toni» e l’opposizione non debba opporsi troppo. Si sono persino inventate categorie sconosciute in qualunque altro paese, con luoghi comuni e frasi fatte utili a squalificare in partenza chiunque chiami le cose con il loro nome: chi chiedeva l’intervento del Quirinale, supremo garante della Costituzione, contro le continue violazioni costituzionali, veniva accusato di «tirare per la giacchetta il capo dello Stato». E chi, da posizioni liberali, o cattoliche, o azioniste, o socialdemocratiche restava coerente con se stesso e teneva la schiena dritta senz’accettare i continui fatti compiuti, veniva ipso facto annesso alla «sinistra radicale» dell’«estremismo» e del «massimalismo».

Ora, poi, chiamiamo «girotondi» le manifestazioni organizzate dai partiti del centrodestra contro il governo Prodi e a favore di sua maestà Berlusconi, mentre i girotondi erano movimenti spontanei e autorganizzati della società civile, al di fuori dei partiti, contro un governo che sgovernava e un’opposizione che non si opponeva.



(Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti, il Saggiatore 2006, pp. 246-8)




«Se in America il giornalismo è il cane da guardia del potere, in Italia è il cane da compagnia. O da riporto.»



«C’è chi nasconde i fatti perché non li conosce, è ignorante, impreparato, sciatto e non ha voglia di studiare, di informarsi, di aggiornarsi.

C’è chi nasconde i fatti perché ha paura delle querele, delle cause civili, delle richieste di risarcimento miliardarie, che mettono a rischio lo stipendio e attirano i fulmini dell’editore, stufo di pagare gli avvocati per qualche rompicoglioni in redazione.

C’è chi nasconde i fatti perché altrimenti non lo invitano più in certi salotti, dove s’incontrano sempre leader di destra e leader di sinistra, controllori e controllati, guardie e ladri, puttane e cardinali, principi e rivoluzionari, fascisti ed ex lottatori continui, dove tutti sono amici di tutti ed è meglio non scontentare nessuno.

C’è chi nasconde i fatti perché contraddicono la linea del giornale. C’è chi nasconde i fatti anche a se stesso perché ha paura di dover cambiare opinione.

C’è chi nasconde i fatti perché così, poi, magari, ci scappa una consulenza col governo o con la Rai o con la regione o con il comune o con la provincia o con la camera di commercio o con l’unione industriali o col sindacato o con la banca dietro l’angolo.

C’è chi nasconde i fatti perché è nato servo e, come diceva Victor Hugo, “c’è gente che pagherebbe per vendersi”».


Marco Travaglio scrive su Repubblica, l’Unità e Micromega. Tra le sue opere, Bananas (Garzanti, 2003), Montanelli e il Cavaliere (Garzanti, 2004), Berluscomiche (Garzanti, 2005). Con Saverio Lodato, Intoccabili (Bur, 2005). Con Peter Gomez, Regime (Bur 2004), Inciucio (Bur, 2005), Le mille balle blu (Bur, 2005) e Onorevoli Wanted (Editori Riuniti, 2006).



PS. Grazie, Mariella.

Sono in mano a lui




e ci chiedono aiuto


Ma lui vuole la pelle di Emergency e non si fermerà.


Occhio ragazzi

Passaparola




Petizione per il nobel per la Pace a GINO STRADA




Vogliamo promuovere la candidatura di Gino Strada al premio Nobel per la pace, non solo e non tanto per quanto da lui fatto, su tutti i terreni dove si svolgono "operazioni di pace", per salvare la vita degli ostaggi (ultimo Daniele Mastrogiacomo), ma per l'opera complessiva fatta con la creazione di Emergency, e per le migliaia e migliaia di persone alle quali, con la sua infaticabile opera, ha regalato un sorriso o una speranza.



Chiediamo agli altri bloggers di aiutarci, promuovendo sui loro siti questa patizione. Grazie.



per riferimenti: www.tafanus.it



Per firmare la petizione CLICCA QUI

sabato 24 marzo 2007

Home exchange


Sono con noi Donna e Luciano, canadesi. Lei d'origine irlandese, lui portoghese. Hanno passato gli anni lavorativi a Toronto, lei insegnante di inglese lui addetto a non so quale mansione in una grande fabbrica di bombardieri, locomative e quant'altro. Da giovane ha fatto il servizio militare in Angola. Peccato per la poca padronanza della lingua, ma sarebbe interessante uno scambio più approfondito...D'altronde nessuno straniero che ci capita in casa sa una parola di italiano. Coppia simpatica: lei estroversa come tutti gli irlandesi che abbiamo incrociato nei nostri incontri, lui più posato, ma gioviale.

Nella seconda metà d'agosto 2008 noi andremo nel loro condo (appartamento condominiale) in Costa de Caparica, due passi da Lisbona, la città che a noi interessa conoscere.
Infatti loro passano l'inverno in Portogallo e il resto dell'anno a Vancover che ha un clima migliore di Toronto.


Quindici giorni fa sono passati di qui - pochi giorni - Monica e Herman, di Stoccolma. Lei ginecologa, lui consulente finanziario. Semi-pensionati, molto sportivi, anche sciatori (il preavviso del loro arrivo ce lo hanno comunicato dall'Abetone - ma la neve non era quella del post precedente...).

Sinceramente interessati alle cose d'arte ( Monica ha un debole per il Beato Angelico). Dialogo più approfondito, anche per merito della lingua francese che ha permesso a Paola un fitto interscambio con Monica, la quale sa svedese, tedesco, francese, inglese, spagnolo, forse anche un po' d'arabo, ma non l'italiano. Per suo esercizio le ho dato il mio fascicolo su Dante e il Casentino, tradotto per metà in inglese (riferirò in altro momento delle traduzioni inglese e francese in corso d'opera...) e le ho promesso-minacciato un esame di verifica al prossimo incontro.

Un flash: in Svezia ci sono molti immigrati islamici e pongono un problema riguardo alla programmazione delle nascite (cosa ormai ovvia per gli svedesi) che sono fuori controllo. Detto da una ginecologist.

Andremo a Stoccolma quando avrò combinato lo scambio con Londra, in modo da prendere due piccioni con un solo volo, possibilmente Ryan air.

Le nostre agenzie di scambio casa sono http://www.seniorshomeexchange.com/ a cui siamo iscritti "a vita" (generosità concessa ai ...maturi) e http://www.homeexchange.com/ 

( in versione italiana http://scambiocasa.com/ ).


La prima ha sede in Canada, la seconda, più importante, ha sede in California, mi sembra Santa Barbara e ti consente di contattare i suoi iscritti (tantissimi) anche se tu non sei iscritto.

Abetone 23 marzo 2007




Dal rifugio della Selletta guardando il monte Gomito. Ore 13.

Ma fino a mezzogiorno cielo azzurro.

La neve come poche volte. La Stucchi eccezionale. Ma Simone preferisce la uno delle Zeno. Il Pulicchio chiuso. Aprirà domani sabato, dato che i cannoni stanno sparando (riferito da testimoni oculari).

NB. Gli abetonesi non si smentiscono: alla seggiovia delle Regine mancava il bigliettaio, attesa di un quarto d'ora per prendere l'impianto. La scala di accesso in cemento non pulita e senza manutenzione. A quando una copertura in gomma?


giovedì 22 marzo 2007

Il buon vecchio e la cattiva fanciulla


English learning


 She charged Bush with war crimes and torture, citing examples; O’Reilly said this is "America hating." Stay tuned as we present the evidence to Fox News…




clicca con il mouse


mercoledì 21 marzo 2007



PAOLA racconta la sua esperienza nel laboratorio Kimeta.


Quando cominciammo a intrecciare la nostra storia con quella delle donne del campo rom, sapevamo pochissimo di loro; in compenso avevamo parecchi pregiudizi, cioè quelle informazioni che sostituiscono spesso la conoscenza diretta dei gruppi etnici, in modo particolare di quelli che mantengono tuttora notevoli diversità nei confronti del popolo nel cui paese si sono trovati a vivere. Via via che la nostra esperienza è andata sviluppandosi, siamo entrate in contatto con un certo numero di donne, con gli uomini solo di riflesso, dal momento che avevamo scelto di costruire un gruppo di lavoro al femminile. Se penso all'inizio di questo percorso, quando ci si parlava senza ancora conoscerci, avendo di mira soprattutto il progetto di mettere in piedi una realtà lavorativa, mi pare che quel primo impegno fosse già gratificante per noi che ci apprestavamo a metterci alla prova con un esperimento nuovo e con nuovi contatti umani ma anche per le donne rom che si aprivano alla speranza di trovare un lavoro retribuito e alla possibilità di uscire dal loro mondo chiuso. Se poi considero le cose dal punto di vista dell'esperienza accumulata oggi, vedo che il tempo e il nostro impegno hanno fatto nascere molte cose. Oltre alla loro e alla nostra soddisfazione per un servizio che appare ben avviato e ben recepito nel quartiere, è il nostro rapporto che naturalmente è cambiato. Ora ognuna di noi si mette in relazione ogni giorno con donne che conosce abbastanza bene, il cui comportamento è prevedibile in linea di massima e con le quali può parlare delle cose del lavoro, ma anche d'altro, quando ci sono i momenti di pausa o quando siamo poche. Due sole è l'ideale e a me capita in un turno pomeridiano. Di che parliamo. Di vari argomenti, dei mariti (loro) che lavorano o faticano a trovare lavoro, o dei figli (soprattutto i loro) che studiano, si sposano di solito molto giovani e a loro volta hanno presto dei figli, delle piccole case nuove di legno che sono più confortevoli delle baracche di fortuna di prima, dei soldi che sono sempre troppo pochi e delle bollette della luce - per loro una novità assoluta ­che è un problema riuscire a pagare. In realtà è evidente che per quanto noi a volte si parli dei nostri figli o dei nostri mariti, delle faccende della casa che sono le stesse - pulire, lavare, cucinare - quello che viene detto da noi del nostro vissuto è molto meno di quello che loro mettono sul tavolo di loro stesse e della loro vita. Penso che raccontando le proprie situazioni spesso problematiche queste donne cerchino da una parte di alleviare la pesantezza del loro vivere socializzandolo, dall' altra che nutrano la vaga speranza che forse se noi sappiamo, potremo in qualche modo aiutarle prima o poi. C'è quindi un rapporto di notevole fiducia e stima da parte loro, che sono disposte a rivelare aspetti segreti della loro vita familiare con una sincerità e un abbandono che spesso, anche se non sempre, noi non abbiamo nei loro confronti. Ci sono comunque degli spazi profondi del nostro essere in cui ci ritroviamo, là dove maturano gli affetti e le ansie per i figli ­anche se alcune loro tradizioni, come quella di volerli sposare d'autorità molto presto, ci trovano decisamente critiche - o il desiderio di essere rispettate per il lavoro che si fa e la consapevolezza di ricavarne autostima e autonomia nei confronti dei propri familiari e degli altri. Credo che su queste basi si sia instaurato un reciproco legame di affetto sincero, autentico proprio perché non generico di tipo assistenziale, ma individualizzato e alimentato proprio da quelle caratteristiche particolari che sono nel bene e nel male le nostre rispettive personalità. Succede così che, come accade in tutte le convivenze che sono generalmente positive, ognuna si arricchisce di qualcosa che viene dalle altre, anche quando si genera conflittualità, perché quel qualcosa mette in discussione e qualche volta scalfisce sicurezze e giudizi anche radicati. Del resto neppure in loro mancano i pregiudizi o forse sarebbe meglio dire certe aspettative su cui si potrebbe discutere a lungo. Infatti restano quasi deluse quando gli diciamo che in famiglia abbiamo solo una macchina perché per loro la macchina è segno di ricchezza e benessere e non un mezzo indispensabile per muoversi, oppure quando viene fuori che in genere non solennizziamo le nostre feste con riunioni familiari allargate e pranzi importanti. Così sembriamo loro poco serie poco rispettose delle tradizioni. E questo non è un argomento semplice perché presuppone il passaggio dalla grande famiglia, che è tuttora la loro realtà, ai piccoli e piccolissimi nuclei che rappresentano la nostra realtà familiare attuale. Certo per raggiungere risultati più soddisfacenti nei nostri rapporti interpersonali ci vorrebbe una vicinanza maggiore, la possibilità di stare più insieme e di parlare più approfonditamente, ma è proprio questo che è difficile, forse più per noi che per loro, perché siamo spesso vinte dalla tentazione di identificarci con la storia di cui siamo parte perché sappiamo con quante difficoltà e quanti sacrifici personali sono stati superati ostacoli e disuguaglianze di genere che non ci piace ritrovare ancora irrisolti nella fatica giornaliera di queste donne.

Anche se d'altra parte è poi per questo che in noi si mettono in movimento il sentimento di solidarietà e il bisogno di relazionare con loro per ritrovarsi in quella parte del femminile in cui ci sentiamo più vicine. Resta il fatto che non possiamo non essere consapevoli che rimane tra loro e noi questa palpabile frattura costruita da civiltà diverse che ci mette continuamente sotto gli occhi il divario di molti aspetti della nostra vita e che il desiderio di annullarlo per stringerci in un abbraccio senza riserve sarà sottoposto ripetutamente a delusioni reciproche e ripensamenti. E del resto con quante donne amiche, simili a noi, nate e vissute dalle nostre parti, è stato ed è possibile un abbraccio veramente senza riserve? Resta da dire e non è davvero un aspetto trascurabile, che c'è sempre una grande risorsa nei rapporti personali ed è l'affinità particolare con qualcuno o qualcuna. Questa prerogativa ha il singolare potere di legarci al di sopra delle culture e delle situazioni sociali e ci regala, anche in mancanza di linguaggi che traducano adeguatamente i nostri sentimenti e le nostre idee, quelle sensazioni che accrescono il nostro piacere di vivere insieme. (pag.99 sgg.)


I QUADERNI DI PORTO FRANCO. nuova serie.

16. Manididonne

un racconto a più voci

donne

si incontrano,

comunicano,

progettano

un’esperienza

di integrazione




Un libro per comunicare uno stile di integrazione ed una capacità operativa al femminile: contenuti, valori e realizzazioni di donne che accettano di mettersi in gioco e di osare il futuro possibile.

dicembre2006



Tiratura 1500 copie

Distribuzione gratuita 

Copie della pubblicazione si possono richiedere presso:

Regione Toscana Giunta Regionale - Direzione Generale politiche formative e beni culturali

PORTO FRANCO.Toscana. Terra dei popoli e delle culture

Via G. Modena 13- 50121 Firenze

Tel. 0554384127-129-122

Fax 0554384100

Leggi anche qui. Ci trovi l'introduzione del libro, a cura di Luciana Angeloni.

Ceterum censeo northamerican gang dimittendam esse.


martedì 20 marzo 2007

Diritti civili



 

Indietro come la coda del maiale

 

... ma l’art. 24 della Costituzione e ribadito numerose volte dalla Corte costituzionale: se un diritto c'è (e tanto più se è previsto dalla Costituzione) non può mancare un giudice davanti al quale farlo valere.

Si può capire la difficoltà dei nostri giudici, abituati a giudicare applicando regole e non avvezzi a giudicare secondo principi di portata generale (come quello di autodeterminazione). Ma è proprio questo il compito cui essi sono chiamati nel nostro momento storico, quando il diritto — in primo luogo, il diritto più elevato: il diritto costituzionale — si esprime attraverso norme di principio e, in questa forma, sono proclamati i diritti fondamentali. Giudicare secondo principi non è la stessa cosa che giudicare secondo regole. …Significa stabilire un contatto immediato e concreto con i casi da giudicare. Il criterio di decisione scaturisce così nel rapporto principio-caso e non è mediato dalla regola legislativa.

 

...i principi sono insostituibili. Come si può pensare che la legge "faccia chiarezza e definisca" concetti come futilità e sproporzione dei trattamenti, dolore insostenibile, "qualità della vita'' intollerabile, degradazione della persona da soggetto a oggetto? È un compito impossibile, in generale e in astratto, cioè per legge. È perfino grottesco pretenderlo. È invece possibile, oltre che necessario, in concreto, a contatto con l'irriducibile varietà delle situazioni. Ed è qui che il giudice incontra la sfida alle sue responsabilità.

 

…se la constatazione è fondata e il giudice non sa risolverla da sé; se cioè un diritto costituzionale si trova in irrimediabile contraddizione con altre parti dell'ordinamento giuridico, la via non è astenersi dal giudicare, ma proporre la questione alla Corte costituzionale, il "giudice naturale" cui spetta assicurare la coerenza del diritto, sotto la supremazia della Costituzione.

Da qualunque parte questa vicenda si guardi - compiti dei giudici e valore della Costituzione - si ha da essere delusi, e la delusione aumenta quando si consideri la diversa situazione che esiste in altri Paesi, dove il ricorso ai giudici per la tutela dei diritti ha un grado di efficacia ben maggiore di quello che il nostro ordinamento giudiziario ha saputo finora offrire nel caso di Piergiorgio Welby.

 

da La Repubblica del 19 marzo 2007, pag. 1

di Gustavo Zagrebelsky


 




L’intervista (Mattino di Napoli, sabato 17 marzo 2007)

e

Il dialogo  (in Fiorenza 1632)








lunedì 19 marzo 2007

Quanto mi sarebbe piaciuta


una marcia ad ambasciate consolati basi americane in Italia


in solidarietà con loro



Quanto mi piacerebbe


Uno sciopero studentesco domani 20 marzo in solidarietà con loro.






Ceterum censeo north american gang dimittendam esse.



Un racconto di Paola

Te ovoltut iek ker / Avere una casa

 

Stasera siamo in visita. Le donne ci vengono incontro lungo il breve sentiero che scende dal villaggio nuovo di piccole case di legno. E’la prima volta che andiamo a vederle.

“Seustilan”, buon giorno, ciao. Si stringono addosso i golf perché è una giornata ventosa e fredda. La prima è la casa di Sabilja che è in angolo, in prima fila. E piccola, due stanze, ma è una casa. Dentro c’è tepore e lei socchiude la porta del bagno per far vedere che c’è tutto, la doccia, il mobiletto bianco con lo specchio e sopra una graziosa bottiglia di schiuma da bagno colorata. La camera è per il figlio, lei la notte si sistema in cucina.

- Perché non il contrario, Sabilja?

Mai! Queste persone che quasi sempre gestiscono paternalisti­camente la vita dei figli quando sono molto giovani, riservano a loro la camera e dormono in cucina sul divano letto.

La “pitta” che ha sapore di ricotta e di pasta sfoglia si abbina bene col succo di frutta, ma Sabilja offre anche il caffè turco leggero e profumato. Si dà da fare, come sempre, perché pren­diamo, assaggiamo, spartiamo con lei. Scappo nella camera per vedere le cose del figlio. Sì, somigliano a quelle di tutti i figli. Piccole collezioni di orologi, di bandierine, di accendini, grandi scarpe in un angolo. Penso a Ermes, che fra poco tornerà dal lavoro, un lavoro continuativo, per ora. Questa è la prima volta che ha una camera tutta per sé. Ma eccolo, entra, sorride un po’ imbarazzato davanti a tante donne che lo guardano com­

piaciute, ma sempre estranee. Sorride con gli occhi neri e belli nel piccolo viso bruno. E a noi viene voglia di sperare che il suo sia un buon futuro.

La casa di Scegersada è piena di tendine fresche, ricamate da lei e dalla figlia, mentre beviamo con gusto il tè caldo, sentiamo il piace­re di stare in una casa ben tenuta, dove gli spazi, forse troppo piccoli per questa famiglia di persone dalla corporatura alta e robusta, sono curati nei particolari. Alla parete di sinistra sono appesi tre piccoli ritratti. Mi accorgo che sono oggetti del tutto estranei alla cultura rom e due di essi sono perfettamente uguali: il ritratto di Cecilia Gallerani, la donna con l’ermellino di Leonardo. Sarà la grazia del viso e della pettinatura giovanile e modernissima che è piaciuta così tanto alla ragazza di casa? Non si può proprio non essere d’accordo. E inevitabile una riflessione sulla rapidità con cui le giovani genera­zioni si aprono alla cultura del paese in cui vivono.

Ci accoglie, alla fine della visita, la casa di Zenepa. Una tenda ben drappeggiata separa la cucina vera e propria da una specie di piccolo salotto. Siamo un po’ allo stretto, ma anche qui la camera è per i giovani, anzi giovanissimi, sposi. Guardo la culla nell’angolo col bimbetto nato da poco e la faccia di bambina della mamma. Sembra quasi annoiata, un po’ fuori luogo. Forse il suo posto sarebbe a chiacchierare con le amiche o a divertirsi, libera e spensierata nel suo lontano paese dove probabilmente non ha mai neppure visto il mare.

Mentre ci salutiamo partendo, poiché si è fatto tardi, il vento sibila penetrando dentro i fragili ripari di legno che gli uomini hanno eretto intorno alle casette. Diciamo grazie, “ansasti”, e gettiamo solo uno sguardo veloce alla piccola “moschea” perché ci fa fatica toglierci le scarpe per poter entrare.

Sulla via del ritorno penso al senso di estraneità che ci coglieva le prime volte quando venivamo al campo, al rigagnolo d’acqua che scorreva tra i piedi nella stradina che saliva al luogo dov’erano aggrappate le roulottes e le baracche, ai residui di og­getti rotti sparsi qua e là, alla musica a tutto volume che usciva da dietro qualche porta sconnessa, un pezzo di legno di fortuna messo lì a proteggere persone e cose, mentre voci sconosciute si scambiavano parole sconosciute. Un mondo a parte, a cui si sottraeva un po’ il recinto di legno pieno di bambini dagli occhi neri e vivaci che correvano qua e là sotto lo sguardo compiaciu­to di qualche donna anziana dal capo coperto. In fondo, dove una tenda segnava l’ingresso al bar, troneggiava un contenitore rosso di metallo che esibiva bottiglie di Coca-Cola. La Coca­Cola, l’elemento che a suo modo ricuciva l’estraneità riportan­doci all’immagine del nostro mondo di consumi e di benessere. Un insieme che, pur addolcito dalla cura degli interni di certe baracche, con le tende in bella vista e i numerosi tappeti, nel complesso riconfermava l’immagine tradizionale dei campi rom nei nostri paesi, cioè di luoghi dove nessuno vorrebbe mai non dico abitare ma nemmeno essere ospite per un giorno.

Del resto questa realtà difficile e dolorosa traspariva dalle pa­role delle donne. La casa era uno dei punti dolenti.

- Laggiù (nel Kossovo) era la mia casa, piccola. L’aveva costrui­ta la mia famiglia. Ora non c e casa. Io avevo grande casa con mia suocera; intorno c’era orto. Io sempre mangiavo i cetrioli piccoli crudi e lei brontolava.

Sempre, ogni volta che cadeva il discorso, si affacciavano alla memoria queste immagini di un passato certo non del tutto se­reno, sicuramente non fondo, ma dove non era stato ancora di­strutto dalla guerra e dalla povertà estrema questo fondamento del vivere che è la casa, il perimetro degli affetti più intimi, il luogo dove nasce la vita e prende nutrimento la relazione, pur con tutti i suoi problemi. Quando è stato costruito il villaggio di casette dileguo, le donne non hanno preso quasi niente delle vecchie cose, perché erano segnate da una degradazione che non si volevano portare dietro.

- Basta con la pioggia che mi veniva dentro casa, con gli scara­faggi che scappavano dappertutto e anche col serpente che c era

dietro la baracca quando stendevo i panni, dice Scegersada ri­dendo, ma ancora con un’ombra di disgusto negli occhi.

Certo nemmeno questa è la casa vera.

- La casa vera, ker ciacie, è quella dove non devi tenere i vestiti vicino al letto la notte perché siano pronti se scoppia l’incendio, dice Zenepa.

Penso a come mi dispiace non averle conosciute nel loro am­biente queste donne. Sabilja che correva a gara coi maschi nella neve e non voleva che il fratello sparasse agli animali nel bosco, Zenepa che si aggirava nell’orto a scovare i piccoli cetrioli tene­ri di nascosto alla suocera, Scegersada che saliva a piedi i molti piani della casa del babbo quando l’ascensore era rotto. Proprio come da noi. Magari si potrebbe anche aggiungere che l’ugua­glianza preesiste, è il dato biologico, la diversità viene dopo, è accidentale e spesso porta con sé povertà e svantaggi notevoli. Per questo possiamo stare insieme e parlarci perché sotto la diversità affiora quello che abbiamo in comune. Le immagino queste donne, ora madri di quattro, cinque figli, quando erano ragazze timide e inconsapevoli del loro futuro. Come eravamo noi, nel nostro mondo allora più represso e repressivo e mol­to meno ricco di ora. I loro sogni non erano tanto diversi dai nostri: l’amore, la famiglia, l’amore soprattutto, perché come famiglia a vent’anni ti basta quella che hai già e a volte sembra che ti leghi anche troppo. Oggi a tutte ci dolgono braccia, gam­be e schiena per l’artrosi, a tutte ci piace sederci insieme nella pausa del lavoro, mangiando i biscotti o la schiacciata con l’olio, a chiacchierare di cose che alleggeriscono il peso della giornata e allontanano per un po’ i pensieri molesti.

Ora mi pare che il vento si sia un po’ calmato, mentre lasciamo il piazzale sterrato e ci avviamo verso il nostro mondo di con­sumi con la mente e il cuore pieni di sensazioni piuttosto forti, anche se un po’ confuse.

(Pag.56)

 
I QUADERNI DI PORTO FRANCO. nuova serie.

16. Manididonne

un racconto a più voci

donne

si incontrano,

comunicano,

progettano

un’esperienza

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Un libro per comunicare uno stile di integrazione ed una capacità operativa al femminile: contenuti, valori e realizzazioni di donne che accettano di mettersi in gioco e di osare il futuro possibile.

dicembre2006



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Distribuzione gratuita 

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PORTO FRANCO.Toscana. Terra dei popoli e delle culture

Via G. Modena 13- 50121 Firenze

Tel. 0554384127-129-122

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Ceterum censeo north american gang dimittendam esse



Paparesta lancia in resta



Domenica 18 marzo 2007


Firenze, Campo di Marte, Fiorentina - Roma: 0/0.


10 contro 11 dalla metà del primo tempo. Per me Paparesta è un po' uno str. perché:


1 - La seconda ammonizione a Dainelli se la poteva risparmiare; bastava un richiamo verbale. Non si falsa una partita per un fallo non pericoloso e non cattivo.


2 - Appena Totti veniva caricato, punizione per la Roma; appena Toni veniva caricato, punizione contro la Fiorentina.


Frey santo subito. E il papa resta.


E infatti:


 Ho letto su “La Repubblica” di ieri 17 marzo l’articolo di Giuseppe De Rita: “Noi cattolici e i falsi profeti della morale” e mi sono cadute le braccia.  Non lo riporto per la sua lunghezza, ma il senso traspare dal titolo stesso: solo i cattolici sono depositari della “vera” morale, tutti gli altri sono “falsi profeti”. Con ciò De Rita non bolla soltanto atei, agnostici e credenti in altre religioni, ma anche tutti i cattolici laici, i quali credono in Dio ma rispettano il diritto degli “altri” a credere in un Dio diverso o a non credere.

Alla provocazione di De Rita ha risposto oggi 18 marzo Eugenio Scalfari con l’articolo “Se i laici porgono l’altra guancia”, anche questo troppo lungo per essere riportato ma dal quale traggo questi tre brani:


1.«Starei molto attento, caro De Rita, a far proprio un concetto così azzardato da parte di chi per oltre un secolo non volle arrendersi ai principi della moderna astronomia sol perchè avrebbero messo in questione la centralità della nostra specie  nonchè la leggenda della creazione .. omissis... Alla luce di questa aberrante teoria potrei ben titolare “Noi laici e i falsi profeti della religione” ma me ne guardo bene; ho troppo rispetto per la predicazione di Gesù di Nazareth e sento così profondamente dentro di me il suo insegnamento di umanità e di amore per approfittare degli errori e dell’arroganza di molti suoi seguaci».


2. «Esiste un atto, un comportamento, un documento che possa configurare un’ingerenza da parte della Chiesa nella sovranità dello Stato? Di ingerenze vietate allo Stato dai trattati del Laterano ce n’è a bizzeffe e lo Stato si è ben guardato dal cadere in fallo. Ma il viceversa qual è? Che cosa non può fare la Chiesa in forza dei Trattati? Stando a quel che vediamo la Chiesa può far tutto. Dunque il Concordato non prevede limiti, è un colabrodo   (in effetti, basta leggere il Concordato per rendersi conto che contiene soltanto una serie di privilegi e di diritti che lo Stato riconosce alla Chiesa. ndr). E’ possibile configurare un’ingerenza, tanto per sapere? De Rita ci può aiutare? L’arcivescovo Bagnasco può indicare un limite del quale abbiamo del tutto smarrito l’esistenza? O debbono intervenire i pretori e adire la Corte quando un prete in pulpito prescrive ai fedeli come votare?»


3. All’esortazione rivolta da De Rita ai laici di non incoraggiare manifestazioni di piazza lontane le mille miglia dalle tradizioni religiose degli italiani, così risponde Scalfari «Sempre che questa “lontananza” sia reciproca. Pare che milioni di cattolici si preparino a scendere in piazza. Per loro è ammesso e consigliato e per i froci (ma sì, chiamiamoli così) è sconsigliabile? Curioso modo di intendere la democrazia».


Cordiali saluti


Giampietro Sestini

(trovato nella email)


 

domenica 18 marzo 2007



Un racconto di Paola (Pag. 51)


I ‘mangiari’


Il cibo è una parte importante nella giornata di noi donne, un argomento di cui si parla volentieri e con gusto, un piacere so­stitutivo che ci attutisce spesso un pensiero molesto e ci crea un gradevole senso di attesa. Con le nostre rom abbiamo mangiato insieme molte volte portando ognuna le proprie cose oppure al ristorante.

Loro prediligono la pasta al forno e comunque la pasta al sugo, me­glio se corta. Mi ricordo di quando mangiammo insieme alla casa del popolo “XXV Aprile”, era uno dei primi ‘mangiari’ da quando eravamo diventate cooperativa. Avevo davanti Scegersada e Ra­bije e vedevo che spelluzzicavano senza convinzione il loro piatto di spaghetti. Più tardi, durante il ritorno a casa, ci scambiammo qualche impressione e chiesi perché non era loro piaciuta la pasta, forse il sugo non era buono? Era cotta troppo poco?

- No, no - rispose Scegersada col tono discreto e ben educato che la distingue.

- E'  che non si sapeva come mangiare, avevo paura che sugo va tutto qua e là.

Così altre volte abbiamo preferito la pasta corta o il riso che loro cucinano magnificamente nei dolma, gustosi involtini di foglie di cavolo o di bietola, ripiene di riso e carne, o pasticci di pasta sfoglia con ricotta e spinaci, una specie di pizza bianca, come dice Scegersada, a cui da parte mia ho insegnato le polpette di carne e il patataccio che è uno sformato di patate e formaggio molto appetitoso. Ci vorrebbe anche la mortadella ma loro non mangiano maiale.

Il pane è a volte oggetto di scambio: un pane comprato, sciocco com e il nostro toscano, magari insaporito con olive o ramerino, in cambio di un pane fatto in casa, nel forno della cucina nuova acquistata un anno fa, verdolina e lucida come la voleva Leila, la figlia di Scegersada, un pane bianco e soffice, quasi brioscia­to, che mi viene offerto involto nella carta perché lo porti a casa. E ancora tiepido e offre così poca resistenza al morso che me lo mangio subito per la strada, mentre torno a casa.

Per Sabilia, che predilige le cose morbide, una volta ho prepara­to gli gnocchi di patate, un’altra volta il risotto.

- - Buono -  dice lei -  lo mangio spesso la sera, con latte. Faceva mia mamma.

Ride, come fa lei, un po’ giocherellona, un po’ accattivante. Qualche volta Sabilia è venuta a casa mia con certi wùrstel sa­poriti! Una montagna di salsicciotti scuri e ben affumicati.

-  Mi ci vorrà un anno per mangiarli tutti! -  le dico.

- Ma no, tu mangia uno al giorno, buono per la salute - ride, battendomi la mano sulla schiena e attirandomi a sé.

Zenepa invece è golosa di verdure crude.

- Io no mangia verdura cotta, solo cruda. E io: Insalata?

- No, no - risponde lei con quella voce che non ammette replica e fa un gesto con la mano, - mangio carote, cetrioli tutti interi così, come conigli. Ti ricordi?

Certo, mi ricordo di quando portai dall’orto due cetrioli piccoli e teneri e lei se li mangiò di gusto, a morsi, senza neanche la­varli.

Siamo sedute al laboratorio intorno a quattro tazze di caffè e due di tè, nel momento della pausa.

Sul vassoio c’è anche qualche pastina proveniente dalla spesa, che con una certa regolarità Leila e Angela fanno al supermer­cato, contente e orgogliose di provvedere ai bisogni della nostra piccola comunità.

In alcune occasioni abbiamo fatto dolci per i nostri “mangia­ri”. I loro non rappresentano al meglio la cucina rom. Secondo noi sono troppo unti e troppo dolci, con la pasta sfoglia che rima­ne decisamente sullo stomaco. Ma ho l’impressione, o forse la segreta speranza, che ce ne siano di più misteriosi e allettanti, che ancora non conosciamo e che loro tirano fuori soltanto in occasioni specialissime di feste particolari. Dei nostri amano le crostate ricche di marmellata casalinga e i tiramisù con quel saporino nascosto di caffè che il cucchiaino lascia in bocca. Col caffè sono maestre e lo fanno tutti i giorni alla turca, bello cor­poso e fragrante. Allora l’odore inconfondibile si diffonde per il negozio e sappiamo che è gradito a tutte nello stesso modo.



I QUADERNI DI PORTO FRANCO. nuova serie.

16. Manididonne

un racconto a più voci

donne

si incontrano,

comunicano,

progettano

un’esperienza

di integrazione




Un libro per comunicare uno stile di integrazione ed una capacità operativa al femminile: contenuti, valori e realizzazioni di donne che accettano di mettersi in gioco e di osare il futuro possibile.

dicembre2006

 
Copie della pubblicazione si possono richiedere presso:

Regione Toscana Giunta Regionale - Direzione Generale politiche formative e beni culturali

PORTO FRANCO.Toscana. Terra dei popoli e delle culture

Via G. Modena 13- 50121 Firenze

Tel. 0554384127-129-122

Fax 0554384100

Leggi anche qui. Ci trovi l'introduzione del libro, a cura di Luciana Angeloni.



Ceterum censeo north american gang dimittendam esse



venerdì 16 marzo 2007



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Rachel



Olympia 10 aprile 1979 - Striscia di Gaza 16 marzo 2003


«Oggi, quando sono salita sul mucchio di rovine che una volta erano case, i soldati egiziani, poco oltre il confine, mi hanno gridato “Vattene, vattene”, perché avevano visto arrivare un carro armato. Poi mi hanno salutato e mi hanno chiesto: “Come ti chiami?”. C’è qualcosa di fuori luogo, in questa curiosità. Mi ha ricordato che, in fondo, siamo tutti ragazzi curiosi di altri ragazzi. Ragazzi egiziani che gridano a una strana donna che sbarra la strada ai carri armati. Ragazzi palestinesi colpiti dai proiettili dei carri armati, quando sbucano da dietro i muri per vedere che cosa succede. Ragazzi di tutte le nazioni che si mettono davanti ai carri armati sventolando bandiere. Ragazzi israeliani rinchiusi nell’anonimato dei loro carri armati, spesso gridando, qualche volta salutando, molti costretti ad essere lì, molti solo aggressivi, pronti a sparare alle case appena ce ne andiamo».

Parole di una ragazza sensibile, convinta di poter fare qualcosa di buono in un paese lontano e triste, con la sua pettorina arancione.




The only road to peace

U.S. out of the Middle East


It is important when all the instruments of government collapse, we go in the final hour, to the most important line of battle: the people themselves. The people of this nation, I think, and I know it, are awake, and are being more awakened every day. They are hearing, and sensing, the danger that sits on the horizon."

Harry Belafonte

"È importante quando tutti gli strumenti di governo collassano, che noi arriviamo al punto finale, alla più importante linea di battaglia: le persone stesse. Le persone di questa nazione, io penso, ed io lo so, sono sveglie, e si stanno svegliando ogni giorno di più. Loro stanno sentendo, e fiutando, il pericolo che incombe all'orizzonte."


Harry Belafonte's remarks to the Bush Crimes Commission still call out to us today, more than a year later. Enclosed are some upcoming events that reflect the spirit and content of the Not In Our Name Statement of Conscience and the Bush Crimes Commission which we urge you to support. The NION SOC does not give out your email address so we are sending this information to you.


Stop the Iraq War Now! No Iran War! Impeach Bush for War Crimes!



Un racconto di Paola


Le mani

 

Le mani lavoravano attente, ognuna al proprio posto. Quelle “piccole e scure” manovravano con abilità ago e filo: ne venivano fuori graziosi occhielli ben rifiniti, orli a giorno ammirevoli per la precisione, piccoli ricami colorati su tovagliette bianche dalla trama quasi impalpabile. Anche i gioielli sapevano fare “le mani piccole e scure”, come quella collanina d’argento con le pietre azzurre che sembrava uscita dalla bottega di un artigiano provetto o il braccialetto fatto di piccolissime perline rosa e argento che avrebbe fasciato con grazia un polso di donna. Le “mani lunghe e scure” non erano da meno. Queste mani erano anche particolarmente armoniose con le dita ben disegnate e abbellite da vari anelli tutti d’oro, molto semplici, senza pietre colorate. Tic tic tic zigzagava veloce l’uncinetto e intanto cresceva il giro rotondo del centrino giallo. Nella stanza accanto le “mani grandi e nervose” correvano su e giù sull’asse da stiro. A un certo punto s’impigliarono nelle pieghe di una tenda bianca e complicata e parvero impazzire. Erano mani agitate quelle lì e scalpitavano spesso sul ferro che s’impuntava,soffiava e sputava acqua. Anche perché la montagna dei panni che aspettava era davvero considerevole.

Forse una bacchetta magica sarebbe stata l’ideale e le mani avrebbero potuto accendersi una bella sigaretta e fumarla con gusto fino alla fine o prendere una tazzina di caffè forte e profumato, che erano, entrambe le cose, due grandi piaceri della vita. Ogni tanto la mano correva alla manopola della radiolina sulla mensola e allora la musica amata usciva a fiotti e avvolgeva la stanza facendo compagnia. Allora le mani sospiravano appagate e andavano su e giù con più leggerezza sulla trama bianca e complicata della tenda.

Sul lato breve del lungo tavolo rettangolare stavano “le mani seducenti” che si distinguevano appunto dalle altre per lo smalto rosso vivo sulle unghie (qualche volta verdeazzurro o addirittura rosso cupo quasi nero), i molti anelli, uno per dito, i braccialetti tintinnanti ai polsi e un leggero profumo che si diffondeva a ogni movimento. “Le mani seducenti” non avevano una gran voglia di scrivere all’inizio della scuola, ma poi presero gusto, a poco a poco, a riconoscere i suoni, a ricordare la forma delle lettere e anche a scrivere le parole. In ogni modo la cosa che a loro piaceva di più era far tintinnare i braccialetti, tenendo la tazzina del caffè, e guardare ogni tanto la bella luce degli anelli intorno alle dita, come se qualche mano d’uomo fosse lì pronta per attirarle in un lungo ballo romantico.

Le più laboriose erano certamente “le mani materne” che avevano ben più da fare delle altre perché, oltre a comporre parole e a formar numeri, dovevano sollevare, cullare e blandire le crisi di pianto di una bimba, imboccarla quand’era il momento e ogni tanto, quando proprio non sapevano più cosa escogitare per farla star buona, attaccarla al seno e ninnarla un po’. Certo: le parole non venivano bene e il conto dei numeri era più difficile; “le mani materne” avevano però molta pazienza e passavano abbastanza disinvoltamente da una all’altra di queste occupazioni, forse perché erano mani molto giovani e piene di energia e per loro tutto era un po’ un gioco, faticoso ma anche divertente e non di rado finiva che la piccola mano della bambina, guidata dalla mano materna, si divertiva a cercar di formare le “a” e le “o”, mentre gli occhi passavano pian piano dai lacrimoni al sorriso. (Pag.23).


I QUADERNI DI PORTO FRANCO. nuova serie.

16. Manididonne

un racconto a più voci

donne

si incontrano,

comunicano,

progettano

un’esperienza

di integrazione




Un libro per comunicare uno stile di integrazione ed una capacità operativa al femminile: contenuti, valori e realizzazioni di donne che accettano di mettersi in gioco e di osare il futuro possibile.

dicembre2006

 
Copie della pubblicazione si possono richiedere presso:

Regione Toscana Giunta Regionale - Direzione Generale politiche formative e beni culturali

PORTO FRANCO.Toscana. Terra dei popoli e delle culture

Via G. Modena 13- 50121 Firenze

Tel. 0554384127-129-122

Fax 0554384100

Leggi anche qui. Ci trovi l'introduzione del libro, a cura di Luciana Angeloni.