lunedì 14 gennaio 2008

Dante, il poeta, il pensatore politico, l'uomo


Autore: Reynolds Barbara

Editore: Longanesi

Traduttore: Catania A.

Pagine: 505

Data pubblicazione: 2007 

 Prezzo: € 20,00 

 

La prima volta che vide Beatrice, ci informa il poeta nella Vita nuova, ella era «vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia» (Vita nuova, I). La fanciulla è stata identificata come la figlia di Folco Portinari, banchiere fiorentino ed esponente d'alto rango della città. Boccaccio afferma che l'incontro ebbe luogo a una festa del Primo Maggio in casa Portinari. Beatrice aveva dieci fratelli: cinque maschi e cinque femmine. Uno dei maschi, Manetto o Ricovero, entrambi più o meno coetanei di Dante, era intimo amico del poeta. Folco Portinari deteneva incarichi ufficiali, e fu eletto priore nell' agosto del 1282. Sei anni dopo fondava l'Ospedale di Santa Maria Nuova. Si narra che alla degna impresa fosse stato persuaso dalla balia di Beatrice, Monna Tessa, che, coadiuvata dalle suore dell'ordine delle oblate, si prese cura dei primi pazienti. Ancora oggi le suore dell' ordine festeggiano il 3 luglio, dì natale di Monna Tessa, nella piccola chiesa di Santa Margherita, situata tra casa Portinari e casa Alighieri, (traversa di via del Corso, ndr) dove sia Dante che Beatrice andavano a sentir messa. Sull'edificio che ospitava in origine l'ospedale si trova un'effigie di Monna Tessa e una lapide commemorativa. Folco morì il 31 dicembre 1289. Dal suo testamento, datato 15 gennaio 1288, risulta che Beatrice, cui il padre lasciava in eredità cinquanta fiorini, era sposata con Simone Bardi, membro di una importante famiglia di banchieri.

Dante non fa menzione del matrimonio.  .

Fa cenno viceversa della morte del padre di lei nella Vita nuova, ove descrive un gruppo di prefiche di ritorno da una visita di condoglianze a Beatrice, al cui dolore Dante partecipa vivamente. Erano passati molti anni dalla morte di Alighiero, ma qui l'autore sembrava rimpiangere un .legame affettivo di cui così sottolineava l'unicità: «nulla sia sì intima amistade come da buon padre a buon figliuolo e da buon figliuolo a buon padre» (Vita nuova, XXII). Fu pochi giorni dopo la morte di Portinari che il poeta si ammalò sprofondando nel delirio che tanto aveva spaventato la sorella - presumibilmente vittima di una pleurite o di una polmonite a seguito di un'infreddatura. Il vento pungente che in inverno sibila per le stradine del centro di Firenze è temibile ancora oggi.

L'immagine della fanciulla angelica lo accompagnò per tutta l'infanzia, eclissando un altro fatto importante mai menzionato dal poeta: il suo fidanzamento, all' età di dodici anni, con Gemma Donati, combinato dai rispettivi genitori. A tempo debito - secondo Boccaccio dopo la morte di Beatrice, nel 1290, ma probabilmente prima - i due si sposarono. Gemma gli portò una dote consistente e la coppia ebbe diversi figli, di cui non è dato sapere il numero esatto. Sicuramente vi furono due maschi: Iacopo, che divenne sacerdote ed ebbe solo figli illegittimi, e Pietro, che esercitò con successo la professione di giudice e si costruì una villa a Gargagnago, vicino Verona, dove ancora oggi risiedono i suoi discendenti, i Serego-Alighieri. Troviamo menzione di altri due figli, Giovanni e Gabriello, ma si tende oggi a ritenerli la prole di un omonimo di Dante. In tal caso, potevano essere forse dei cugini. Si è parlato poi di due figlie, Antonia e Beatrice, quest'ultima entrata in convento a Ravenna. Ma l'ipotesi ultimamente invalsa è che la figlia fosse una sola, Antonia, la quale avrebbe preso il velo con il nome della celebre figura amata dal padre. Con scarsi riscontri, come lui stesso ammette, Boccaccio afferma che fu un matrimonio infelice e che, per questa ragione, a differenza dei figli e di una figlia, Gemma non seguì il marito in esilio.

Comunque stiano le cose, i matrimoni venivano combinati per ragioni finanziarie o politiche e non erano certo occasione di romantiche istanze.

Quale figlio di genitori dall'insigne lignaggio, Dante fu avviato alle arti del Trivio e del Quadrivio, corso di studi che aveva i propri caposaldi in grammatica (cioè latino), logica e retorica, seguite da aritmetica, geometria, astronomia e musica. Il suo primo libro di grammatica dovette essere con ogni probabilità la diffusissima Ars Grammatica di Elio Donato, grammatico del IV secolo, la cui anima Dante colloca tra gli spiriti sapienti nel Paradiso, insolito omaggio per l'autore di un abbecedario.

I suoi progressi in latino non dovevano essere fenomenali se da adulto Dante ammetteva di aver incontrato difficoltà nella lettura di Cicerone e Boezio. Col proseguire degli studi, tuttavia, divenne un provetto lettore dei classici, in particolare di Virgilio, Ovidio, Lucano, Cicerone e del più tardo poeta Stazio; imparò anche a scrivere perfettamente il latino sia in prosa che in verso. A parte qualche parola, non conosceva viceversa il greco, cosa per altro normale in quel periodo. All'epoca Firenze era priva di università, ma Dante poté avanzare nei propri studi frequentando le scuole dei francescani di Santa Croce e dei domenicani di Santa Maria Novella. Qui insegnava il predicatore Remigio de' Girolami, che aveva studiato a Parigi avendo forse modo di ascoltarvi le lezioni aristoteliche di san Tommaso d'Aquino. Di ritorno a Firenze, aveva assunto l'incarico di docente di teologia presso la scuola domenicana. Se Dante presenziò ai suoi corsi, si profila l'affascinante ipotesi di un contatto ravvicinato tra san Tommaso e il giovane studente di filosofia e teologia. Ammirava Brunetto Latini, eminente studioso, notaio, magistrato e uomo di lettere. Quando Dante lo conobbe, aveva sessant'anni: all'incirca l'età che avrebbe avuto suo padre. Brunetto incoraggiò il giovane nei suoi studi, preannunciandogli un luminoso futuro. Dante ne redigeva un affettuoso ma dolente ritratto tra i sodomiti dell'Inferno, esprimendo pena e insieme sorpresa per la sua sorte, unitamente a profondo rispetto e gratitudine, come a un padre di cui conservava in cuore «la cara e buona imagine », riandando col ricordo alle ore in cui ne apprendeva l'arte di «come l'uom s'etterna». Dante era profondamente sensibile alla musica, e al canto in particolare, da cui pare traesse un senso di rapita beatitudine. Non risulta che suonasse qualche strumento, ma è certo possibile, anche considerato che uno dei suoi amici faceva il liutaio. Molte sue poesie furono musicate, una almeno dall' amico Casella, cantore e musicista.  Dell'imbastitura musicale di una ballata inserita nella Vita nuova si fa menzione sia nel testo poetico che nel commento in prosa.

Il componimento, come lascia intendere il nome, non era solo cantato ma anche accompagnato da una danza. Stando a Leonardo Bruni, suo biografo quattrocentesco, Dante disegnava benissimo. Di questo talento troviamo un accenno negli angeliche il poeta va disegnando« sopra certe tavolette », nella Vita nuova, attività che viene definita «la mia opera», termine che lascerebbe intendere qualcosa di più di uno scarabocchio. Può darsi che il lavoro gli fosse stato commissionato da una chiesa. In seguito Dante avrebbe disegnato angeli con le parole: particolarmente famosi i due del Purgatorio, le vesti «verdi come fogliette pur mo’ nate» sventolanti a tergo percosse dalle loro verdi ali, le chiome bionde, i volti così abbaglianti da non poterne sostenere lo sguardo.  Se era così che disegnava gli angeli, la sua « opera» doveva. essere piena di colore. Conosceva gli artisti del suo tempo e s'intendeva di materiali per dipingere. Nel Purgatorio lo vediamo sciorinare una lista di colori superati dalla vivezza dei fiori della Valle dei Re:

«Oro e argento fine, cocco e biacca, 

indaco, legno lucido, sereno,

fresco smeraldo in l' ora che si fiacca ».

Due suoi amici erano artisti: il miniaturista Oderisi da Gubbio, e Giotto che si dice avesse visto lavorare agli affreschi della cappella degli Scrovegni, a Padova. Di Dante non abbiamo autografi, ma stando a Leonardo Bruni, che poté vederne alcune lettere, il poeta aveva una grafia elegante, dalle lettere lunghe e sottili perfettamente sagomate.

Benché di statura non alta, doveva essere un tipo robusto essendo stato addestrato nel combattimento a cavallo e nell'uso della lancia, della spada. e  della mazza ferrata, discipline che richiedevano forza, abilità e anni. di esercizio. Nel 1289, a ventiquattro anni, combatté nelle prime file della cavalleria fiorentina contro i ghibellini di Arezzo nella battaglia di Campaldino. In una lettera visionata da Bruni, descriveva la battaglia e ne tracciava uno schema, affermando, pur non essendo nuovo all'uso delle armi, di aver provato all'inizio una grande paura, presto mutatasi in esultanza quando la cavalleria, sulle prime messa in rotta, riuscì a riorganizzarsi e ad attaccare, sbaragliando il nemico. Così Dante aveva menato la sua parte di colpi e di fendenti. Si è addirittura ipotizzato che potesse aver trafitto personalmente il ghibellino Buonconte da Montefeltro, la cui morte descrive con tanta intensità nel Purgatorio. Nell'Inferno ricorda la propria presenza all' assedio di Caprona, quando, qualche mese più tardi, i guelfi lucchesi e fiorentini invasero il territorio pisano conquistando ne diverse roccaforti. Leonardo Bruni si diceva dispiaciuto che, nel suo contributo biografico, Boccaccio non avesse dedicato maggior spazio al valore militare del poeta.

Uomo attivo ed energico, Dante si dilettava anche di attività sportive come la caccia, sia coi cani, che col falcone. In un sonetto muoveva rampogna a se stesso per il tempo eccessivo trascorso in tali virili occupazioni, trascurando la compagnia delle donne:

Sonar bracchetti, e cacciatori aizzare,

lepri levare, ed isgridar le genti,

di guinzagli uscir veltri correnti,

 per. belle piagge. volgere e imboccare,

 assai credo che deggia dilettare

 libero core e van d'intendimenti.

Ed io, fra gli amorosi pensamenti,

 d'uno sono schernito in tale affare;

e dicemi esto motto per usanza:

« Or ecco leggiadria di gentil core,

 per una sì selvaggia dilettanza,

lasciar le donne e lor gaia sembianza ».

 Allor, temendo non che senta Amore,

 prendo vergogna, onde mi ven pesanza.

Gradiva le compagnie triviali e gli svaghi virili. Con l'amico Forese Donati scambiò una serie di sonetti volgari e sessualmente oltraggiosi. Si trattava di un gioco letterario noto col nome di tenzone, sorta di contesa tra poeti che gareggiavano tra loro non sempre in insulti, ma. anche in ragionamenti urbani. Portati alla luce nell'Ottocento, questi sonetti destarono tale scandalo tra gli studiosi da suscitare una levata di scudi contro la loro autenticità. Accolti in seguito nel canone dantesco, sono oggi nuovamente oggetto di controversia.

Evento significativo nella giovinezza di Dante fu il suo ingresso in un cenacolo di poeti impegnati a sperimentare nuovi concetti. La  moda letteraria dell'amor cortese, coltivata dai trovatori nei centri aristocratici della Provenza, si era diffusa nell'Italia settentrionale e in Sicilia. Lo stereotipato omaggio a un' anonima dama maritata venne praticato e affinato da alcuni poeti italiani del XIII secolo, in particolare dal bolognese Guido Guinizelli, i cui versi esprimevano una nuova venerazione della bellezza e della virtù muliebri, in cui l'amore veniva considerato come un' esperienza nobilitante di cui solo un « cor gentile» poteva essere capace. Tale sublime sentimento, ben distinto dalla concupiscenza, dava origine a intense fantasticherie visionarie e oniriche, talora di sembianze quasi mistiche e prossime all'estasi religiosa. I poeti che vi si dedicavano, probabilmente con l'ausilio di qualche bevanda medicinale, erano noti come Fedeli d'Amore, che a esso professavano obbedienza come a un signore feudale o a mia qualche figura investita di autorità. A Firenze, i poeti dediti a questa forma d'arte costituivano un gruppo compiaciutamente elitario che andava incontro talora al dileggio di altri, più terragni versificatori, come toccò a Dante.

Nella speranza di entrare a far parte della nobile cerchia, circa all'età di diciassette anni cominciò a far circolare alcuni suoi sonetti, all'inizio in forma anonima. Imbaldanzito dalle prime reazioni, allargò la cerchia dei destinatari. Uno di questi componimenti ha per tema un sogno che Dante chiede ai colleghi di interpretare. Il sonetto sarebbe diventato in seguito il primo testo poetico della Vita nuova, e posto dall' autore in relazione a Beatrice, ma è possibile che le sue origini siano da ascrivere al convenzionale ambito letterario della «visione »:

A ciascun' alma presa e gentil core

 nel cui cospetto ven lo dir presente,

 in ciò che mi rescrivan suo parvente,

 salute in lor segnor, cioè Amore.

 Già eran quasi che atterzate l'ore

del tempo che onne stella n'è lucente,

 quando m'apparve Amor subitamente,

cui essenza membrar mi dà orrore.

Allegro mi sembrava Amar tenendo

meo core in mano, e ne le braccia avea

 madonna involta in un drappo dormendo.

 Poi la svegliava, e d'esto core ardendo

lei paventosa umilmente pascea:

appresso gir lo ne vedea piangendo
.


Tra le responsive vi fu quella di Dante da Maiano che, adottando un tono giocoso e sguaiato, parodiava un consulto medico consigliando al giovane omonimo di provare a schiarirsi le idee dandosi una buona lavata ai testicoli; in caso contrario, avrebbe fatto bene ad andare da un dottore con un campione di urina, beffarda allusione a una malattia venerea.

(Opera citata pag.18-23)


L'ho finito di leggere in questi giorni.  Se Wikipedia non sbaglia, Barbara Reynolds ha più di 90 anni! Ma è molto moderna e scanzonata. Nonché precisa e documentata. Ho scannerizzato due pagine per dar l'idea del suo modo di porgere.  E' un libro che si fa leggere, consigliato e profani e professionisti, semplici studenti o esperti prof., padri di famiglia e donne atte a casa. Per le badanti di lingua inglese l'edizione originale: Dante, the Poet, the Political Thinker, the Man. ed. Tauris&Co, London 2006. Avrei preferito che Longanesi avesse mantenuto il titolo originale, del quale ho fregiato il post.



(avrei preferito che avesse mantenuto: prova a farlo dire a Mike Bongiorno)

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