mercoledì 28 marzo 2007

Radici cristiane d'Europa (1)





A.H.L. Fisher, Storia d'Europa,

Vol. II, pp. 154-167, Laterza, 1971



Le guerre di religione in Francia














Gravi conseguenze della lotta civile

Le guerre di religione della seconda metà del sedicesimo secolo furono per la Francia assai più disastrose che non le campagne d'Italia che le avevano precedute. La politica che aveva ispirato queste ultime era stata poco saggia, ostacolando, tra l'altro, l'opera di esplorazione dei marinai bretoni e normanni nel Nuovo Mondo e dissipando vite e ricchezze senza che le ambizioni francesi fossero minimamente soddisfatte. Ma le guerre di religione minacciarono addirittura di spezzare l'unità della Francia, conquistata già con tanta fatica, provocando mali ben superiori alle perdite subite in battaglia. Si combatteva tra città e città, tra villaggio e villaggio, tra famiglia e famiglia: assalti armati e assassinii erano incidenti quotidiani. Si commettevan delitti per fanatismo religioso, a soddisfazione di vendette private, o anche, come accade in tutte le epoche in cui la peste dello spionaggio infetta la compagine politica, per insensato terrore. La moralità del santo ugonotto era impegnata in una lotta condotta in larga parte coi metodi degli sparatori irlandesi. I savi francesi umanisti si tenevano in disparte, come Montaigne, nei cui Saggi, pubblicati durante la selvaggia tirannide della lega cattolica, troviamo un evangelo di epicureismo illuminato e di caritatevole scetticismo.


Qua (italiano) e  ( francese)




La violenza delle guerre di religione nella 'civiltà' europea: Montaigne, d'Aubigné e Tasso.


Tra gli scrittori che, in modi diversi, riflettono sul dilagare in Europa del conflitto religioso, si presenta innanzitutto Michel de Montaigne (1533-1592), il noto autore francese degli Essais (1588), una raccolta di saggi dal contenuto filosofico, ove la riflessione appare di carattere più pratico che teorico, ed è percorsa da una vena di scetticismo. Il saggio 21 del primo libro si intitola Dei cannibali, perché parla delle abitudini antropofaghe di alcune popolazioni del nuovo mondo. Ma la didascalia che segue il titolo subito chiarisce l'angolazione dell'autore: "Non bisogna giudicare in ogni caso barbarie ciò che non rientra nei nostri costumi: spesso la vita di natura supera in candore ogni vita civile; spesso i popoli primitivi ignorano il tradimento, la menzogna, l'avarizia, l'invidia e altri vizi dell'uomo civile. Descrive molti usi di vari popoli a prova di questa affermazione e per dedurne che tutto è relativo agli usi e alle occasioni". Che cosa è dunque veramente terribile? Che cosa davvero barbaro? Il cannibalismo rituale di popoli indigeni o il sangue di una guerra condotta in nome della religione? Il nemico è solo chi, da un punto di vista eurocentrico, è diverso da noi, oppure si annida anche all'interno di una medesima civiltà e religione?


Je pense qu'il y a plus de barbarie à manger un homme vivant, qu'à le manger mort, à deschirer par tourmens et par gehennes, un corps encore plein de sentiment, le faire rostir par le menu, le faire mordre et meurtrir aux chiens, et aux pourceaux (comme nous l'avons non seulement leu, mais veu de fresche memoire, non entre des ennemis anciens, mais entre des voisins et concitoyens, et qui pis est, sous pretexte de pieté et de religion) que de le rostir et manger apres qu'il est trespassé

Io penso che ci sia più barbarie a mangiare un uomo vivo che mangiarlo da morto, a dilaniare tra i tormenti e il fuoco un corpo ancora pieno di sentimento, farlo arrostire per il menu, farlo mordere e mangiare dai cani e dai porci (come noi l'abbiamo non solamente visto di recente, non tra nostri vecchi nemici, ma tra vicini e concittadini, e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà e della religione) piuttosto che arrostirlo e mangiarlo dopo che è già morto.


Ici


Ben diversa dalla riflessione scettica di Montaigne, ma ispirata dal medesimo scenario storico, è la poesia del francese Agrippa d'Aubigné (1552-1630), che nel suo poema Les Tragiques (1616), descrive sdegnato la guerra di religione, dal punto di vista dell'ugonotto che, combattente egli stesso, vede i compagni di parte massacrati a Parigi, per ordine della monarchia cattolica, nella notte estiva di san Bartolomeo (1572). " Les tragiques rappresentano lo sforzo confuso di un contemporaneo delle guerre di religione per tornare a valutare i sanguinosi fatti di cronaca della sua epoca, e ricomporli bene o male in termini di giustizia e di ordine eterni" (M. Yourcenar): e difatti sugli avvenimenti incombe dall'alto lo sguardo giudicatore di un Dio severo, che vede punita l'oscurità di un mondo terreno non illuminato dalla Grazia. Nel libro V, intitolato Le spade, l'autore descrive la strage di san Bartolomeo. La campana suona il segnale del massacro proprio dall'alto del Palazzo di giustizia: è un tremendo paradosso, perché ad essere distrutta è proprio la casa del giusto, l'innocente ugonotto. È una 'guerra senza nemico', una guerra intestina tra appartenenti ad una medesima nazione; ed è una guerra vile, perché colpisce i dormienti nel cuor della notte, quand'essi non possono difendersi se non con le mani, e non sono protetti da corazza, ma da 'tenera veste'. Unica garanzia di salvezza pare essere il non esimersi dalla strage: perciò terribilmente persino "i fanciulli si coprono di sangue per non essere visti con mani immacolate". Conclude la scena il macabro spettacolo della Senna insanguinata di cadaveri.



Je veux peindre la France une mère affligée "

Dans ces deux pages célèbres des Tragiques, Agrippa d'Aubigné dresse un tableau pathétique de la France déchirée par les guerres de religion. Représentant allégoriquement la France sous les traits d'une mère, il dénonce l'absurdité et les atrocités d'un conflit fratricide, causé par l'intolérance religieuse, ayant pour seule conséquence l'affaiblissement général du royaume. La dimension religieuse est bien entendu sous-jacente, comme toujours dans les Tragiques : les querelles entre les deux partis, catholique et protestant, reproduisent les luttes que se livrent, dans la Bible, Esau et son frère Jacob, ou encore Caïn et Abel. Le thème des frères ennemis se rencontre d'ailleurs dans de nombreux mythes (Etéocle et Polynice, Romulus et Rémus...) et contes populaires. Signalons enfin qu'Agrippa était orphelin de mère, celle-ci n'ayant pas survécu à l'accouchement de son fils (d'où son nom : "Agrippa" vient du latin aegre partus signifiant " enfanté dans la douleur "). Faut-il donc voir aussi, dans l'évocation de ces fils ingrats, la trace d'une culpabilité plus ou moins consciente à l'égard de la mère ?

Je veux peindre la France une mère affligée,

Qui est entre ses bras de deux enfants chargée.

Le plus fort orgueilleux, empoigne les deux bouts

Des tétins nourriciers, puis à force de coups,

D'ongles, de poings, de pieds il brise le partage,

Dont nature donna à son besson l'usage :

Ce voleur acharné, cet Esau malheureux,

Fait dégât du doux lait qui doit nourrir les deux,

Si que pour arracher à son frère la vie,

Il méprise la sienne et n'en a plus d'envie :

Mais son Jacob pressé d'avoir jeûné mesui,

Etouffant quelque temps en son coeur son ennui,

A la fin se défend, et sa juste colère,

Rend à l'autre un combat dont le champ est la mère.

Ni les soupirs ardents, les pitoyables cris,

Ni les pleurs réchauffés ne calment leurs esprits :

Mais leur rage les guide et leur poison les trouble,

Si bien que leur courroux par leurs coups se redouble :

Leur conflit se rallume, et fait si furieux,

Que d'un gauche malheur ils se crèvent les yeux :

Cette femme éplorée en sa douleur plus forte,

Succombe à la douleur mi-vivante, mi-morte,

Elle voit les mutins tous déchirés, sanglants,

Qui ainsi que du coeur, des mains se vont cherchant,

Quand pressant à son sein d'une amour maternelle,

Celui qui a le droit et la juste querelle,

Elle veut le sauver, l'autre qui n'est pas las,

Viole en poursuivant l'asile de ses bras :

Adonc se perd le lait, le suc de sa poitrine,

Puis aux derniers abois de sa proche ruine

Elle dit : Vous avez, félons, ensanglanté

Le sein qui vous nourrit et qui vous a porté :

Or vivez de venin, sanglante géniture,

Je n'ai plus que du sang pour votre nourriture.



Ici et  (in francese)


Torquato Tasso (1544-1595) nell'ultimo canto della Gerusalemme liberata descrive l'assalto finale dell'esercito cristiano a Gerusalemme. L'assedio si conclude con l'espugnazione della città santa, prima in potere dei nemici 'infedeli', e con la vittoria di Goffredo di Buglione, capitano delle truppe crociate. Egli può dunque sciogliere il voto della promessa liberazione del Santo Sepolcro, pronunciando davanti ad esso la sospirata preghiera finale. Nella parte iniziale del canto imperversa tuttavia lo scontro feroce tra le armate, in cui si alternano visioni d'insieme della battaglia e duelli frontali tra i guerrieri delle opposte fazioni. In particolare, le ottave 29-31 descrivono la disposizione frontale degli schieramenti, prima che le ali dei fanti diano il via all'attacco: le armi sono tese, i cavalli fremono e scalpitano, si odono i primi segnali di tromba. Nella sua crudeltà, la guerra ha un segreto e voluttuoso fascino. Nel primo verso dell'ottava 30 il poeta commenta: "Bello in sì bella vista è anco l'orrore": la strage che si prepara ha un aspetto di sinistra bellezza, che si delinea in principio attraverso le forme eleganti dei destrieri, il luccicare delle armi, la musicalità degli strumenti che annunciano l'attacco. Questo contrasto è reso attraverso l'accostamento di termini contrapposti: così dalla "tema esce il diletto", e le trombe sono al tempo stesso "orribili e canore".


Le ottave 33-34 e 38-39 descrivono particolari raccapriccianti relativi alle mutilazioni che i guerrieri provocano all'avversario: da una parte una guerriera cristiana strazia i pagani Zopiro (che taglia a metà in orizzontale), Alarco (cui tronca la testa), Artaserse, Argeo e Ismael (cui ancora spicca la testa), mentre tutti questi stanno cavalcando; dall'altra il pagano Altamoro fa a pezzi i cristiani Brunellone (la cui testa, segata in verticale dalla spada, si apre in due metà pencolanti sulle spalle) e Ardonio (cui una ferita simile a quella di Brunellone stralcia la bocca in due macabre metà di un allucinante sorriso).


Sarebbe tuttavia fuorviante interpretare la Gerusalemme liberata come un poema inneggiante alla guerra. A ben guardare, risulta assai significativo il fatto che l'ultimo canto riservi un maggior numero di ottave al racconto dell'epilogo felice dell'amore fra Rinaldo e Armida (il famoso paladino cristiano e la guerriera pagana, maestra di arti magiche ed erotiche) piuttosto che alla narrazione della fase conclusiva del conflitto. Si apre quindi, nel finale del poema, una sorta di 'controcanto' dedicato non alla guerra, ma all'amore, e si affaccia, nello scenario di battaglia, desolato nonostante la vittoria cristiana, un'utopia di pace.



Qui (un articolo di Marta Guerra sulle "rappresentazioni del conflitto nel 500)


29



Sembra d'alberi densi alta foresta

l'un campo e l'altro, di tant'aste abbonda.

Son tesi gli archi e son le lancie in resta,

vibransi i dardi e rotasi ogni fionda;

ogni cavallo in guerra anco s'appresta;

gli odii e 'l furor del suo signor seconda,

raspa, batte, nitrisce e si raggira,

gonfia le nari e fumo e foco spira.


30


Bello in sí bella vista anco è l'orrore,

e di mezzo la tema esce il diletto.

Né men le trombe orribili e canore

sono a gli orecchi lieto e fero oggetto.

Pur il campo fedel, benché minore,

par di suon piú mirabile e d'aspetto,

e canta in piú guerriero e chiaro carme

ogni sua tromba, e maggior luce han l'arme.


31


Fèr le trombe cristiane il primo invito,

risposer l'altre ed accettàr la guerra.

S'inginocchiaro i Franchi e riverito

da lor fu il Cielo, indi baciàr la terra.

Decresce in mezzo il campo; ecco è sparito:

l'un con l'altro nemico omai si serra.

Già fera zuffa è ne le corna, e inanti

spingonsi già con lor battaglia i fanti.


 


33


Con la destra viril la donna stringe,

poi c'ha rotto il troncon, la buona spada,

e contra i Persi il corridor sospinge

e 'l folto de le schiere apre e dirada.

Coglie Zopiro là dove uom si cinge

e fa che quasi bipartito ei cada,

poi fèr la gola e tronca al crudo Alarco

de la voce e del cibo il doppio varco.


34


D'un mandritto Artaserse, Argeo di punta,

l'uno atterra stordito e l'altro uccide.

Poscia i pieghevol nodi, ond'è congiunta

la manca al braccio, ad Ismael recide.

Lascia, cadendo, il fren la man disgiunta,

su gli orecchi al destriero il colpo stride;

ei, che si sente in suo poter la briglia,

fugge a traverso e gli ordini scompiglia.


38


Tal fean de' Persi strage, e via maggiore

la fea de' Franchi il re di Sarmacante,

ch'ove il ferro volgeva o 'l corridore,

uccideva, abbattea cavallo o fante.

Felice è qui colui che prima more,

né geme poi sotto il destrier pesante,

perché il destrier, se da la spada resta

alcun mal vivo avanzo, il morde e pesta.


39


Riman da i colpi d'Altamoro ucciso

Brunellone il membruto, Ardonio il grande.

L'elmetto a l'uno e 'l capo è sí diviso

ch'ei ne pende su gli omeri a due bande.

Trafitto è l'altro insin là dove il riso

ha suo principio, e 'l cor dilata e spande,

talché (strano spettacolo ed orrendo!)

ridea sforzato e si moria ridendo.

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