martedì 24 giugno 2008

Cuba, Venezuela, Bolivia

Stampa non rassegnata



La singolare scelta delle notizie sull'America Latina









di Ginni Minà - da Latinoamerica

L'informazione dei nostri media sull'America latina e particolarmente su nazioni indigeste agli Stati uniti come Cuba, Venezuela o Bolivia, è stata sempre scorretta e spesso perfino grottesca. Ma ci sono periodi, come quello attuale, di profonda crisi dell'immagine degli Stati uniti e della credibilità dell'Occidente, in cui questo atteggiamento diventa quasi un insulto per l'intelligenza degli stessi lettori.


La preoccupazione più palese dei nostri media, negli stessi giorni di queste notizie, era che Raúl Castro, riaprendo le porte degli alberghi di lusso ai cubani, non avesse considerato il fatto che, magari, una notte al mitico hotel Nacional de l’Avana costasse a un cittadino medio l’equivalente di dieci stipendi. Come se tutti i francesi, specie quelli delle banlieues, si potessero permettere una suite al Ritz di Parigi, o come se i milioni di esseri umani che in Brasile vivono nelle favelas avessero la consuetudine di passare qualche giorno negli alberghi di Ipanema o di Leblon a Rio de Janeiro. Se è lo stato a vietarti un consumo per assicurarti magari un’assistenza, una tutela, non è accettabile. Ma se te lo nega il mercato invece sì. Quando, negli anni ‘90, crollò il comunismo sovietico e vennero meno i rapporti economici con i paesi del Comecon, Cuba, che [forse è il caso di ricordarlo] è un’isola dei Caraibi e non il Liechtenstein, l’Olanda o la Spagna, puntò tutto sul turismo. Ma, come ha ricordato in questo numero di Latinoamerica Salim Lamrani, non aveva abbastanza strutture per accogliere la massa di turisti che avrebbero assicurato la sopravvivenza al paese, ancora strangolato dall’immorale e antistorico embargo degli Stati uniti. Dare quindi la precedenza ai turisti stranieri, portatori di valuta pregiata, è stata per lungo tempo una scelta obbligata. Ma per cogliere questi aspetti ci vorrebbe un po’ di onestà intellettuale, che per Cuba dalle nostre parti non c’è mai.



Così si preferisce scoprire l’acqua calda segnalando la voglia di consumi di molti giovani, dimenticandosi sistematicamente, per esempio che, nello stesso continente, ci sono 40 milioni di nordamericani che sognano uno straccio di assistenza sanitaria e 60 milioni di brasiliani per i quali il presidente Lula ha dovuto inventare il piano Fame zero, il più grande progetto di assistenza alimentare mai varato al mondo, per assicurare tre pasti al giorno a ognuno di questi indigenti. Questo panorama non impedisce però, per esempio, alla collega Alessandra Coppola del Corriere della Sera, di dolersi per il nascente fenomeno rappresentato da alcuni cubani che lasciano le loro anguste realtà native sognando una realtà migliore a l’Avana, la grande capitale, dove sono già nate piccole baraccopoli. È inutile ricordare che, proprio per quello che abbiamo imputato sempre alla Rivoluzione, la sua chiusura, la sua diffidenza verso gli stili di vita del capitalismo trionfante, Cuba si era finora salvata dal fenomeno dell’urbanizzazione che ha reso un incubo la vita della maggior parte degli abitanti di megalopoli come Città del Messico, Mumbai, San Paolo del Brasile, Buenos Aires o Nairobi, dove un’umanità privata di igiene, istruzione, sanità e di qualunque altra assistenza, dovrebbe, per le logiche dell’economia neoliberale, sopravvivere con meno di un dollaro al giorno. Sempre sul Corriere Claudio Magris si chiede se “il regime avrà la capacità o meno di attuare una reale trasformazione, ossia di gestire il proprio trapasso in una società democratica e liberale”.



Al professore umilmente segnalo che, visti i risultati che la parola “liberale” ha partorito in America latina, mortificando perfino la parola democrazia, è molto difficile che Cuba, malgrado tutte le sue contraddizioni e i suoi problemi, si consegni mani e piedi a questa dottrina politico-economica. E tanto meno i cubani, se li conosco bene dopo più di trent’anni che frequento l’isola, giudicherebbero una vittoria e un merito una “graduale auto-abolizione della Rivoluzione”.



In questi mesi in cui fioccavano le efferatezze che ho prima messo in fila e la grande stampa, imperterrita, come fa da mezzo secolo, continuava, sbagliando le previsioni, a chiedersi dove andasse Cuba dopo Fidel, mi è piaciuta una risposta di Padura Fuentes, uno scrittore spesso critico con la Rivoluzione e per questo molto più intervistato di Senel Paz o di altri: “Cuba cambierà? Dipende dagli Usa”. Perché questa è la realtà. Non a caso Obama è stato l’unico a criticare, anche se con prudenza, l’embargo e ad accennare la possibilità di ridimensionarlo o di cancellarlo. La Cuba di Raúl sta lanciando dei segnali, ma se gli Stati uniti risponderanno con i soliti accenti, la Rivoluzione non aspetterà molto a rivedere alcune aperture fatte. Sempre che la realtà in divenire dell’America latina tesa al raggiungimento dell’unità continentale, non rassicuri Cuba che il tempo di vivere assediata è finito. Ma non sarà facile raggiungere questo risultato. Gli Stati uniti di Bush jr, anche nell’anno appena trascorso, hanno stanziato 140 milioni di dollari per favorire l’agognato “cambio” politico nell’isola, che significa poi il solito funzionario Usa, preferibilmente proveniente dalla Cia, che prepara il terreno per le razzie delle multinazionali e per mettere al governo fidati esecutori delle direttive che arrivano dall’economia Usa.


Per leggere tutto l'rticolo apri il titolo, sopra. Ne vale la pena.

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