martedì 31 gennaio 2012

Sette giorni nella Palestina occupata - VIII



4 gennaio - mercoledì  

Si parte alle 7,30 per la Valle del Giordano, dirigendoci verso nord est. Attraversiamo un paesaggio desertico caratterizzato da aridi rilievi bianco giallastri sui quali ogni tanto si stende un insediamento con tetti rossi. La strada sale e scende ripida con molte curve, infilandosi nelle valli per risalire poi lungo i fianchi aridi delle colline. Dopo 45 minuti si passa per Ma’ale Adumim, l’insediamento più grande della Cisgiordania con circa oggi 40.000 coloni. Gli alloggi sono stati tutti costruiti durante il processo di pace Road Map, nel quale Israele si era impegnato a congelare ogni costruzione nelle colonie. La sua posizione è strategica, in quanto collegamento chiave nella catena di colonie a est di Gerusalemme, il cosiddetto “anello esterno”, concepita da un lato per isolare Gerusalemme est da Gerico, dall’altro per tagliare la Cisgiordania in due da nord a sud. Il suo impatto è enorme perché è di fatto una minaccia alla viabilità di un qualsiasi futuro o futuribile Stato Palestinese. La città con i suoi bianchi edifici a schiera, è ricca di verde, di alberi e di fiori, che si possono vedere anche nelle rotonde agli incroci delle strade. Essa ci appare come un corpo estraneo nella natura desertica del paesaggio così come è estraneo all’ambiente umano in quanto nucleo di occupazione illegale.
Proseguendo verso Gerico, ogni tanto si vedono sui pendii ai lati della strada accampamenti di fortuna di nomadi Beduini, che cercano di sopravvivere, malgrado la riduzione dei terreni a pascolo e la carenza di acqua che ha drasticamente ridotto il numero degli animali. Si comincia ad intravedere lontano il Mar Morto e nella grande pianura prima della città vi sono distese di palme da datteri, piantagioni di vigneti, serre e coltivazioni intensive di ortaggi. Impianti idraulici che attingono acqua nel sottosuolo sono presenti in gran numero e una rete di tubazioni si stende nei campi per distribuirla alle coltivazioni. Siamo a Gerico dopo un’ora di viaggio e alle 9 siamo davanti alla bella sede del Governo, che fu la sede di Arafat, in attesa dell’incontro con il Governatore, che inizia il suo intervento con i soliti saluti e ringraziamenti sinceri. Ci racconta delle grandi difficoltà che la popolazione incontra ogni giorno per vivere, come abbiamo visto ad Hebron, essendo la Cisgiordania dal 1967 sotto occupazione israeliana e di come sia fallito ogni tentativo di riappropriarsi del territorio anche a causa del sostegno che Israele riceve dall’America. Israele vuole la pace con la terra e non la pace in cambio della terra e quindi ogni processo di pace è destinato al fallimento. Nel 1947 la popolazione palestinese aveva il 54% della Palestina storica, mentre con gli accordi del 1967 la percentuale si ridusse al 22% ed anche questo è stato occupato. Pur essendo il più grande Governatorato, loro debbono acquistare l’acqua da Israele, che la gestisce per l’85%. La popolazione è diminuita molto, circa 1/5, in quanto tante persone si sono rifugiate in Giordania. Mentre qui lavorano oltre 6000 coloni, molta della popolazione vive in tende o rifugi temporanei, non potendo costruire fuori Gerico. Comunque si è riusciti a costruire 10 nuove scuole e 8 dispensari per la sanità pubblica. Così il 98% sa leggere  e scrivere e questo è il dato più alto di tutti i paesi arabi. Gerico, che è a 300 metri sotto il livello del mare, è anche la città più antica del mondo e qui sono forti le                                           
 radici di ebrei, musulmani e cristiani, che vivevano insieme pacificamente.
 E’ stata formulata all’ONU la richiesta di diventare Stato membro delle Nazioni Unite e al Consiglio di Sicurezza la fissazione di misure di sicurezza certe. La richiesta è: sospendere l’occupazione; accettare 2 Stati, secondo i confini del 1967. Per ora sono in attesa, anche perché ci saranno le elezioni negli USA. La loro forma di resistenza alla sottrazione continua delle terre e dell’acqua è quella di curare al meglio il territorio, cercando di rimanere attaccati alla loro terra. La soluzione che loro auspicano è la fine dell’occupazione, vivere in pace e in autonomia, non importa se con due Stati o con un unico Stato. Purtroppo sulla situazione palestinese la Comunità internazionale è ancora timida se non completamente assente. Prima di uscire visitiamo la stanza di Arafat, dove lui abitava durante i suoi soggiorni a Gerico.

Ore 10,25: si prosegue lungo la Valle del Giordano. Come il resto della Cisgiordania, la Valle rientra nel piano di appropriazione delle terre della colonizzazione israeliana. Ci colpiscono le grandi distese di palmizi, le grandi serre e coltivazioni protette, le moderne strutture per  l’allevamento del bestiame, che sono ovunque. Tutto questo fa contrasto con la natura desertica del territorio e con le misere capanne dei nomadi beduini, che ogni tanto punteggiano gli aridi terreni. Tutta la grande pianura alluvionale del Giordano, al di là del quale si stagliano le montagne della Giordania, è costellata di fattorie di coloni che, grazie all’acqua strappata al sottosuolo, riescono a rendere i suoli fertili e produttivi. Esse, insieme agli insediamenti militari, sono più di 30. Degli 85 pozzi utilizzati dai palestinesi nei primi anni ’70, oggi ne rimangono 17 e anch’essi poco ricchi di acqua. Perciò solo una piccola parte della popolazione, a differenza degli anni ’60, riesce a vivere coltivando la terra, anche perché i prodotti palestinesi non trovano più una collocazione all’estero e il trasporto interno è quasi impossibile per la condizione delle strade e il sistema dei permessi. Pertanto i produttori palestinesi dipendono quasi esclusivamente dal mercato israeliano e così molti di loro non hanno altra scelta che andare a lavorare come braccianti nelle colonie vicine, quando però riescono ad ottenere i permessi. Arriviamo in una zona dove ci sono molti nuclei abitati dai beduini, fatti di baracche di lamiera  e di argilla. Alcuni grandi pietre con scritto Danger delimitano questi ammassi di casupole. Entriamo in un ambiente molto particolare, costruito con mattoni di argilla fatti artigianalmente, ricoperto con covoni di paglia e saggina e sostenuto da tronchi d’albero, che funge da centro sociale. Dentro c’è di tutto, anche un comodo divano ricoperto di vecchi cuscini, dove ci viene offerto tè o caffè. Esso è gestito da volontari che ci raccontano la difficile lotta per la sopravvivenza in questa  zona, soprattutto per i beduini, che spesso sono emarginati anche dagli altri palestinesi. Incontriamo un giovane pastore, Mohamed, che conosce tutti gli altri pastori della zona  e per questo è stato coinvolto in un Comitato Popolare per la resistenza non violenta. Si arrangia a fare un po’ di tutto, fabbrica anche i mattoni per le case e insieme ai volontari fa quello che può per aiutare la popolazione della zona, che è stata abbandonata anche dai palestinesi stessi. Qui vi sono anche da vincere tanti pregiudizi e diffidenze verso gli stranieri, in particolare verso le donne volontarie. I controlli sono severi effettuati oltre che dai soldati, anche dai satelliti. Non c’è elettricità e l’acqua deve essere acquistata dagli israeliani. Ci viene spontaneo chiederci come facciano queste persone a resistere in condizioni al limite della resistenza umana.
Facciamo una rapida puntata a Kalia Beach sul Mar Morto, che però è irraggiungibile per noi, in quanto fitti canneti e reti con l’immancabile filo spinato impediscono il passaggio verso la riva. Al di là del mare si ergono le alture della Giordania.
Si va a Gerico e ci dividiamo in due gruppi, uno va visitare il Palazzo di Hisham, una delle più belle residenze di campagna del periodo omayyade, noi con l’altro saliamo con la moderna telecabina svizzera sul Monte della Tentazione, dove c’è il Monastero dei 40 giorni. Secondo la tradizione questo sarebbe il monte dove Gesù digiunò per 40 giorni, ripetutamente tentato dal diavolo. In epoca bizantina, numerosi eremiti cristiani si stabilirono nelle grotte vicine al Monastero, che ancora oggi sono visibili sui fianchi brulli e scoscesi della montagna. Da quassù il panorama sul Mar Morto, la Valle del Giordano e Gerico è veramente sensazionale. Si sale a piedi verso il Monastero greco ortodosso, dove alcuni pellegrini sono in attesa e il custode apre la porta per farci entrare. Dentro è presente una bella collezione di icone del diciottesimo e diciannovesimo secolo. Attualmente vi sono nel Monastero due monaci ed uno, seduto su uno scanno nell’oscurità della Cappella, si presta a parlare con noi per spiegare la vita del Monastero. Quassù, come in ogni luogo sacro, soprattutto se isolato dalla vita esterna, l’eco dei problemi dei palestinesi e in generale quelli del mondo oppresso, sembra non arrivare….  Ritornati a valle si parte per Ben Sahour dove arriviamo alle 18. Oggi è l’ultimo giorno di questo breve ma intenso viaggio un questa terra martoriata, che sicuramente lascerà un segno forte in ciascuno di noi. E’ il momento perciò di salutare il nostro prezioso amico Mike.

5 gennaio - giovedì

 Alle 5,30 abbiamo il pullman per l’aeroporto. Si parte in leggero ritardo, dopo aver
salutato Luisa che fa una levataccia per essere presente alla nostra partenza e darci un po’ preoccupata le ultime raccomandazioni. All’aeroporto di Tel Aviv, salutiamo anche il bravo Maher con un grande applauso e ci mettiamo in fila per i numerosi e rigorosi controlli. I nostri capi gruppo se la cavano bene, ma non possono evitare che molte valige siano aperte e ispezionate accuratamente, dopo che è stato trovato un libro su Hebron. Finalmente, circa due ore più tardi, dopo che i passaggi  fra i metal detectors hanno più volte messo in allarme i controllori per i metalli che rinforzano le articolazioni di Pier Luigi, siamo al Gate pronti ad imbarcarci. Alle 9,10 l’aereo decolla per ricondurre ognuno di noi al proprio vissuto, ai problemi e agli avvenimenti piccoli e grandi che contraddistinguono la nostra quotidianità.
Ma sentiamo che dentro di noi qualcosa è cambiato o meglio abbiamo acquisito, vivendolo da vicino,  la consapevolezza di un dramma che colpisce un popolo a poche ore di volo dalle nostre comodità, che ci ha chiesto con forza aiuto, ripetendo continuamente il suo motto: Resistere per esistere.

E così, concludendo questa cronaca di viaggio, ci sentiamo ora di dire che cercheremo di impegnarci, per quanto è nelle nostre possibilità e pur nei nostri limiti, affinchè le  aspettative e le speranze di Omar e dei suoi bambini e di tutti coloro che abbiamo avuto la fortuna di incontrare, comincino a vedere in fondo al tunnel un barlume di luce.
(dal diario di Fiorella - fine)

domenica 29 gennaio 2012

Sette giorni nella Palestina occupata VII




3 Gennaio 2012 - martedi  

Si parte alle 7,30 per andare ad Hebron. Lungo la strada che si snoda con continui saliscendi in un bel paesaggio collinare, molti insediamenti di coloni illegali e molte colline occupate da caravan. Ci fermiamo ad una interessante fabbrica di vetri e vasi in terracotta e assistiamo a tutti i procedimenti per la loro costruzione. Verso le 10, lasciata la strada principale, si sale per una stradella sterrata recentemente sistemata alla meglio, per la felicità del nostro bravo autista Maher, per raggiungere il villaggio di At Tuwani, nel distretto di Hebron a sud est di Yatta. Dal finestrino del pullman vediamo trotterellare verso di noi un piccolo bimbo biondo di circa 2 anni, che scende dal povero villaggio a terrazzamenti di muri a secco arroccato su per la collina  precedendo il padre, Afez, coordinatore del Comitato Popolare della zona. Scendiamo davanti ad un dignitoso edificio bianco a due piani adibito a presidio sanitario e ambulatorio medico. Qui incontriamo tre giovani ragazze italiane facenti capo all’Associazione di Operazione Colomba, che sono qui con visto turistico per aiutare gli abitanti del villaggio ma soprattutto per scortare i bambini fino alla scuola. Infatti i bambini dei vicini villaggi per raggiungere la scuola di At Tuwani devono passare vicino all’ insediamento di Ma’on e all’avanposto di Havat Ma’on, illegale anche per la legge israeliana, i cui coloni sono particolarmente violenti e spesso scendono dal villaggio per poter attaccare i bambini. Nel recente passato si sono verificati gravi episodi di violenza proprio lungo la strada che porta alla scuola. Questi operatori vivono nel villaggio ospiti di Afez per tre mesi dopodiché vengono sostituiti da altri giovani internazionali. Sono presenti anche dei giovani volontari clowns con l’obiettivo di rallegrare le giornate di questi bambini a cui l’oppressione ha negato il diritto ad una infanzia felice. Ogni giorno gli abitanti di At Tuwani debbono mettere in atto azioni di resistenza non violenta, per opporsi ai coloni che tentano con ogni mezzo di appropriarsi della terra e di distruggere le case e gli uliveti del villaggio. Mentre Afez parla, il piccolo biondo si aggrappa alle sue gambe, come a chiedere protezione e affetto. Ci incamminiamo su per una strada rocciosa e sconnessa in direzione dell’insediamento in cima alla collina. Questa è la strada che i bambini devono fare per andare a scuola. Ci fermiamo vicino ad un posto di controllo al di là del quale non è più possibile andare. Davanti a noi si stendono campi ben tenuti coperti di serre e con colture protette da pacciamatura, tutti rigorosamente circondati da filo spinato. In alto, sopra i campi, un bel boschetto di alberi sempreverdi e nella valletta sotto l’insediamento un moderno impianto di piante da frutto. Naturalmente per realizzare questi impianti agricoli i coloni si sono impadroniti dell’acqua della falda freatica, giungendo ad attingere anche a quella artesiana e sottraendola di conseguenza ai campi dei contadini palestinesi, che diventano sempre più aridi.
 Nel frattempo è arrivato anche il sindaco di Yatta, un grosso paese vicino, 8 km a sud di Hebron, che è voluto venire  a darci il suo benvenuto in Palestina. Dopo un giro per la polverosa strada del villaggio, in mezzo a tanti bambini che giocano con niente, si parte per raggiungere verso le 13 Hebron. Si percorre una affollata strada piena di botteghe e di bancarelle che vendono di tutto, per raggiungere il Centro dei Comitati Popolari, dove ci viene servito un pranzo precotto. Dopo, il giovane responsabile del Centro ci spiega la situazione della città, che è a 35 km da Gerusalemme ed è stata occupata fin dal 1967. Vi sono 5 insediamenti che hanno diviso in due l’area urbana: la zona H1, sotto controllo palestinese e la zona H2, sotto controllo israeliano. Dopo la spiegazione l’operatore del Centro ci guida per la città per farci toccare con mano la situazione prima descritta. La strada che attraversa la città è proibita ai Palestinesi e i vari accessi sono bloccati dai soldati con tanto di mitra in mano. Ancora una volta prendiamo contatto con una allucinante realtà. I palestinesi che hanno l’ingresso della propria abitazione nella zona proibita hanno messo delle scale appoggiate alla casa dal lato a loro accessibile per entrare in casa attraverso i tetti. Vediamo le strade laterali che sboccano nella via principale, che dopo la prima Intifada erano state chiuse con bidoni, ora sbarrate con blocchi di cemento, con alti muri o con sbarramenti e cancelli di ferro. Solo in città vi sono 101 chiusure e 511 negozi hanno dovuto chiudere per decreto militare. Anche gli studenti piccoli e grandi vengono controllati ogni giorno prima di recarsi a scuola e le loro cartelle perquisite ai passaggi obbligati. Molto spesso si arriva anche all’attacco fisico alle persone. Percorriamo strade della città vecchia protette, come a Gerusalemme, da reti o teloni per impedire a ogni genere di rifiuti di cadere per terra e di contro le case israeliane situate ai piani alti sono protette da reti e fili spinati.
 Il responsabile del Centro ci dice che in pratica 220.000 Palestinesi vivono sotto occupazione di 400 coloni, aiutati da 1.500 soldati. Una delle forme di resistenza non violenta consiste nel ristrutturare nei limiti delle loro possibilità economiche e materiali le vecchie case della città che ha 5.500 anni. Tale ristrutturazione ha lo scopo di dimostrare che la città non vuole morire, ma anzi viene portata a nuova vita, a dimostrazione della volontà del popolo di non cedere e di non fuggire. Solo con le loro forze e con l’aiuto degli asini, sono riusciti a ristrutturare un numero di antiche case tali da consentire a 5.500 persone di tornare ad abitare il Centro Storico.
 Si arriva davanti ad un reticolato con cancello che divide la zona H1 dall’H2. Ci dividiamo in due gruppi, uno va con l’operatore del Centro a visitare la Moschea di Abramo (essa nel febbraio 1994 durante il Ramadan, fu teatro di un massacro ad opera di un colono, Goldstein, che aprì il fuoco sui fedeli prostrati in preghiera facendo 29 morti e 200 feriti), l’altro con Mike entra nella zona israeliana inaccessibile ai palestinesi, superando il posto di blocco con soldati armati. Noi seguiamo Mike, che con il suo aspetto occidentale si mimetizza molto bene con il nostro gruppo di stranieri in terra israeliana.
 L’impatto è traumatico. L’animazione e la vita che caratterizzano Hebron nella zona palestinese, lasciano il posto ad una grande strada deserta, che sale verso le grandi case degli ebrei sulla collina. Incrociamo un gruppo di israeliani che sono venuti con una guida a visitare l’insediamento, mentre una pattuglia di soldati in tenuta da footing corre in mezzo alla strada deserta. Ci colpisce l’ultimo della fila, che corre con un mitra a tracolla a proteggere il gruppo. Solo una grossa jeep blindata ed armata percorre la strada. Dalle finestre di qualche casa palestinese che ha l’ingresso dall’altra parte fanno capolino timidi volti di bambini. Sul muro che delimita la strada, sorvegliata da soldati chiusi nelle torrette, vi sono cartelli corredati di murales inneggianti alla riconquista di Hebron, capitale della Giudea, città di Patriarchi e Matriarche, sito del Regno di David, e al loro diritto di ritornare negli edifici costruiti nel 1807 dal popolo ebraico, cacciato nel i929 dagli arabi che uccisero 67 ebrei. Si esce da un’altra parte, tornando finalmente alla vita. L’uscita avviene passando attraverso una casa mobile messa di traverso alla strada, pattugliata dall’immancabile soldato con mitra, al di là della quale sono distesi metri di rotoli di filo spinato. Su due pilastrini di cemento della strada in zona palestinese è scritto: Welcome to Apartheid Street. (dal diario di Fiorella)

sabato 28 gennaio 2012

Sette giorni nella Palestina occupata VI



2 Gennaio 2012 – lunedì

 Stamani ci ritroviamo più tardi ed alle 10 si va a visitare il Centro antiviolenza Mehawar, aperto nel 2000 con l’aiuto anche della Cooperazione italiana,  per aiutare le donne che hanno subìto violenza. Da una delle responsabili del Centro ci viene spiegato che le donne che non si attengono alla legge islamica e scappano di casa hanno solo due alternative: il carcere o la strada, dove spesso sono soggette a violenza. Adesso sono ospitate 16 donne con i loro figli e l’obiettivo del Centro è di tutelarle sia fisicamente che psicologicamente, e di rafforzarle attraverso vari strumenti perché possano affrontare autonomamente la loro vita successiva. Rivestono molta importanza gli incontri di gruppo dove  comunicano fra loro e vengono sollecitate a parlare per la prima volta di se stesse. La maggior parte di esse ha più di 18 anni ma il Centro ospita in casi speciali anche minorenni con bambini. Le operatrici lavorano molto sulla parte psicologica per far recuperare l’autostima in questa società palestinese dove le donne sono soggette ad una tradizione millenaria che le considera non in parità con l’uomo neanche nella gestione dei figli. Non c’è una legge palestinese sul divorzio e la custodia dei figli spetterebbe alla madre finchè essi non raggiungono i 12 anni, ma secondo la tradizione i figli appartengono alla famiglia del padre e se la donna non è autonoma economicamente, si procede secondo la tradizione. Per questo il Centro che le accoglie per 6 mesi/1 anno, le aiuta nell’inserimento lavorativo e nel trovare un’abitazione dove si continua a seguirle. In 3 anni sono state ospitate nel Centro 220 donne. L’amministrazione adesso si avvale di un fondo dell’ONU e dell’autorità palestinese. Il Centro ha rapporti anche con l’Università per un’azione educativa anche sugli uomini, ma la strada per il superamento delle differenze e per il rispetto della donna è lunga e difficile, non esistendo alcuna forma di educazione sessuale fin dalle scuola primarie, malgrado le direttive della attuale Ministra dell’educazione. Nel sistema scolastico pubblico e nelle scuole islamiche i ragazzi sono separati dalle ragazze mentre nelle scuole private vi sono molti esempi di classi miste.
Verso le 12,30 siamo al villaggio di al- Wallaja (?). Qui ci aspetta Omar con i suoi due figli, che ci conduce subito a vedere la sua casa e a mostrarci quello che accadrà dopo che gli israeliani avranno costruito il muro a pochi metri dalla sua abitazione. La zona è ormai un cantiere e già si vedono in terra le fondamenta del muro. Quando esso sarà finito, la casa di Omar resterà isolata al di là del muro, separata di fatto dalla strada che conduce al vicino villaggio e circondata da recinzione elettrica. Ma lui potrà comunque raggiungerla perché è in costruzione un tunnel scavato sotto il muro che consentirà il passaggio, naturalmente solo in certe ore e solo alla famiglia. Ci spiega che non è stato loro possibile demolirla in quanto la casa è stata regolarmente acquistata con atto registrato legale. Questo muro metterà a dura prova la resistenza dei contadini residenti del villaggio, perché delle 27.000 dune (1 duna = circa 4 ha) attuali, rimarranno solo 2.200 dune, in pratica solo il terreno su cui sono costruite la abitazioni. In particolare a Omar rimangono solo 36 dune di tutto l’oliveto piantato su un terreno che corre tutto intorno alla collina su cui sorge la sua casa. Anche qui Omar e il suo bambino più grande ci ringraziano con molto calore, fiduciosi che potremo fare qualcosa per loro. Ed ancora una volta ci sentiamo addosso tutta la responsabilità che tali aspettative suscitano in noi, insieme a un fastidioso senso di inadeguatezza di fronte a simili grandi problemi.
Salutati i nostri amici, si prosegue per Betlemme, dove andiamo subito a mangiare in una delle tante botteghine situate sulla strada principale. Anche qui si mangia bene e il padrone ci accoglie con grande gentilezza e affabilità. Betlemme è una città piena di pellegrini di ogni razza e colore. Anche la grande Basilica della Natività è affollata di gente e c’è una coda lunghissima per entrare dove la tradizione vuole sia stata la grotta della nascita di Gesù. Così preferiamo scendere nella suggestiva cripta dove Giuseppe avrebbe avuto dall’angelo l’annuncio dell’editto di Erode. Poi comincia a piovere e il giro intorno all’orribile muro che divide in due la città è ancora più angosciante. Solo i colorati murales che esprimono speranze, desiderio di libertà, voglia di riscatto della gente palestinese riescono a rendere meno triste il nostro pellegrinaggio nel dolore di un popolo.
Dopo cena in albergo abbiamo l’incontro con Mahmoud Zawhare, responsabile del Comitato popolare di resistenza non violenta, che è appena arrivato da Madrid. Con lui un giovane volontario italiano. L’incontro è interessante e coinvolgente e Mahmoud mette molta foga e passione nell’illustrare la situazione del suo paese e i programmi del Comitato Popolare. (Tornati in Italia sapremo da Luisa del suo arresto).
(dal diario di Fiorella - continua)

Visions of divisions from the Holy Land I

(Mirco, hands in pocket, as translator in Naplus)

Le 28 janv. 2012 à 02:22, Mirco Tomasi <mirco.tomasi@gmail.com> a écrit :
As promised to some, feared by most and imposed onto unaware others, here's some stories from the borders of humanity.
Below there's a sort of necessary disclaimer, the real stories are in the doc attached.
I have divided the memoirs of my last trip to Israel and Palestine into short stories for my beloved reader's comfort: you can pick one every night before going to bed.
I hope you do not enjoy reading but instead feel pain and anguish so that maybe you'll decide to start moving your lazy ass and do something, whatever that may be. (And yes, I do joke about religions a lot. I am almost sure God doesn't mind much and will laugh along). (And also, we could not enter Gaza, so no reports on that. But that's easy: it is a prison for 1.5 million people, the biggest jail in the Universe)
bisous Mirco
p.s. harsh comments, outright offences, signs of affection, lamentations of any nature, all are welcome.

Visions of divisions from the Holy Land

I recently went to the Holy Wally Land, a place full of divinities and walls but with very little humanity. I came back and I am really pissed.
I am pissed mainly with God who seems absolutely incapable of keeping its ranks in order. And you would not expect that from someone who is almighty. Jews killing muslims, muslims killing jews, christians killing and being killed, randomly. While everyone unanimously hate the orthodox greeks. And apparently this has been going on for centuries.
The funny thing is that they all claim they are acting on behalf of the same unreachable Dude in the sky. God should make a decision once and for all. Which one is the real chosen people? Please tell us clearly so that we can mercilessly exterminate all the others. It would save us time and resources.
But I am also very very pissed with the Israeli government. Now, when you raise any criticism against the Israeli government you always have to excuse yourself first. And that's because otherwise they call you anti-semite, they compare you with the nazis and they say you are a terrorists-lover.
So hear me out now as I am not going to repeat this over and over again, alright? I do not give a celestial damn about what invisible superpower you wish to adore or what silly dietary instructions you follow, you are free to do as you prefer and I will love you all the same.
However, according to me, if you violate human rights, oppress and brutalize your neighbor, you do all this in your own capacity and not on behalf of some supreme being. And you belong to a very specific, cross-religion, cross-race and cross-culture group of people: the bastards. Then, if you still think that I am anti-semite you are also a stupid ignorant fatass: Palestinians are semite too.
As for the terrorists-lover assumption, it is easy to disregard this as non-sense: no killing of civilians is ever justified. Problem is, in the nowadays asymmetric warfare is often difficult to tell where the line is between terrorists and non-terrorists. Unless you want to weigh human lives differently like George W. Bush used to do. But he was an idiot. Let us conclude that violence, regardless of how you define it, won't take us anywhere. Full stop.
The Israeli government and the Israeli army should stop hiding behind the jewish façade for two reasons: first because no religion ever prescribed the scientific destruction of the Palestinian people that the Israeli government is carrying out. Every time the Israeli government claim their jewish nature as the driving force behind their actions they are literally pissing on the millennia of history of the jewish people, on their outstanding passion for culture and education, on their extraordinary resilience against any sort of oppression, on the priceless contribution that the jewish people provided to humanity. They are pissing on Woody Allen, Lev Trotzkj and Jon Stewart, ok? And I don't like that.
Second, because if one day it turns out that there actually is a God, for the Israeli government it will mean a whole lot of troubles.
Right, enough with the excuses.
Ah and let me dispel one last misconception: Israel says some Palestinians parties, like Hamas, do not recognize the State of Israel, hence they are not reliable peace partners. Cool. But does Israel recognize Palestine? Do you want to try something funny: go to the Ben Gurion Airport and when they question you at the passport check utter these innocent words: "Hello folks, how you doing? I am here to visit Palestine". Then you'll see how much more respectfully Israel recognizes Palestine.
Blog di Mirco
Traduzione meccanica:
Come promesso ad alcuni, temuto da molti e imposto sugli altri ignari, ecco alcune storie dai confini dell'umanità. ho diviso le memorie del mio ultimo viaggio in Israele e Palestina in racconti per consolate il mio lettore amato: si può scegliere una ogni notte prima di andare a letto. Spero che non piace leggere ma provare dolore e angoscia in modo che magari si decide di iniziare a muoversi il culo pigro e fare qualcosa, qualunque esso sia. (E sì, faccio scherzare su religioni molto. Io sono Dio quasi sicuro non importa molto e ridere insieme). (E anche, non siamo riusciti a entrare a Gaza, in modo che nessun report su tale Ma questa è facile:. È una prigione per 1,5 milioni di persone, la più grande prigione nell'Universo)
 bisous Mirco
ps commenti duri, offese smodate, segni di affetto, lamenti di qualsiasi natura, tutti sono i benvenuti.
 Visioni di divisioni dalla Terra Santa, 
Sono recentemente andato nel territorio di Terra Santa, un luogo pieno di divinità e di muri ma con pochissiml'umanità. Sono tornato e sono davvero incazzato. Sono incazzato principalmente con Dio che sembra assolutamente incapace di mantenere i suoi ranghi in ordine. E non ci si aspetta che da qualcuno che è onnipotente. Uccidere gli ebrei musulmani, ebrei musulmani uccidere, uccidere i cristiani e di essere ucciso, in modo casuale. Mentre tutti unanimemente odiare i greci ortodossi. E a quanto pare questa è andata avanti per secoli. La cosa divertente è che tutti affermano di agire per conto del tizio stesso irraggiungibile nel cielo. Dio dovrebbe prendere una decisione una volta per tutte. Quale è la gente vera scelta? Si prega di dirci in modo chiaro in modo da poter sterminare senza pietà tutti gli altri. Ci avrebbe risparmiare tempo e risorse. Ma sono anche molto molto arrabbiata con il governo israeliano. Ora, quando si solleva alcuna critica contro il governo israeliano si ha sempre di giustificarti per primo. E questo perché altrimenti ti chiamano antisemita, che si confronta con i nazisti e dicono che sei un amante dei terroristi. Così mi sento adesso come io non ho intenzione di ripetere questo più e più volte, va bene? Io non me ne frega niente di quello celeste invisibile superpotenza che si desidera da adorare o da quello sciocco istruzioni dieta si segue, sei libero di fare come si preferisce e ti amerò lo stesso. Tuttavia, secondo me, in caso di violazione umano diritti, opprimono e brutalizzare il tuo prossimo, è fare tutto questo nella vostra capacità e non per conto di un essere supremo. E tu appartieni ad una molto specifica, cross-religione, cross-corsa e cross-culture gruppo di persone: i bastardi. Poi, se si pensa ancora che io sono antisemita sei anche un fatass stupido ignorante: i palestinesi sono semiti anche. Per quanto riguarda i terroristi-amante presupposto, è facile ignorare questo come non-senso: nessuna uccisione di civili è sempre giustificato. Il problema è che, nella guerra asimmetrica al giorno d'oggi è spesso difficile dire dove la linea è tra i terroristi e non terroristi. A meno che non si vuole pesare le vite umane in modo diverso come George W. Bush ha usato di fare. Ma lui era un idiota. Concludiamo che la violenza, indipendentemente da come si definisce, non ci porterà da nessuna parte. Punto e basta. Il governo israeliano e l'esercito israeliano deve smetterla di nascondersi dietro la facciata ebrei per due ragioni: primo perché nessuna religione mai prescritto la distruzione scientifica del popolo palestinese che il governo israeliano sta portando avanti. Ogni volta che il governo israeliano rivendicare la loro natura ebraica come la forza trainante dietro le loro azioni sono letteralmente piscia sul millenni di storia del popolo ebraico, sulla loro straordinaria passione per la cultura e l'istruzione, sulla loro capacità di recupero straordinaria contro ogni tipo di oppressione, di il contributo prezioso che il popolo ebraico fornito all'umanità. Sono pissing su Woody Allen, Lev Trotzkj e Jon Stewart, ok? E non mi piace. In secondo luogo, perché se un giorno si scopre che vi è in realtà un Dio, per il governo israeliano vorrà dire un sacco di guai. Destra, basta con le scuse. Ah e fammi sfatare uno equivoco scorso: Israele dice che alcuni partiti palestinesi, come Hamas, non riconoscono lo Stato di Israele, quindi non sono partner affidabili pace. Fresco. Ma Israele riconosce la Palestina? Volete provare qualcosa di divertente: andare al Ben Gurion Airport e quando si domanda al controllo passaporti pronunciare queste innocenti parole: "Ciao ragazzi, come va io sono qui per visitare la Palestina?". Poi vedrete quanto più rispettoso Israele riconosce la Palestina.

venerdì 27 gennaio 2012

Viaggio consigliato


Ciao, come vedete ci risiamo, si riparte.Vi chiedo il massimo impegno per diffondere l'informazione e fare lavoro da "certosino" per trovare nuovi "viaggiatori". Ricordate cosa ci dicevano quasi ad ogni incontro? "Siate i nostri messaggeri, raccontate ciò che avete visto, aiutateci ad avere giustizia".
Vi abbraccio.
Luisa Morgantini
 Associazione per la pace

CONOSCERE NELLA SOLIDARIETA’
vieni anche tu in
PALESTINA E ISRAELE

dal 7 al 15 aprile 2012 

accompagnati da Luisa Morgantini
già Vice Presidente Parlamento Europeo


  
                                   E’ dal 1988 che l’Associazione per la Pace organizza viaggi di conoscenza e solidarietà in Palestina e Israele, un “andare e tornare” per contribuire a tenere aperta la strada
                                   per la libertà e l’indipendenza del popolo palestinese, per una pacifica coesistenza tra i due popoli.
                                   
                                  Anche questa volta il viaggio vuole dare voce all’altro volto della regione, alla forza e all’instancabilità di uomini e donne palestinesi, israeliani e internazionali, che resistono
                                  pacificamente e quotidianamente all’occupazione, rispondendo alla forza militare con la nonviolenza e battendosi per la fine dell’occupazione ed una pace equa e giusta.
                          
                                  Durante il nostro soggiorno, viaggeremo attraverso i Territori Palestinesi Occupati e Israele, per villaggi, città, campi profughi. Jaffa, Tel Aviv, Haifa, Ramallah, Hebron,Jenin,
                                  Nazareth,  Betlemme, Nablus, Gerico e la Valle del Giordano, i villaggi di Bili’in, Nili’in, At Tuwani, Gerusalemme: luoghi pieni di fascino e storia, ma anche pervasi
                                  dal dolore e dall’ingiustizia della illegalità dell’occupazione militare israeliana.
  
                                  Al ritorno racconteremo ciò di cui saremo stati testimoni ed agiremo per riaffermare il diritto dei palestinesi e di tutte e tutti alla libertà, alla dignità e all’autodeterminazione.
  
                                  Il costo complessivo del nostro viaggio sarà di 1.200 euro, incluso il biglietto aereo a/r, la camera d’albergo (doppia o supplemento per singola), colazione e
                                  cena,  oltre a  guide e trasporti sul posto.
                                
                                  Le partenze e i ritorni sono da Roma Fiumicino con volo Alitalia con possibilità di connessione da altri aeroporti nazionali.  



ISCRIVETEVI SUBITO !
Per info e prenotazioni:
tel. 348 3921465 – 333 7630116- 06 86895520



l’industria dell’olocausto


l’industria dell’olocausto
Norman G. Finkelstein L’industria dell’olocausto Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei BUR 2004 ! 8,50
L’olocausto ha dimostrato di essere un'arma ideologica indispensabile grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di «vittima», e lo stesso ha fatto il gruppo etnico di maggior successo negli Stati Uniti. Da questo specioso status di vittima derivano dividendi considerevoli, in particolare l'immunità alle critiche, per quanto fondate esse siano.
http://www.vho.org/aaargh/fran/livres3/NFOlocausto.pdf

Nabi Salih (West Bank, Palestina) - 13 maggio 2011: video

Palestina, 30 dicembre 2011: video di Barbabianca

giovedì 26 gennaio 2012

Sette giorni nella Palestina occupata V

Quarta giornata

1 gennaio 2012 – domenica
La spianata delle Moschee
Facciamo una levataccia perché dobbiamo preparare i bagagli per il trasferimento a Beit Sahour e vogliamo andare a visitare la spianata delle Moschee (visita facoltativa) prima di ripartire in pullman alle ore 10 per Tel Aviv.  Mike ci aspetta alle 7,10, orario che ci dovrebbe evitare l’eccessivo affollamento. Ci arriviamo a piedi passando  dalla Porta di Damasco e attraversando la piazza in fondo alla quale è il Muro del Pianto. Per entrare si devono passare diversi controlli di sicurezza e prendere la rampa che sale al Bab al Maghribi. Vi sono già molte persone e molti gruppi di pellegrini anche italiani in attesa ai posti di controllo. Il sito è stupendo ed emana una profonda atmosfera di pace e serenità. Sembra inverosimile che questo mistico luogo si trovi al centro di uno dei teatri di oppressione più crudeli del mondo. La Spianata, detta anche il Monte del Tempio o Haram Al-Sharif (Nobile Santuario), è proprio nel centro storico di Gerusalemme e per la sua importanza  per l’ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam è uno dei siti religiosi più contesi al mondo.
 Il Monte del Tempio è sacro agli ebrei perché fu sede del tempio di Jahveh. Di esso, dopo la distruzione operata dai romani, rimangono solo  alcuni tratti del muro occidentale, detto il Muro del Pianto. Per questo gli ebrei usano recarsi in preghiera alla base di quel muro, all’esterno della Spianata. Per i musulmani invece il Monte del Tempio è sacro perché secondo la tradizione il Profeta Maometto venne assunto in cielo dalla roccia situata in cima al monte, oggi all’interno della Cupola della Roccia, che da essa prende il nome. Il luogo è sacro per i  cristiani perché essi ricordano le numerose visite che Gesù ha fatto al Tempio, dove avvennero le dispute con i sacerdoti ed i potenti del tempo e molti episodi della sua vita pubblica. Però il principale luogo di culto cristiano di Gerusalemme è la Basilica del Santo Sepolcro, considerata il luogo della sua sepoltura e resurrezione.
Fu Erode il Grande che verso il 20 a.c. fece iniziare i lavori di ampliamento che durarono diversi decenni e che dettero al luogo l’aspetto odierno. La sua forma è approssimativamente rettangolare, con dimensioni di circa metri 500 x 300, con i lati più lunghi direzione N-S. Essa è sopraelevata di alcune decine di metri rispetto all’area circostante e sostenuta da poderose mura di contenimento. Le porte di ingresso sono sul lato ovest; quella che originariamente era sul lato est, che guarda il Monte degli Ulivi e dalla quale si presume sia entrato Gesù quando fece il suo ingresso trionfale a Gerusalemme pochi giorni prima di morire, fu murata alcuni secoli fa. Al centro della Spianata, in corrispondenza dell’antico Tempio e della cima del Monte, sorge ora la Moschea di ‘Omar, detta anche Cupola della Roccia, caratterizzata da una grande cupola dorata. Lungo il lato sud della Spianata sorge invece la Moschea di al-Aqsa, che ospitava la sede dei Cavalieri Templari all’epoca delle Crociate.
Dopo la proclamazione dello Stato di Israele nel 1948 e la guerra che ne seguì, il Monte del Tempio rimase nella parte araba di Gerusalemme (Gerusalemme Est). Con la guerra dei sei giorni del 1967, fu invece occupato dagli israeliani, insieme a tutta la città e tale è rimasto fino ad oggi. 
Abbiamo ancora il tempo per una rapida visita alla Basilica del Santo Sepolcro, costruita sul luogo che la tradizione indica come quello della crocifissione, unzione, sepoltura e resurrezione di Gesù. Essa si trova al termine della Via Dolorosa, la Via Crucis e ingloba sia quella che è ritenuta la “collina del Golgota”, luogo della crocifissione, sia il sepolcro scavato nella roccia, dove il Nuovo Testamento riferisce che Gesù fu sepolto. Di questo luogo si possiedono prove archeologiche certe che risalgono ad un centinaio d’anni dopo la morte di Gesù. Oggi è la sede del Patriarcato ortodosso di Gerusalemme, il quale ha la propria Cattedrale proprio al centro della Chiesa. Per essere sinceri, tutte queste immagini e manifestazioni di “sacro”, distanti dai problemi reali del popolo, di queste religioni monoteistiche ci lasciano molto perplessi e indifferenti. Come sono stati inascoltati i messaggi di questo uomo Gesù vissuto in questa terra, dove il conflitto e l’oppressione sono giornalieri e dove solo uomini di buona volontà con l’impegno e con la lotta mantengono viva  la speranza per un mondo finalmente migliore….
Si lascia Gerusalemme per trasferirci a Betlemme, dove dormiremo stasera all’hotel Sahara di Beit Sahour, alla periferia della città. La puntata a Tel Aviv è stata organizzata per farci incontrare con un’associazione di medici israeliani, la PHR (Physicians for Human Rights). (***)

 Si fa un giro per la città vecchia di Jaffa, ammirando dall’alto dei giardini la vista di Tel Aviv con la sua lunga spiaggia battuta da un mare agitato. Poi a cena in un grande locale con piatti a base di pesce.

***Nota di Urbi
 L'anziana signora della foto accanto, iraeliana e medico responsabile del Centro, ci racconta, tra l'altro, della ragazza di Gaza alla quale venne negata la possibilità di fare la cura di chemioterapia per un tumore al seno in un ospedale fuori della Striscia. Avrebbe potuto passare il Chekpoint ad un'unica condizione: diventare "collaboratrice", a servizio del Mossad. Era una bellissima ragazza. E le tante giovani mamme con gravidanza a rischio bloccate ai Chekpoint a partorire bambini morti.

mercoledì 25 gennaio 2012

Sette giorni nella Palestina occupata - IV

Terza giornata - 31 dicembre – sabato
Da Gerusalemme a Ramallah
Alle 8 si esce dall’hotel per andare ad ammirare il panorama di Gerusalemme dal Monte degli Ulivi. Sotto di noi l’immenso cimitero e più lontano la grande città con le sue mura, le sue antiche costruzioni, le  chiese e le moschee. Una veduta impareggiabile, pur se offuscata da una leggera foschia. Alle 8,30 si parte verso Ramallah.
Nabi Samuel (tomba di Samuele)

Dopo pochi km si prende una piccola strada che porta ad un povero villaggio con poche case, dove è la tomba di Samuele e dove incontreremo un sindacalista amico di Mike, che viene a parlarci uscendo in ciabatte dalla sua modesta abitazione (nella foto col n.9).
 Tutto intorno la confusione tipica di questi villaggi, con pecore in un recinto, polli in un rudimentale pollaio e tanti gatti. La scuola è un cubo circondato da una rete metallica. Dopo aver acquistato qualche ricamo dalla moglie, si riparte per Bil-in. Lungo il percorso, si vedono strade provenienti da villaggi palestinesi chiuse da blocchi di cemento per impedire l’accesso alla strada principale che va a Gerusalemme e diversi checkpoints.
Bil-in è il villaggio che dal 2005 ogni venerdì di ogni settimana per 6 anni ha organizzato manifestazioni di protesta contro la costruzione del muro accanto al paese per proteggere il grande insediamento di Modi’in Illit, costruito sulla collina prospiciente il villaggio. L’esercito interveniva con idranti e sparo di lacrimogeni, ma la popolazione non si è arresa e alla fine ha ottenuto che la costruzione del muro fosse spostata più lontana dalle case del villaggio e dai suoi campi. Tutto questo ci viene raccontato con dovizia di particolari da alcuni rappresentanti del Comitato Popolare per la resistenza non violenta, che ci portano subito a rendere omaggio alla tomba di Bassem, ucciso nell’aprile 2009, durante una delle usuali manifestazioni, da un lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo. Dopo di lui è morta anche la sorella, asfissiata dai gas  lacrimogeni.
 Con noi c’è anche Rajia (al centro della foto), la ragazza che vuole studiare per realizzare il suo sogno di diventare pediatra e che l’Associazione per la Pace ha deciso di aiutare per realizzarlo.
 Ci incamminiamo lungo una stradella che conduce verso il muro, al di là del quale sorge il grande insediamento. Alla nostra sinistra, in fondo al pendio, il muro prosegue aggirando la collina e separando il territorio di Bil-in dalla grande strada. In terra i resti dei lacrimogeni e le tracce di violenti scontri.  Il racconto pieno di foga e di passione di un giovane palestinese ci fa capire dell’importanza vitale che questa lotta riveste per queste popolazioni, che non vogliono arrendersi di fronte alla forza e alla prepotenza. E ancora una volta non riusciamo a comprendere come uomini che perseguono un cammino di fede e che hanno subìto angherie e persecuzioni possano riproporre azioni e metodi che loro stessi hanno sopportato, invece di cercare di intraprendere un cammino di pace, come è nelle finalità di qualsiasi credo religioso. Alla sede del Comitato ci sediamo nel piccolo giardino, dove ci viene servito l’immancabile tè e dove posiamo per le foto ricordo.
Ramallah è una città della zona A dove gli israeliani non entrano. Il suo centro è vivace e colorato, pieno di traffico e le zone libere da edifici sono disseminate di rifiuti. Ci infiliamo a mangiare in un tipico locale, dove dei bambini si occupano di apparecchiare e sparecchiare i tavoli. Si mangia bene e dopo pranzo entriamo in un caffè dove molti clienti stanno fumando il narghilè. Anche qui Luisa viene riconosciuta da un barbuto cliente che fa a tutti noi molte feste.
Alle 15 siamo nel Medical Center, dove un medico, Mohamed Skafi (foto sotto, a dx di Luisa Morgantini),  fa gli onori di casa, perché Barghouthi è impegnato in una riunione dell’OLP.
 E’ lui a spiegarci che il Centro è una organizzazione non governativa costituita nel 1979. Essa conta migliaia di volontari e 400 impiegati che lavorano in Cisgiordania e Gaza con strutture fisse e mobili ed è divenuta una delle più grandi ONG della Palestina. Le popolazioni della zona C e Gaza sono curate da questa ONG, mentre quelle della zona A e B dipendono dal Ministero della Salute.
L’Organizzazione si occupa della formazione di squadre di primo soccorso che lui dirige da 17 anni. Essa gestisce anche 9 ospedali mobili, di cui 2 a Gaza. L’Organizzazione predispone anche programmi didattici per la popolazione, che ha molti problemi a causa dell’inquinamento dell’acqua potabile. Molte donne partorienti muoiono di setticemia perchè bloccate ai checkpoints, per cui verso la fine della gravidanza si cerca di ospitarle in strutture il più possibile vicine agli ospedali. L’organizzazione si preoccupa anche di preparare 20 donne ogni due anni perché possano poi lavorare nelle proprie comunità, facendo servizio di giorno con la mezza luna rossa palestinese e di notte nei loro villaggi. Ci fa notare che in questa ONG il 60% degli addetti è costituito da donne. Verso la fine dell’incontro arriva Mustafa Barghouthi (foto sopra a sx di Luisa),  a suo tempo membro del Partito Comunista Palestinese, fondatore del Centro e mediatore del Governo di unità nazionale. E’ molto soddisfatto per il buon esito dell’incontro con l’OLP e ci ringrazia per la nostra presenza in Palestina.
Alle ore 17 ci spostiamo nella sede del Governo, dove incontriamo Salam Fayyad (foto sotto), primo ministro del Governo di emergenza istituito a Ramallah a luglio del 2007 da Mahmoud Abbas, dopo che Hamas aveva preso il controllo di Gaza e in seguito allo scioglimento del Governo di unità nazionale.

Ci saluta riconoscente per la solidarietà con la causa palestinese che dimostriamo con la nostra presenza e che è di grande aiuto per il movimento palestinese. Lui è uno dei fautori della resistenza non violenta, che cerca di testimoniare in ogni occasione negli incontri internazionali. Cita il Presidente della Repubblica Ceca scomparso pochi giorni fa, che è stato un alfiere importante della non violenza e ringrazia Luisa, che in Palestina è conosciuta come una delle 5 personalità internazionali che opera per la resistenza non violenta. Con pacatezza ma altrettanta fermezza si dice convinto che questa forma di resistenza rappresenta l’unica arma vincente contro l’oppressione israeliana. Cita gli atti terroristici giornalieri da parte degli israeliani e gli atti vandalici dei coloni e ci dice che per loro è importante e li fa sentire più forti avvertire questa vicinanza esterna alla loro causa. Il popolo palestinese è perseverante, ma se non si opera per i servizi essenziali anche questa perseveranza verrà erosa. Così dal 2009 il governo ha individuato insieme alla popolazione le priorità da conseguire: scuole, acqua, sanità, infrastrutture. Adesso nessuno potrà più dire che i palestinesi non si meritano un proprio Stato perché hanno scelto il terrorismo per far valere i propri diritti. Nel frattempo però si continua a morire e solo recentemente , il 10 dicembre di quest’ anno, un altro ragazzo è stato ucciso da un gas lacrimogeno. Come definire questi episodi ricorrenti? Il popolo vuole solo che l’occupazione finisca. Però si dice anche convinto che, se la comunità internazionale non prenderà una posizione finalmente chiara e ferma sulla situazione palestinese, sarà difficile arrivare a una soluzione positiva per questa terra. Rispondendo ad una precisa domanda, auspica anche una riconciliazione fra le varie anime e forze palestinesi, Hamas e Fatah in primis, per il perseguimento del comune obiettivo finale, la fine dell’occupazione. La divisione fa comodo ad Israele e senza il superamento delle divisioni ogni sforzo è destinato al fallimento.
 Verso le 18, ormai a buio il pullman ci ha lasciato vicino alla tomba di Arafat. Oggi è la ricorrenza della nascita di Fatah: così ci siamo ritrovati in mezzo ad una grande folla di persone, giovani inquadrati che cantavano e saltavano sventolando bandiere, bambini vestiti di giallo come il colore di Fatah, militari schierati davanti all’ingresso e tanta folla festante in fila per entrare nel salone dove è la tomba del vecchio leader. Poi è arrivato Abu Mazen con alti funzionari del governo che sono entrati a rendere omaggio alla tomba e infine anche noi abbiamo potuto partecipare a questo rito collettivo. Tutto si è svolto in un misto di solennità e festosità popolare di notevole  impatto emotivo.
Alle 19,30 siamo in albergo dove incontriamo un giovane insegnante israeliano, che è stato anche ufficiale nell’esercito, che auspica una Palestina unita, senza divisioni. L’auspicio è certamente condivisibile, ma la situazione che abbiamo cominciato a conoscere più da vicino, ci ha mostrato che questo per ora resta solo un auspicio.
Alle 22 ha inizio la super cena, che cerchiamo di onorare al meglio. Si è atteso la mezzanotte sentendo musica e anche ballando e poi abbiamo brindato insieme con l’augurio  di poter vedere presto una Palestina liberata e indipendente.
(dal diario di Fiorella)

lunedì 23 gennaio 2012

Sette giorni nella Palestina occupata - III

seconda giornata, venerdi 30 dicembre,  Da Nablus a Qalqilya

Balata

Questo campo-lager di Balata ha una estensione di 1 kmq ed è il più grande campo profughi nella Cisgiordania. E’ stato costruito nel 1950 alla periferia dell’antica città Cananea di Shechem e la maggioranza dei suoi abitanti provengono da Jaffa e dalla pianura centrale della Palestina e della Galilea. All’inizio questo campo era costituito da tende, poi a partire dal 1954 l’ONU ha fatto costruire strette file di casette che sostituirono progressivamente le tende usurate. Ciascuna misurava 3 metri quadrati ed ospitava una famiglia (in media 6-7 persone). Ogni 25-30 famiglie c’erano gruppi di servizi igienici. Solo nel 1960 il campo è stato fornito di fognature e nel 1970 è stata data l’elettricità. I 5.000 abitanti iniziali sono arrivati adesso a 25.000 e per ospitarli gli edifici sono stati  rialzati  utilizzando i fondi inviati dagli emigranti alle famiglie in espansione. Il risultato è un dedalo di vicoli strettissimi fra alte costruzioni ammassate le une sulle altre, che non lasciano passare aria e luce. Come si fa a vivere così? Si capisce come qui sia iniziata l’incessante resistenza palestinese con la 1^ Intifada! In uno slargo fra i vicoli siedono delle donne su un gradino e giocano dei bambini che non conoscono altri orizzonti. Ogni famiglia ha qui un parente ucciso o ferito o rinchiuso in carcere. E’ in questo campo che nasce il Centro operativo della resistenza ed inizia anche la II^ Intifada con 230 persone uccise e 300 persone attualmente rinchiuse in carcere.
Una volta nel campo, le persone dipendono totalmente dall’ONU. L’UNRWA, che doveva  avere solo carattere temporaneo, è ancora operativa e ha la funzione di provvedere all’istruzione ed ai servizi sanitari e sociali, di assistenza alle famiglie senza reddito, ai centri per i giovani, e così via. In presenza di una grande disoccupazione, le persone hanno perso le speranze per il futuro. Specialmente la popolazione giovane è frustrata e con un senso di impotenza che aumenta sempre di più. Prima del 1948 la vita della popolazione era normale, il 65% andava a lavorare in Israele ma tutto è cambiato quando molti hanno dovuto abbandonare la loro terra, nel silenzio colpevole dell’occidente, che doveva scaricare i suoi sensi di colpa per la Shoah.  Adesso sono arrivati già alla 3^ generazione che nasce in un campo profughi, senza speranze per un futuro migliore, se la situazione rimane allo stato attuale e il mondo occidentale non si decide a muoversi.


Qalqilya


Qui abbiamo il primo, violento impatto con il muro dell’apartheid che circonda la città e con le allucinanti condizioni di vita delle persone residenti. Questa città, situata sulla Linea Verde, confine stabilito dalla Linea di armistizio del 1949, si trova a meno di 20 km dal Mar Mediterraneo, ma ai loro abitanti è vietato andarci. Nel 1967 la città rischiò di essere distrutta dai bulldozer israeliani, che furono ritirati solo grazie a pressioni diplomatiche. Oggi essa conta oltre 44.000 abitanti. Il pullman si ferma lungo una strada che termina contro il muro, a circa 100 metri di distanza. Sul lato sinistro della strada vi sono campi incolti, sul lato destro un reticolato al di là del quale si stendono piccoli campi coltivati, che finiscono contro il grande muro, che circonda completamente la città. La popolazione vive in condizioni economiche disperate, con un tasso di disoccupazione  del 60-70% e la maggior parte delle famiglie sopravvive grazie agli aiuti umanitari. Ci avviciniamo al muro tappezzato di murales colorati, che esprimono tutti il desiderio di libertà. Dalla torretta un soldato armato di mitra ci sorveglia e quando qualcuno di noi si avvicina troppo al reticolato e al cancello di passaggio, una voce amplificata ingiunge di allontanarsi dal confine.
Il checkpoint di Qalqilya

 L’indignazione e la rabbia aumenta ancora quando, ormai quasi avvolti dal buio, andiamo a vedere l’unico passaggio riservato ai palestinesi residenti che debbono andare a lavorare in Israele. Il passaggio, oggi deserto per il giorno di festa, è costituito da una serie di corridoi paralleli transennati con ringhiere d’acciaio, lungo i quali già prima delle 5 la mattina si affollano decine e decine di persone, che debbono passare al controllo armato del checkpoint. Per terra, lungo questi stretti passaggi, strati di bicchieri di carta, sacchetti e bottigliette sono a testimoniare quello che avviene ogni mattina. Alcuni di noi percorrono questi corridoi fino a una zona illuminata, quando da una torretta un’altra voce metallica ci impone di allontanarci. Risaliamo in pullman e al checkpoint ci fermano. Una telefonata dalla torretta per segnalare un bus sospetto? Chissà…. Un giovane soldato e una bionda soldatessa salgono a bordo per controllare ogni volto e ogni passaporto, mentre il giovane nato in carcere che era salito con noi a Nablus, viene fermato e interrogato per molti minuti. Lui, essendo palestinese, non sarebbe dovuto passare da questo checkpoint riservato solo agli israeliani. Riesce a cavarsela raccontando che lavora per la Comunità europea ed è in questo frangente impegnato con un gruppo di turisti Italiani in visita.
(dal diario di Fiorella e Piero)

domenica 22 gennaio 2012

Sette giorni nella Palestina occupata II


seconda giornata, venerdi 30 dicembre,  Da Gerusalemme a Nablus
Nablus

Il muro lungo la via
Dai finestrini del pullman abbiamo il primo impatto con il famigerato muro bordato di rotoli di filo spinato che si è insinuato come una metastasi verso Gerusalemme, ben al di là della linea verde, presidiato da decine di checkpoint. Attraversiamo una zona brulla, caratterizzata da alture separate da piccole valli. In cima a molte colline  si ergono le case delle colonie israeliane. Esse sono generalmente costruite in cerchi concentrici, con un misto di architettura civile e militare e hanno una duplice funzione, di aggressione e di difesa, in quanto la loro posizione garantisce il controllo territoriale e militare delle aree circostanti. La collina viene inizialmente occupata da un presidio militare, successivamente vengono portate delle case mobili, infine si dà il via alla costruzione definitiva. Tutto ciò è il risultato della sistematica confisca delle terre che ha portato all’assurda situazione odierna che vede i palestinesi israeliani, che rappresentano il 20% dell’attuale popolazione dello stato di Israele, detenere non più del 3% della terra, mentre il 93% della superficie del paese è stata dichiarata “suolo demaniale”. Decine di villaggi arabi non vengono semplicemente riconosciuti e conseguentemente privati della proprietà e dei servizi (acqua, elettricità, servizi sanitari ecc). Si sta progressivamente realizzando quel progetto politico noto come piano “Stella di Davide” il cui obiettivo è creare una maggioranza ebraica nelle regioni a prevalenza araba, spezzando nel contempo la contiguità territoriale fra le zone occupate da palestinesi. Già alla fine del 2006 erano in Cisgiordania circa 200 insediamenti con 527.000 coloni, il 43% dei quali vivevano in insediamenti intorno a Gerusalemme Est. Dopo lo scoppio dell’Intifada di al-Aqsa sono state realizzate altre 15 colonie ebraiche.  Si può ragionevolmente affermare, pur se in modo approssimativo, che dall’inizio della colonizzazione Israele abbia speso per gli insediamenti 80 bilioni di dollari, finanziati in larga misura dal governo americano.
Ogni tanto, soprattutto nelle zone pianeggianti, appaiono piccoli appezzamenti lavorati strappati alla pietrosità del suolo.
Il contadino  e il caravanserraglio

 Si lascia la strada principale per quella vecchia che si addentra in territorio palestinese. In una bella valle ci fermiamo vicino ad un vecchio caravanserraglio ormai cadente e ci avviciniamo ad un campo lavorato che ospita una bella piantagione di agrumi. Sulla collina soprastante sorge un insediamento dei coloni. Un contadino ci viene incontro e inizia a raccontare la storia delle sue giornate, le angherie che lui e la sua famiglia sono costretti a subire da parte dei coloni che spesso scendono nella valle per attaccarli. Oggi non c’è scuola e tutta la famiglia è a lavorare nel campo perché, ci spiega il contadino con i baffi, i figli si affezionino sempre di più alla terra e la sentano una cosa loro, da mantenere  e curare. Nel frattempo il ragazzo più grande sta arando una striscia di terreno con un aratro a chiodo trainato da un asinello, mentre la moglie, che ci dice di chiamarsi Tagrid, cuoce delle focacce appena impastate su una piastra di ferro scaldata su un fuoco di legna. Sorride e ci offre volentieri un assaggio. I bimbi più piccoli lasciano la zappa e offrono a tutti mandarini, limoni e spremute di agrumi. Siamo stupiti e commossi, in quel momento sentiamo di odiare quei coloni ancora di più.

 Nablus, montagna di fuoco


(gente di Nablus: foto di Alessandra)
Dopo un giro fra le rovine del bel caravanserraglio ottomano, si riparte per Nablus. Questa è una città di 134.000 abitanti e sorge in una stretta gola larga meno di 1 km fra due monti alti circa 900 metri. La città vecchia di Nablus, Shechem, si sviluppò intorno a una fonte sotto quello che oggi è il campo profughi di Balata.  Divenne famosa in tutto il mondo arabo per la produzione di sapone, tessuti di cotone e dolci. Durante la rivolta del movimento nazionale palestinese del 1936, Nablus fu la prima città a creare un Comitato Nazionale Palestinese. Per la sua posizione di avanguardia contro l’occupazione, fu soprannominata Jabal en-Nar (montagna di fuoco). Nella primavera del 1963, i movimenti di liberazione della Palestina dichiararono Nablus “repubblica di Palestina”. L’occupazione israeliana portò a molte forme di repressione e a molti attentati, fra cui uno nel 1980 al sindaco  che sopravvisse allo scoppio della sua auto, ma perse entrambe la gambe e fu arrestato. Nel 1995 Nablus divenne città autonoma, area A, ma fu completamente circondata da insediamenti  ebraici.
Arriva un uomo (anche lui, come tutti quelli che abbiamo incontrato e incontreremo in seguito, conosce bene Luisa, l’abbraccia e ringrazia per la nostra visita. Conosce bene la storia della sua città e insieme a due giovani ci guidano alla visita della città vecchia. Sulle pareti delle case appaiono i manifesti raffiguranti i caduti della prima e seconda intifada. Ci infiliamo nel labirinto di stradine e vicoli, spesso scavati sotto le abitazioni con scure gallerie. Molti sono gli edifici storici di epoca ottomana ma anche mamalucca, crociata e bizantina. Intorno ai portoni di antichi edifici ogni tanto appaiono caratteristiche decorazioni geometriche e molti sono gli scorci interessanti, anche se purtroppo negli angoli più appartati si ergono  cumuli di spazzatura di ogni tipo. Molte abitazioni sono fatiscenti e abbandonate ed anche una bella antica fabbrica di saponi mostra i segni del bombardamento subito dall’esercito israeliano nel 2002. Nablus era famosa in tutto il medio oriente per la sua fiorente industria di saponi che venivano esportati fino in Europa. Anche adesso il sapone di Nablus è ampiamente diffuso nel mondo arabo per le sue proprietà naturali, sfruttando l’olio d’oliva che qui viene soprannominato “oro verde”.  Ad un incrocio ci assale un forte odore di spezie e si invade tutti questo enorme e tortuoso magazzino per i nostri acquisti di saponette e spezie varie. Le foto sono d’obbligo.
 Si giunge alla piazza dei martiri, dove il giovane che ci ha accompagnato ci mostra la sua casa dove sono stati uccisi alcuni suoi familiari e ci racconta l’attacco dell’esercito israeliano del 2002 durante la prima Intifada.  Nablus oppose una strenua resistenza all’esercito e ai carri armati che avanzavano in città distruggendo e uccidendo, tanto da meritarsi il soprannome da parte degli israeliani di “capitale del terrorismo”. Fu bombardata ripetutamente e assediata per molto tempo. Nell’aprile del 2002 fece il suo ingresso in città l’esercito israeliano e la popolazione, ormai stremata e vessata dalla presenza di sette checkpoint che la circondavano, subì da luglio a metà ottobre un coprifuoco quasi permanente, tolto solo per 79 ore complessivamente.
Luisa continua a presentarci persone che la salutano affettuosamente, incluso il babbo di un bambino ucciso a 11 anni. Nella sede dell’Associazione palestinese Human Supporters ci presenta un signore che è stato in  carcere per 32 anni dopo essere stato arrestato a soli 15 anni.  Racconta la sua storia anche una donna, ora assistente sociale, che ha un incontro molto affettuoso con Luisa.  Essa è stata arrestata incinta, ha avuto il figlio in carcere, dove lo ha allevato per 5 anni. Anche il figlio è presente, è ormai adulto ed anche lui, come gli altri, vuole farci conoscere le sue vicende e spiegare ancora la drammatica situazione in cui sono costretti a vivere (quando si riparte da Nablus salirà con noi in pullman). Si termina la socializzazione, trovandoci a mangiare insieme intorno ad un tavolo improvvisato, dove troneggia un dolce spettacolare a base di formaggio fuso ricoperto di miele e marmellata, il “kunafa”. Squisito.
(dal diario di Fiorella e Piero - continua)

sabato 21 gennaio 2012

Sette giorni nella Palestina occupata I

Cisgiordania, occupata illegalmente da Israele nel 1967, tuttora illegale per il diritto internazionale. Israele se la sta mangiando pezzo a pezzo: le parti scure sono zona C, sotto diretto controllo israeliano, i palestinesi non possono accedere. Tutte queste parti scure sono o diventeranno tra loro comunicanti, mentre sono interdette ai palestinesi, proprietari secondo il diritto internazionale. Le parti chiare sono in mano ai palestinesi, tra loro non comunicanti o destinate ad esserlo via via che la piovra scura avanza. Queste zone palestinesi sono vietate ai civili israeliani che non devono intrattenere rapporti né stringere legami con "gli arabi" (così vengono chiamati i palestinesi, defraudati anche del nome). Le tracce rosse non so bene, ma rappresentano degnamente il circuito di sangue e sofferenza che questa matta bestialità produce nella totalità della popolazione palestinese e in una sempre più estesa minoranza di Israeliani. La maggioranza degli israeliani viene tenuta all'oscuro delle vergogne di casa propria, aiutate dal bias mentale che consiglia l'ignoranza della realtà.
Primo giorno
29 dicembre - giovedì
Gerusalemme - Capitol Hotel
Alle 11 ci dirigiamo a piedi alla sede dell’Ocha, che è una Agenzia per gli Affari Umanitari delle Nazioni Unite sulla situazione nei territori palestinesi. 
Siamo a Gerusalemme est, ma la sede è in una striscia definita territorio di nessuno. Un funzionario ci illustra la situazione con l’aiuto di un video e fornendoci cartine topografiche della Palestina che illustrano in dettaglio realtà diverse. Inizia subito illustrando la situazione della striscia di Gaza recintata da un muro che la separa da Israele e che presenta 45 punti di passaggio controllati dai soldati. La striscia è lunga circa 40 km e larga 9 con una estensione di 360 kmq. In questo territorio vivono circa 4400 persone/kmq, che ne fa una delle zone a maggior densità di popolazione del mondo. Più della metà della popolazione è al di sotto di 18 anni. Fino al 2005 Israele era presente nella striscia con 21 colonie, che dopo gli accordi di Oslo Sharon ha fatto sgombrare facendo illudere i Palestinesi di essere finalmente liberi, ma invece restringendo a due i passaggi verso l’esterno presidiati dai soldati, mantenendo il controllo dello spazio aereo e riducendo progressivamente a 9 le miglia nautiche accessibili ai Palestinesi. Così da Gaza possono uscire solo 167 persone al giorno contro le 2600 che potevano uscire prima del 2006. La popolazione pertanto rimane prigioniera  nel suo territorio non raggiungibile né dal mare,  non essendoci un porto, né dal cielo, in quanto l’aeroporto è stato distrutto nel 2002. Dal 2007 Hamas ha preso il potere a Gaza. E’ stato organizzato un servizio medico sanitario e delle 200 scuole esistenti circa 150 sono gestite da Hamas. I materiali ritenuti proibiti (benzina, sigarette, materiali edili ecc) entrano in Gaza attraverso punti di passaggio “non ufficiali”, cioè i tunnel sotterranei, 200-300, che hanno una lunghezza media di 1,5 km. Invece i punti di passaggio “ufficiali” sono: Erez, aperto sei giorni a settimana solo per il passaggio di lavoratori, Kerem per le merci, Rafah, controllato da Egitto e Hamas, solo per persone autorizzate, medici palestinesi e casi umanitari. Le autorità egiziane sono a conoscenza dei tunnel, ma l’Egitto non vuole essere responsabile dei movimenti della popolazione di Gaza. Attualmente è in costruzione un muro sul confine fra Israele ed Egitto, che procede ad un ritmo di circa 800 metri al giorno, che terminato sarà lungo 250 km. Esso ufficialmente servirà per bloccare l’immigrazione clandestina dall’Eritrea e dal Sudan attraverso il deserto dl Sinai, ma alla sua realizzazione non sono certo estranee anche le recenti vicende egiziane. Ad oggi a Gaza possono entrare solo diplomatici e giornalisti, naturalmente con tutte le autorizzazioni previste. 
L’intervento del funzionario prosegue parlando della situazione della Cisgiordania. Questa si estende su un area di 5.600 kmq con 2,600 milioni di abitanti. Di questi oltre 530.000 sono coloni distribuiti in insediamenti a macchia di leopardo su tutto il territorio. La Cisgiordania, che gli inglesi chiamavano West Bank, è attualmente divisa in tre aree: A) territorio a controllo civile e amministrazione palestinese; B) territorio a controllo israeliano ma amministrazione palestinese; C) territorio  a controllo e amministrazione israeliana. Il percorso del Muro in Cisgiordania è stato più volte rivisto. Nell’aprile 2006 la revisione del percorso del Muro è stata approvata dal gabinetto israeliano. Una volta completato, la lunghezza complessiva sarà di 723 km, dalla fine del 2007 ne sono stati costruiti 409. La giustificazione ufficiale di Israele per la sua costruzione  è la questione della sicurezza, ma il nuovo percorso misura addirittura il doppio della lunghezza del confine del 1967, il che rende più complicato il pattugliamento dell’area. In alcune zone invece del Muro vi sono recinzioni con zone cuscinetto larghe dai 30 ai 100 metri corredate di recinzioni elettrificate, videocamere, strade pattugliate dai militari, strati di filo spinato tagliente, percorsi di sabbia per la rilevazione delle impronte, fossati, telecamere di sorveglianza e varchi agricoli sorvegliati ( che cosa ci ricordano?). Solo il 20% del Muro è costruito sulla Linea Verde, che divide Israele dai territori occupati. E’ stato preventivato dal Parlamento il costo del Muro in 3,4 miliardi di dollari, 5 milioni a chilometro. Così i palestinesi, già provati dalla perdita delle terre a causa delle imponenti colonie, bypass roads e dall’espansione militare, progressivamente vengono privati della libertà di movimento, del lavoro, delle terre agricole, dell’acqua, delle strade, della possibilità di accesso alle strutture sanitarie e educative, ai mercati, ai siti religiosi, ai rapporti con i familiari che vivono a pochi km di distanza; inoltre vengono sradicati centinaia di migliaia d’alberi di ulivo. I palestinesi con la terra o il lavoro dall’altra parte del Muro devono ottenere e rinnovare i permessi dall’esercito israeliano per accedere ai loro campi o ai posti di lavoro.
Anche a Gerusalemme est si sono infiltrati i coloni, impadronendosi di molte case palestinesi dopo averne cacciato via gli abitanti e sistemandosi spesso agli ultimi piani per aggredire in ogni modo le famiglie palestinesi abitanti ai piani inferiori o le strade del Suq dove i palestinesi hanno le loro botteghe. Ci sono 521 punti di chiusura per controllare i movimenti interni. Nella Valle del Giordano, che comprende le zone più fertili, ormai poca è la popolazione residente soprattutto perché i coloni si sono impadroniti delle terre e dell’acqua con una proliferazione di piantagioni di palme, di serre e di orticoltura industriale dove spesso vanno a lavorare muovendosi dalle città. 
La distanza fra la Cisgiordania e Gaza è di 40 km. Secondo gli accordi di Oslo era previsto un collegamento fra Erez e Hebron, che però non è mai stato realizzato: questo ha fatto sì che fra le due aree vi siano pochissimi contatti. Ramallah è rimasta una città interamente palestinese ed è questa la sede delle autorità palestinesi.
Alle 12,30 si lascia Ocha, con le idee più chiare e maggiore indignazione per la drammatica situazione in cui versa questo popolo ed entriamo nella città vecchia superando la Porta di Damasco.
(dal diario di Fiorella Giuntoli e Pierluigi Caramelli. In seguito: Fiorella e Piero)
La ghigliottina su Gaza: inquadrato il braccio di mare  consentito ai palestinesi; adesso si è abbassato di un'altra metà. Cartina ONU tramite la rappresentanza OCHOA: compito unico dell'Ochoa è quello di monitorare l'avanzata del serpente israeliano che via via si ingoia la Palestina.  Per i palestinesi né pace né tanto meno missioni di pace tutte innamorate dell'Afghanistan. Vietato l'ingresso all'arbitro per mantenere il posto all'arbitrio.

mercoledì 18 gennaio 2012

Occhi dentro Gaza


Per ricordare “Piobo Fuso 27 dicembre 2008 – 18 gennaio 2009”
Una delle pubblicazioni di chi è stato testimone.

“Occhi dentro Gaza”. Reportage dall’Abisso (a cura della casa editrice che lo ha pubblicato in Italia)

“Restiamo umani”. Quante volte abbiamo sentito riecheggiare il motto che è stato di Vittorio Arrigoni e che, oggi, dopo la sua tragica morte, è stato idealmente consegnato a tutti coloro che si sono schierati dalla parte della pace? Tante, mai abbastanza.
Ebbene, a ricordarci ancora una volta che dobbiamo restare umani a tutti i costi sono le 317 pagine di “Occhi dentro Gaza”, testimonianza pubblicata da Bianca e Volta Edizioni. Il volume inaugura la collana “Sotto la lente”, che già si preannuncia tutta da seguire per chi vuole cogliere davvero la cifra ultima dell’attualità, attraverso gli occhi di quei protagonisti spesso loro malgrado lontani dalle luci della ribalta.
In questo caso due medici norvegesi il cui curriculum parla da sé. Mads Gilbert, primario del Reparto di Medicina d’Emergenza presso l’Ospedale dell’Università di Tromso, nonché professore di anestesiologia presso la stessa sede. Erik Fosse, medico e primario presso il Centro di Intervento dell’Ospedale di Oslo, oltre a essere professore di chirurgia all’Università della capitale norvegese.
Entrambi da più di trent’anni lasciano periodicamente il proprio paese e accorrono in soccorso delle vittime di guerra. Lo hanno fatto a fianco del Norwac, (Norwegian Aid Committee), organizzazione umanitaria che offre assistenza medica e sanitaria seguendo principi di solidarietà e uguaglianza, a prescindere dall’appartenenza etnica o religiosa delle popolazioni soccorse. Sono stati in Libano e in Palestina, lavorando in condizioni al limite della resistenza umana, eppure mantenendo sempre quell’oggettività medica e professionale che oggi consente loro di essere testimoni preziosi del presente.
Occhi dentro Gaza” è un lucido reportage, al di là di qualsiasi ideologia o considerazione politica. La storia di due medici, due testimoni oculari, tra i pochissimi occidentali presenti a Gaza durante l’operazione “Piombo Fuso”, sferrata dalle forze armate israeliane a partire dal 27 dicembre 2008 e condotta con estrema violenza per ventidue giorni. Ventidue lunghissimi giorni in cui, di fronte ai continui oltraggi patiti dalla popolazione civile, si fa sentire sempre più forte l’esigenza di colmare il silenzio mediatico, assieme alla speranza di raccontare “l’altra verità” della striscia di Gaza.
Ben lontano dal voler creare sensazionalismo o stupire il lettore con il colore del sangue, il libro ha l’enorme pregio di descrivere con molto tatto, e rispetto umano e professionale, il tema della chirurgia di guerra. All’esperienza in corsia – tra civili mutilati dagli ordigni, bambini terrorizzati, ambulanze bombardate dagli aerei dell’esercito israeliano, testimonianze dei sopravvissuti, embargo economico e politico – ben presto si affianca quella umana. Si parla della gestione delle emergenze in un ospedale di guerra, del rapporto non sempre facile con gli altri colleghi, della necessità di mantenere una netta linea di demarcazione tra il chirurgo professionista e l’uomo che, vivendo a contatto con la popolazione di Gaza, vede quotidianamente a quali ingiustizie, violenze e brutalità essa é sottoposta. Di rapporto tra un Medio Oriente alla fame e un Occidente sovralimentato, “che straripa di calorie”.
È difficile immaginarsi la percezione di claustrofobia che aleggia su Gaza senza aver vissuto la situazione sulla propria pelle o aver abitato in prima persona in un luogo dove convivono un milione e mezzo di persone prive di comunicazione aeree, ferroviarie o su ruote con il mondo circostante o strade per raggiungere liberamente i paesi vicini”, scrivono a un certo punto, facendo riferimento ad alcune delle restrizioni cui è sottoposta la popolazione civile di Gaza. Mancanza di acqua, energia e cibo, di un sistema scolastico, sanitario, perfino di fognature che possano definirsi tali. Impossibilità di avviare una qualsiasi attività commerciale, perfino di pescare liberamente. E in mezzo a tutto questo – come se non fosse già abbastanza – bombe, ordigni, droni. Perfino la torre di controllo dell’aeroporto civile di Gaza è stata distrutta, come a voler negare al nuovo Stato palestinese qualsiasi simbolo di speranza e rinascita.
Gaza oggi è una prigione a cielo aperto. Un enorme laboratorio sociale di cruda repressione. Lo spiegano molto bene le foto e le mappe di cui il libro è corredato. Sembra una versione postmoderna del ghetto di Varsavia, all’interno del quale si assiste a un agghiacciante ribaltamento dei ruoli. La Storia è un processo dinamico: le vittime di un tempo diventano i carnefici di oggi. Il tutto mentre il mondo fa finta di non vedere, quando direttamente non finisce col distorcere i fatti, ricompattando l’enorme varietà umana qui descritta in categorie generiche come “terrorismo” e “violenza”. Finendo però col trascurare mandanti e vittime, da entrambe le parti.
In mezzo a tutto questo due medici. Due professionisti, che con linguaggio semplice e diretto ricordano a tutti noi la necessità di guardare nell’abisso. E operare per restare umani.
Occhi dentro Gaza” riporta alla memoria la lezione di Calvino: l’Inferno dei Viventi non è una dimensione astratta, un qualcosa che sarà. È già qui, tra noi. Abita il presente e le pieghe irrisolte della Storia dei popoli.
Ma c’è una speranza per lottare contro di esso: “Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.