mercoledì 23 maggio 2007

Se oggi fossi a Torino




(Franco Sbarberi) Clicca per ingrandire.


Sarei al Teatro Vittoria ad ascoltare la prolusione di Franco Sbarberi. Che comincia così:



A pochi chilometri dal centro di Budapest, sull’altopiano di Tétény, c’è un parco monumentale unico nel suo genere, visibile ora anche in una rapida sequenza del film di Ferrario La strada di Levi. Questo museo all’aria aperta raccoglie, con brevi didascalie orientative, quaranta statue e monumenti politici degli anni precedenti e successivi all’insurrezione operaia e studentesca del 1956, sistemati a suo tempo dal regime comunista nelle piazze più significative della capitale magiara. La decisione di costruire il Parco delle statue era stata assunta dalla giunta di Budapest nell’inverno del ’91, dopo un’ampia discussione con la cittadinanza e con i partiti del nuovo corso politico, durante la quale erano emerse anche forti pressioni per distruggere, insieme alle statue, le tracce più visibili di un passato politico carico di lutti. Erano trascorsi 35 anni da quando il monumento a Stalin era stato fatto a pezzi nel centro della città, come il simbolo più inviso dell’oppressione sovietica. E oltre un decennio da quando la “scuola di Budapest” aveva vivacemente polemizzato contro la “dittatura sui bisogni” instaurata nei paesi dell’Est . La critica non avrebbe potuto essere più netta e tagliente. La politica dei regimi comunisti  aveva rovesciato nella prassi il principio libertario enunciato da Marx nella Critica al programma di Gotha: “Da ciascuno secondo le sue capacità; a ciascuno secondo i suoi bisogni” .

 Altro il clima politico-culturale degli anni novanta. L’architetto che ha costruito a Budapest il Parco delle statue ha ricordato, con un’elegante metafora, che è “un piacere” non partecipare al nefasto rituale del “rogo dei libri”, perché la democrazia “è capace di riflettere liberamente sulla dittatura”. Si deve certamente a questo amore per la libertà di pensiero se, all’ingresso del Parco, sopra due alti pilastri, spiccano i volti severi e stilizzati di Marx e di Engels, accanto ad una statua di Lenin che, con il braccio destro disteso e un giornale nel pugno sinistro, mima un discorso animato alle masse. Anche nel prato interno, da un lato sono situati un gruppo scultoreo di uomini armati guidati da Béla Kun e i monumenti di altri protagonisti della repubblica dei consigli; dall’altro si alternano lapidi e busti di dirigenti comunisti di metà Novecento, con varie statue inneggianti all’ “amicizia sovietico-ungherese”.

 Con il Parco sulla dittatura comunista, allestito senza furore polemico e con una scrupolosa attenzione agli oggetti inventariati, il popolo ungherese ha dato un’inconsueta lezione di storia, e non solo ai paesi che hanno vissuto l’oppressione sovietica. Accogliamola anche in questo convegno. Non c’è motivo, infatti, di assumere l’habitus mentale né dei custodi ortodossi dell’Arca Santa né dei senili denigratori di ogni ideale rivoluzionario mentre ci apprestiamo a delineare criticamente il sistema dei valori, le forme di esercizio del potere e le contraddizioni di tipo istituzionale e politico del comunismo novecentesco, così come sono state evidenziate dal pensiero liberale e democratico. Del resto, la libertà della ricerca e il bilancio ponderato dei risultati acquisiti sono praticati da tempo dalla migliore tradizione intellettuale europea. Non aveva già ricordato Croce, nella Storia d’Europa, che la “regola” aurea del liberalismo “vuole tolleranza, rispetto delle altrui opinioni, disposizione ad ascoltare e imparare dagli avversari e, in ogni caso, a ben conoscerli, e perciò a far sì che non debbano nascondersi nascondendo il loro pensiero e le loro intenzioni” ?

 Una cosa è certa. I grandi rivolgimenti della modernità hanno avuto sempre i loro interpreti favorevoli e i loro critici radicali, indipendentemente dai progetti politici elaborati dai protagonisti. Simile alle religioni, che collocano l’uomo oltre lo spazio e il tempo, la rivoluzione del 1789, per Tocqueville, fece astrazione dal cittadino francese per rigenerare l’individuo in quanto tale e per definirne i diritti e i doveri fondamentali. Nell’esaltazione dei diritti naturali il giovane Marx aveva visto soprattutto l’isolamento dell’uomo dalla comunità e dalla vita della specie, i valori di un universo politico funzionale al riconoscimento dei bisogni privati del bourgeois. Per l’aristocratico e liberale Tocqueville, invece, la rivoluzione francese, “proprio col risalire sempre a ciò che c’è di meno  specifico e, per così dire, di più naturale in fatto di assetto sociale e di governo [...], poté rendersi comprensibile a tutti, e farsi imitabile in cento luoghi ad un tempo”. La libertà e l’eguaglianza furono le passioni “dominanti”: la prima, “più recente e meno radicata”; la seconda, “più profonda e d’origine più remota”. Destinate a incontrarsi e a confluire nell’ ’89, quando i francesi credettero “di poter essere eguali nella libertà”, esse si alternarono poi variamente nella bufera del ‘ 93, come due amori in perenne tensione .



Sono le prime due delle otto pagine della bella relazione introduttiva al Convegno su "Il comunismo nella riflessione liberale e democratica del 900", a Torino dal 23 al 25 maggio c.m. 


Il parco delle statue l'abbiamo visto insieme - Franco, Pinuccia, Paola ed io - ai primi di agosto del 2005. L'impressione, in me che avevo vissuto le vicende del 1956 all'Università di Bologna, è stata forte. Il professore di storia contemporanea F.Sbarberi distilla per me un prodotto storico analitico razionale che dà un ordine logico al guazzabuglio di emozioni che mi suscita a tutt'oggi il ricordo di quella visita, in una mattina di sole, sulle colline intorno a Budapest. Le mie emozioni le ho riportate, a suo tempo, qui. Spero che il seguito della "Lectio magistralis" di Franco possa presto essere reperito online. Altrimenti ce la metterò io.

Un saluto, caro amico, compaesano, dunque casentinese doc. Come Sandro Lombardi, visto ieri sera al Bargello nelle vesti di...Eleonora Duse. Gran pezzo di teatro, caro Sandro. Peccato che a me D'Annunzio rimanga sullo stomaco (per una vecchia storia riguardante la nostra entrata in guerra contro l'Austria-Ungheria nel 1915). Il sangue del "sogno di un mattino di primavera" è retorico. Se è servito a D'Annunzio per mantenergli l'amore della Duse buon per lui. Ma quello dei morti dilaniati sul Carso ha reso demente l'Italia intera per almeno due generazioni. Altro che poeta vate ed eroe. Ca nisciuno è fesso.

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