martedì 1 maggio 2007

Genova per noi (III)

22-25 Aprile 2007


Una città di contrasti


Di Genova si possono dire tante cose.

Che è una città verticale, che è una città Liberty, che è in parte ancora una città medioevale, che ha bellissime strade che sono patrimonio dell’umanità, in cui risplendono i marmi e i fregi a colore pastello di palazzi sei-settecenteschi e forse altro ancora, oltre naturalmente al fatto ovvio che è una città di mare.

Il mare però si vede poco a Genova, perché il porto è ingombro di sovrastrutture, di navi di grandi dimensioni, di chioschi e baracchini e quel pochissimo che ho potuto vedere era maleodorante e di un brutto colore. Gli altri aspetti, anche se tanto diversi, convivono insieme da tanto tempo in una mescolanza che non disturba, come i vari momenti di una storia lunga e ricca di eventi.

Lascio stare il brutto monumento a Colombo che sta a lato della stazione Principe con la consueta magniloquenza dei grandi monumenti che portano scritta la parola “patria” e m’inoltro per la vecchia via Balbi dove già fra i grandi palazzi antichi o solo vecchi si insinua ogni tanto l’apertura a discesa di un vicolo con piazzetta, che promette di condurre il visitatore a chissà quali misteri di vicoli e piazzette antiche. Sono questi gli scorci che mi hanno intrigato fin dal principio, e sempre, mentre proseguivamo io e il Cipri per la “Via Nova” e la “Via Novissima” guardando i bei palazzi color ocra con le rifiniture di stucco bianco e gli splendidi cortili all’aperto non di rado pavimentati a risseu (che è un mosaico di piccoli sassi levigati dipinti di bianco e di nero), l’occhio mi correva sempre ai vicoli che si affacciavano scuri e spesso fatiscenti tra un palazzo e l’altro. E poi l’ho fatta quella discesa agli inferi, sono entrata in quel dedalo di stradine e piazzette, scure e contorte, che è come un viaggio indietro nel tempo, un medioevo povero, malsicuro e scarso di sole, fino al punto centrale che è la bella piazza S.Matteo, dove non c’è una pietra che non sia d’epoca, dove architravi scolpiti, bellissimi, con guerrieri a cavallo dai mantelli svolazzanti ed elmi a testa di animale stanno sopra negozietti bui e malconci e vecchie porte di legno consunto col chiavistello a stanga celano antichi interni ora spesso disabitati.

A volte sono così stretti questi vicoli che stando a braccia aperte puoi toccare i muri mentre ti aspetti che ancora una volta possa venir giù dall’alto qualche secchiata di robaccia, come nella novella di Andreuccio da Perugia o nella satira di Giovenale in Roma antica.

Certo c’è degrado in questo M.E. sopravvissuto, dove anche la droga trova più facilmente l’ambiente adatto allo spaccio e la vita che ancora c’è in queste casupole malsane la immagini dura e stentata. Eppure una di queste vie, la malnominata Via Prè, ha acquistato una sua vitalità, così piena com’è di exstracomunitari, che la occupano ormai completamente, sostando con i baracchini per la strada, andando e venendo dalle botteghine aperte a tutte le ore, chiacchierando a gruppi nella loro lingua. Qui forse il peggio viene evitato, dal momento che vi si concentra una vita normale con donne, bambini e anche qualche vecchietto. Un esempio, a suo modo, di restituzione alla vita.

Certo che poi si sente il bisogno di recuperare la luce del sole e Genova non la nega certo perché attraverso quello che si potrebbe chiamare il livello intermedio, la città ti porta con ascensori e funicolare in alto, dove c’è una Genova soleggiata coi suoi palazzi rosa e rossi, dove con ariose passeggiate si può arrivare a qualche terrazza e guardare giù a un panorama che non finisce più e ti sta intorno da tutte le parti. Qui si può sedere a un bar, verso sera, quando c’è quella bella luce che sottolinea il colore delle cose e le definisce come in una pittura, e ordinare un “aperitivo”. Allora ti portano, insieme alla bibita, patatine fritte, olive, stuzzichini salati e noccioline. Sono davvero avari i genovesi? Ma forse lassù è come un pezzetto di paradiso e loro che lo sanno si adeguano. Del resto è vero che giù nell’inferno delle volte medioevali abbiamo provato a mangiare ed è stata una cosa davvero deludente. A parte questo, l’”inferno” di Genova mi è rimasto nel cuore con due ultime immagini. Una ragazzina molto graziosa che telefonava a lungo seduta sulla scala di S.Matteo e certo dall’espressione del viso doveva trattarsi di una cosa di grande coinvolgimento. Era un bell’accostamento la ragazza col telefonino e la severa chiesa antica.

Un po’ distante, ma sempre legata a filo doppio con la vita difficile di chi ha problemi a campare, la “cuccia” di D.Gallo nella canonica di S.Benedetto al Porto, dove un’anziana donna dal viso accogliente e due ragazzi con i capelli lunghi formavano un’immagine che sarebbe piaciuta a Bresson. (Paola Galli)

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