sabato 16 maggio 2009

Tita Biagiotti



Alba tita biagiotti


E' ritornata in grembo all'Universo. Qui al microfono sta raccontando storie, storie vere al teatro Dovizi di Bibbiena nel 1999. Il piacere di averla avuta a tavola, un anno fa, non di  più. Spiritosa, allegra, barzellettiera.  Maestra per una vita, single, capiva il bambino e quindi l'uomo con l'intuito di madre e nello stesso tempo con il distacco che una madre carnale ha difficoltà ad avere: gran cuore e bel cervello.


La mia casa era in Piazza Nova, di fronte alla Stazione del trenino Arezzo-Stia, a Ponte a Poppi. Una piazza interamente coperta da grandi olmi. Affacciato alla finestra vedevo a fianco la scuola elementare e dall'altra parte, proprio di fronte, la Cooperativa. Ci andavo tutti i giorni a comprare il pane, lo zucchero, il burro: mi serviva la Norina.  Dietro la Cooperativa, all'angolo il forno di Gigi; un pezzo di pane, davvero. Accanto al forno il fascinaio; quando era il momento Gigi usciva da via Nazario Sauro, si metteva all'angolo della piazza, proprio di fronte alla Cooperativa e chiamava alla voce Rosa, Gina, Luisa alle Casenove, oltre la piazza, di là dalla ferrovia, là sulla collina.  Dopo dieci minuti Rosa, Gina, Luisa spuntavano da sotto la stazione e attraversavano tutta la piazza con la spianatoia dei pani da cuocere sulla testa.  Gino lo portarono via i tedeschi nell'agosto del 44 insieme a tutti gli uomini validi del paese. E' rimasto a Mauthausen. 


Ora faccio parlare la Tita:


 La Cooperativa di consumo, sorta nel 1898 per iniziativa popolare, ebbe la sua prima sede oltre il ponte d'Amo nel quartiere Levanella. Per molti anni fu una piccola bottega gestita da una coppia di coniugi anziani e, dopo la morte del marito, dalla vecchietta e da una nipote; trasferita, verso l'anno '30, in Piazza Nova, ebbe un locale più ampio, più fornito di generi, con il forno annesso e, in seguito, con il macello.

La Cooperativa contava numerosi e fedelissimi soci, offriva generi di buona qualità e a prezzi inferiori agli altri negozi. La possiamo considerare, circa i prezzi, l'antenata del supermercato anche se non esisteva la varietà e l'abbondanza dei generi dei moderni Coop, Crai, Despar e altri.

Come del resto nelle altre botteghe, il pregio dei prodotti che la Cooperativa offriva era la genuinità; ad esempio, non c'era da chiedersi: "E questo prosciutto come sarà?". Era lì, bello, né rosso né rosa, né troppo fresco né secco, ben "virgolato" di grasso bianco; era, insomma, l'inconfondibile prosciutto del Casentino. Ottimi erano tutti gl'insaccati e il pecorino, gradevole il vino dei nostri vigneti, anche se un po' aspretto, squisito l'olio toscano.

Era, la Cooperativa, la bottega con un particolare clima di socialità e di allegria: arrivava Gigi, il fornaio, con le sue ceste di pane gustoso e croccante, con la sua bella vitalità, le battute spiritose dirette alle massaie che erano sue clienti per la cottura del pane, dei ciambelloni e dei vari dolci casalinghi.

Per queste donne fare la spesa alla Cooperativa rappresentava un momento di autentica evasione da un quotidiano irto di difficoltà: le amiche s'incontravano, si salutavano cordialmente, a bassissima voce si confidavano qualche segreto. Mentre le commesse Sandrina e Norina servivano i clienti e, non distratte dal "cicalio" delle donne, facevano i conti con il lapis sulla carta gialla da involti, si veniva a conoscenza di molti avvenimenti del paese, dei "fatti loro", del menù del giorno della famiglia. Così:

"T'ha' sentito? Gino sta male: capisco che un la leva".

"La Lisa, pora citta, l'ha uto la gambata: lui ci ha 'n'antra".

"S'è sempre saputo che l'era 'n farfallone!".

"T'ha visto Tonio? A quer nipote che gni ha fatto tanto un gni ha lasciato nulla".

"On se sa: a' bischeri la gni va sempre male".

"Norina, dammi la presa ché oggi vo' fare un ciambellone".

"A me tu me dai du' fette de mortadella ché a le mi' bocche de scimmia gni fo la bragiola ripiena".

E così via con il simpatico ciarlare in vernacolo.

Al primo piano dell'edificio c'era il Circolo e lì, specie d'inverno, convenivano i "merenderi" che in estate si vedevano ai tavolini di Azelio. Incuranti, o meglio, ignoranti del rischio colesterolo, trigliceridi e pressione alta, erano lì per l'attesa mangiata di stagione: "maiale", che passione! quando il maiale era maiale! E allora giù cotenne co' fagioli, grifo, braciole sulla gratella, "rocchi" (salsicce) coi fagioli all'uccelletto e migliaccio. Innumerevoli erano i bicchieri e poi la partita e i canti e il gran ridere.

Al pianterreno non mancavano gli affezionati al bicchiere: Rinne, un barbone che poteva dormire anche nella cappella del cimitero e, la mattina dopo, spaventare a morte Motore, spazzino per i vivi e becchino per i morti; e il vecchietto dall'orbita vuota, autentica spugna, seguito sempre dal nipote down; il cenciaiolo di Soci, anche cercatore di pelli di coniglio, che, sicuramente, raccoglieva più "canne" che pelli.

Questi personaggi erano, spesso, protagonisti di piccole liti e di scenette che non andavano mai al di là della comicità.

Gestori della Cooperativa furono, per tanti anni, Augusto e la Beppa, due tranquilli coniugi che, per seguire la figlia sposata negli Stati Uniti, volarono oltre Oceano e là rimasero a lungo, anzi la Beppa per sempre.

Anche Gigi se ne andò deportato in Germania e la sua esuberanza si spense in un lager nazista: perché i lager sono esistiti.


Da "Gente del Ponte", edito dalla biblioteca Rilliana di Poppi, 1997, pp.19-20.


Per andare al macello dovevo invece attraversare tutto il paese, lungo via Roma, arrivare in Piazza Garibaldi, attraversarla e proprio all'angolo su via Roma mi trovavo di fronte a un grande banco di marmo, alto due metri da terra!, con sopra la Càtera. Non ho mai visto un bancone di macellaio così monumentale. Tita parla di "donnino", io che la Catera l'ho sempre e solo vista sulla sommità di quel trono l'ho sempre pensata alta e robusta. Statua del Bernini. Tita qui è una sua buona allieva.


La Càtera del macello


Su un banco di marmo molto alto, una specie di pulpito, troneggiava un donnino dal volto ossuto e con due occhi chiari molto vivi: era la Caterina dal nobile casato Della Rovere, sposata Ceccarelli, comunemente conosciuta come "la Càtera del macello". Discendente forse da qualche antenato condottiero, rivelava un carattere manageriale, non inesistente, seppure raro, nelle donne di quel tempo.

Di lassù, dov'era collocata nel suo ruolo di macellaia, distribuiva "i pezzi della bestia" di cui era espertissima e, donna generosa e comprensiva di certe precarie situazioni familiari, vendeva (e talvolta regalava) il tanto richiesto "cintelllino per fare un po' di brodo" a prezzo stracciato.

Mentre sceglieva, tagliava, incartava, tra lei e i clienti si svolgeva una conversazione i cui argomenti erano le malattie, il lavoro, gli avvenimenti di cronaca nazionale e paesana.

Se veniva a conoscenza di qualche problema che angustiava le sue clienti, la Càtera si prodigava in suggerimenti e consigli: la parola facile, la grande esperienza di vita, unitamente al suo senso dell'umorismo, alle battute spiritose ispiravano fiducia e infondevano coraggio.

Da quella sua apparente fragilità si sprigionava un grande vigore di carattere e molta determinazione uniti a una bella intelligenza. Dal suo pulpito dirigeva tutto il movimento di un'azienda che comprendeva varie operazioni e richiedeva mente sveglia e occhio attento. Non era sola, anzi nel marito, valente macellaio, e nel figlio aveva un valido sostegno, ma il ruolo di dirigente in prima era il suo. E i suoi dipendenti? Erano tre: Giulio, Boba e Flok.

Giulio Della Rovere, fratello della Càtera, non aveva la grinta del suo omonimo, papa famoso: carraio di mestiere, era molto presente nel macello; si vedeva, ma non si sentiva perché parco di parole, discreto, rispettoso, carattere mite che si manifestava nello sguardo. Boba, dalla grossa mandibola e dallo sguardo indefinibile, lo ricordiamo in due versioni: il fiero fascista in grigioverde, fez nero e moschetto e il garzone nel lavoro al macello sempre seguito dal fedelissimo Flok.

Quante volte vedemmo Boba e Flok nel piazzone camminare insieme come due amici affezionati! Il nero mastino sosteneva con i denti una grossa sporta che conteneva diversi "fagotti" di carne e si dirigeva poi, con una precisione incredibile, a domicilio dei clienti.

Al Ponte fu aperto un altro macello ma ebbe vita breve perché, per noi, "macello" significava Càtera, cioè un'istituzione del paese(c.s. p.21)

Appendice storico-musicale


"Il Vecchio e il Bambino" di F.Guccini


Il vecchio e il bambino Un vecchio e un bambino Si preser per mano E andarono insieme incontro alla sera La polvere rossa si alzava lontano E il sole brillava di luce non vera L'immensa pianura sembrava arrivare Fin dove l'occhio di un uomo Poteva guardare E tutto d'intorno Non c'era nessuno Solo il treto contorno di torri di fumo I due camminavano, il giorno cadeva Il vecchio parlava e, piano piangeva Con l'anima assente, con gli occhi bagnati Seguiva il ricordo di miti passati I vecchi subiscono l'ingiuria degli anni Non sanno distinguere il vero dai sogni I vecchi non sanno nel loro pensiero Distinguer nei sogni il falso dal vero E il vecchio diceva, guardando lontano Immagina questo coperto di grano Immagina i frutti, immagina i fiori E pensa alle voci e pensa ai colori E in questa pianura fin dove si perde Crescevano gli alberi e tutto era verde Cadeva la pioggia, segnalavano i soli Il ritmo dell'uomo e delle stagioni Il bimbo ristette Lo sguardo era triste E gli occhi guardavano cose mai viste E poi disse al vecchio, con voce sognante E mi piaccion le fiabe Raccontane altre

Guccini


Ascolta la canzone qui


 

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