sabato 8 dicembre 2007

Racconto dal vero

Franz Kafka

La paura (inedito)



«Nome, cognome, data e luogo di nascita?».

«Frédéric, Chaussoy, nato il 22 marzo 1953 a Boulogne-sur-Mer».

«Fedina penale?».

«Pulita».

«Beh! Forte come inizio...».

Guardo il poliziotto, senza capire. Pianta i suoi occhi nei miei per rispondere alla mia domanda silenziosa:

«Omicidio…».

È come se mi avesse appena mollato un pugno nel plesso solare. È pazzo! Provo a riprendere il discorso, impassibile:

«Per un omicidio, ci vuole una premeditazione, no?».

«Assolutamente. La premeditazione, dottore, è la riunione di reparto che lei organizza appena prima di passare all’azione…».


Sento il mio corpo farsi piccolo sulla sedia, e la mia mente volare in frantumi. In pochi secondi, il panico invade tutto. Non riesco più a riflettere. E non posso nemmeno andarmene.

Rivedo il viso stravolto di Marie-Christine quando mi ha teso la convocazione ufficiale giunta a casa qualche giorno prima. E sento la disinvoltura con la quale le ho risposto:

«Non ti preoccupare, vogliono soltanto la mia testimonianza. E non ho niente da nascondere…».


E poi rivedo la muta di giornalisti che mi aspettava questa mattina davanti al commissariato. Non ho capito perché fossero lì. Né da dove potessero tirare fuori domande così stupide.

«Dottor Chaussoy, quale sarà la sua reazione se sarà trattenuto in stato di fermo?».

«Rinnoverà le sue dichiarazioni? Ritiene ancora di essere lei ad aver ucciso Vincent Humbert?».

«Ha preso un avvocato?».

«È favorevole a una legge sull’eutanasia?».

«Le è stato spiegato cosa avrebbe rischiato, in caso di processo?».

Li ho presi per dei pazzi, ad aver immaginato cose così inverosimili. Stato di fermo, e cosa ancora? Sono qui in quanto testimone, per dare il mio punto di vista professionale sui fatti. Non c’è ragione per farne un caso, né la notizia d’apertura del telegiornale delle venti…


Quando finalmente sono riuscito a entrare nel commissariato, l’ho trovato sordido. Tutto sembrava vecchio e grigio, un po’ scrostato, un po’ sfasciato… Ho pensato a Marie Humbert. Era in stato di fermo, qui, in questo luogo sinistro e gelido, quando ha appreso la morte di suo figlio. Meno confortevole di così, non vedo proprio. Tranne, forse, una cella di prigione…


E poi, ho fatto conoscenza col tenente incaricato di interrogarmi: austero e severo. Quando mi ha fatto sedere, ho notato, entro una cornice sistemata accanto al telefono, le foto di due bambini. I suoi bambini, certamente. Una traccia di gioia. In un angolo, dietro la mia sedia, ho fatto in tempo anche a scorgere una specie di paletto, saldamente fissato al suolo, dalla cui cima pende un paio di manette. Mi sono detto che era probabilmente lì che legavano gli individui ricalcitranti, o pericolosi, per interrogarli.

Ha lasciato che mi sistemassi. E poi ha attaccato. E in due frasi, mi ha messo ko.


E se fossi io, il pazzo? Se questa convocazione fosse in realtà l’inizio di un incubo, e mi ritrovassi in stato di fermo, come nelle serie televisive in cui uno va dai poliziotti per denunciare il furto dell’autoradio e non riesce più a uscirne? Non ho immaginato neanche per un secondo che questa storia potesse prendere una svolta di questo tipo. Non ho ancora pronunciato una sola parola di ciò che ho da dire, ed è già lì, che prova a incastrarmi parlandomi della riunione di reparto… Sono venuto per testimoniare, e mi tratta come un imputato. Non come un imputato qualsiasi, no, come un imputato per il quale ha già deciso che è colpevole. Infatti, lo ha dichiarato lui stesso: come un assassino. Agli occhi di quest’uomo che rappresenta la legge, non sono un cittadino, ma un assassino. Cosa sono venuto a fare qui, e come riuscirò a tirarmi fuori da questo agguato?

Alle mie spalle, sento la presenza del paletto con le manette. Un momento fa, mi è sembrato sinistro, ma adesso mi fa paura.

«Allora, dottor Chaussoy. Se cominciassimo dall’inizio?».


Da professionista agguerrito, il tenente ha allestito la scena, prima di cambiare tono. Il resto del colloquio si svolge in un clima di fredda cortesia. Mi concentro sul motivo per il quale sono venuto qui: dare dei fatti la versione più esatta possibile. Mi ascolta per quello che è, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa il suo mestiere, con molta tecnica e pochissima benevolenza. Pertanto è lo stesso tono che adotto anch’io: tecnico e preciso. Professionista, anch’io. Senza stati d’animo. Fornisco la mia testimonianza in modo circostanziato, provando a non dimenticare niente, la rianimazione di Vincent, la stabilizzazione delle sue condizioni, lo studio della sua cartella, la riunione di reparto, la decisione di staccare la spina, la prima iniezione, la seconda iniezione, il decesso. Non ho nessun motivo per mentire, e so che gli altri membri dell’équipe e il referto dell’autopsia corroboreranno le mie dichiarazioni.

Parlo, e lui batte a macchina. Quando ha un dubbio su quanto ha capito, mi fa ripetere. E quando non sono abbastanza preciso per i suoi gusti, scava con una o due domande. Dura un’eternità, due ore, almeno. E poi, a un certo momento, dice che è finito, spinge verso di me i fogli che ha appena scritti a macchina, e mi chiede di rileggerli con attenzione prima di firmarli.

Lo faccio. È il racconto freddo e lapidario di un caso nel quale, tutto sommato, dovrebbe trattarsi soltanto di anima e umanità. La storia del mio incontro con Vincent e con sua madre, trasformata in un rapporto tecnico. La descrizione di un atto medico, spogliata di qualsiasi considerazione esistenziale. Il contrario assoluto del mio modo di vedere la vita, e di esercitare il mio mestiere…


Col morale sotto le scarpe, siglo ogni pagina e firmo in calce all’ultima. Mi sento, anch’io, svuotato di qualsiasi sostanza umana.

Raccoglie i fogli e si alza; mi prega di seguirlo e mi conduce verso un altro ufficio, dove mi accoglie un altro suo collega, piacevole. Sguardo sincero, sorriso cordiale. Come cambia! Aspiro voracemente la prima boccata della sigaretta che mi offre. Ho l’impressione di essere di ritorno da un brutto viaggio, senza essere ancora veramente arrivato. Nessuno mi spiega cosa stia succedendo, ma lo so benissimo. Nell’ufficio accanto, sento il fax ansimare mentre trasmette la mia deposizione all’ufficio del procuratore. Ne prenderà conoscenza e deciderà del seguito degli avvenimenti.



Omicidio.


Nella mia testa, le idee corrono a cento all’ora, non riesco a controllarle. Marie-Christine aveva ragione: come sono fatto, che non riesco mai a stare zitto? Bastava dire che Vincent era morto in seguito a una complicanza, sarebbe convenuto a tutti e non se ne sarebbe più parlato. Si fa presto a dire che non se ne sarebbe più parlato… Il procuratore l’aveva previsto: «Istruirò per omicidio». Sono sicuro che non mollerà, quello. Non potevamo, però, lasciare Vincent rinchiuso nella sua carcassa per i prossimi quarant’anni, e sua madre in prigione per tentativo di omicidio.


Sì, potevamo.

D’altra parte, altri non hanno esitato, e non sono messi così, oggi. E i miei figli stessi, in questa storia, che ne sarà di loro? Se mi imprigionano, chi pagherà la casa, gli studi e tutto il resto? Marie-Christine se la caverà, è forte, dalle situazioni difficili è sempre venuta fuori bene. Ma non si è meritata niente di tutto ciò. E se caso mai mi vietassero di esercitare la mia professione, cosa sarà di me? Non avrei mai dovuto raccontare tutto ciò a quel tenente di polizia. Avrei dovuto tacere, e fare chiamare Antoine, il mio amico avvocato. Perché non ho chiesto che chiamassero Antoine? Non sono un assassino.

Trovato qui



Vincent, pompiere volontario di diciannove anni, la sera del 24 settembre 2000 ha uno scontro frontale con un camion e dopo nove mesi di coma si sveglia tetraplegico, muto e quasi cieco. Nonostante gli atroci dolori, con l’aiuto del pollice riesce a scrivere una supplica al presidente Chirac – Le chiedo il diritto di morire – che scuote l’opinione pubblica e poi a dettare un libro con lo stesso titolo (pubblicato in Italia dall’editore Sonzogno). Lo aiuteranno – nel terzo anniversario dell’incidente – la madre Marie e il dottor Chaussoy.


Vincent è morto nel settembre 2003.



Frédéric Chaussoy,  Non sono un assassino. Il caso “Welby-Riccio” francese, Edizioni di Lucidamente/inEdition editrice, pp. 176, € 10,00)

Il racconto kafkiano lo trovi a pag.95.

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