domenica 29 luglio 2012

I soliti gentiluomini attaccano i bambini palestinesi

At-Tuvani 28 luglio 2012

Update: Havat Ma'on masked settlers traumatized palestinian child in Humra valley, near At-Tuwani village, Southern Hebron hills

At around 4:45 pm Operation Dove volunteers were called by a palestinian shepherd from Maghayir Al Abeed village who ask to them to look at one child that was coming to Al-Karmil from Maghayir Al Abeed. When Operation Dove volunteers arrived in Humra valley they found 5 masked settlers that started to throw rocks against them, also with slingshot. One palestinian told to the internationals that the settlers chased the child before their arrival. After, the settlers attacked the volunteers and stopped just when some palestinians came from At-Tuwani. The settlers returned inside Havat Ma'on woods. One relative of the chased child told to Operation Dove members that the victim went to hospital for anxiety disturb connected to the attack.

Pictures of the incident: http://snipurl.com/24h2fa4
Sono sempre loro. v. il mio video: 
http://www.youtube.com/watch?v=rTn1AANKsfI

Traduzione:

Update: Havat Ma'on coloni mascherati traumatizzato bambino palestinese in Humra valle, vicino villaggio di At-Tuwani, sulle colline del sud Hebron

A circa 4:45 pm Operazione Colomba volontari sono stati chiamati da un pastore palestinese del villaggio di Maghayir Al Abeed che chiedono loro di guardare un bambino che stava per Al-Karmil da Maghayir Al Abeed. Quando i volontari Operazione Colomba è arrivato in valle, hanno trovato Humra 5 coloni mascherati che hanno iniziato a lanciare pietre contro di loro, anche con fionda. Palestinese ha detto agli internazionali che i coloni inseguito il bambino prima del loro arrivo. Dopo, i coloni hanno attaccato i volontari e si fermò proprio quando alcuni palestinesi provenivano da At-Tuwani. I coloni restituiti all'interno del bosco di Havat Ma'on. Un parente del bambino inseguito ha detto ai membri volontari di Operazione Colomba che la vittima è andato in ospedale per un disturbo d'ansia collegato all'aggressione.


sabato 28 luglio 2012

Camminando in Casentino

Vetriceta - Oh fons Bandusiae! Un getto forte fresco perenne
Vetriceta: qui 4 metri di neve quest'inverno (Sergio, nativo, racconta la lotta tra il cervo e il lupo sul tetto loro, la sorella che non può rientrare in casa, l'intervento della forestale... )


Una bella camminata sotto gli abeti e faggi del Casentino: da Cancellino, via della Lama, fonte del re, Lupatti, Montecucco, giù verso Campo dell'Agio, deviazione per il Capanno, Vetriceta patria di Sergio nostra guida con Mario nostro guru fino a Badia col parco Siemoni addossato a casa Basagna nostra meta di sosta per riprendere per Soci, Poppi, casa Maestà in quel di Ortignano. Tre ore la camminata a piedi.
Carducci scriveva:

Giosuè Carducci - “Il comune rustico”

O che tra faggi e abeti erma su i campi
Smeraldini la fredda ombra si stampi
Al sole del mattin puro e leggero,
O che foscheggi immobile nel giorno
Morente su le sparse ville intorno
A la chiesa che prega o al cimitero
Che tace, o noci de la Carnia, addio!
Erra tra i vostri rami il pensier mio
Sognando l’ombre d’un tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
Diavoli goffi con bizzarre streghe,
Ma del comun la rustica virtú
Accampata a l’opaca ampia frescura
Veggo ne la stagion de la pastura
Dopo la messa il giorno de la festa.

Il consol dice, e poste ha pria le mani
Sopra i santi segnacoli cristiani:
- Ecco, io parto fra voi quella foresta
D’abeti e pini ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
E la belante a quelle cime là.

E voi, se l’unno o se lo slavo invade,
Eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade,
Morrete per la nostra libertà. -
Un fremito d’orgoglio empieva i petti,
Ergea le bionde teste; e de gli eletti
In su le fronti il sol grande feriva.

Ma le donne piangenti sotto i veli
Invocavan la madre alma de’ cieli.

Con la man tesa il console seguiva:
- Questo, al nome di Cristo e di Maria,
Ordino e voglio che nel popol sia. -
A man levata il popol dicea, Sí.

E le rosse giovenche di su ‘l prato
Vedean passare il piccolo senato,
Brillando su gli abeti il mezzodí.

Operazione Colomba scrive


At-Tuwani, South Hebron Hills
Wednesday, August 1st 2012 – Action in the Palestinian village of Al Mufaqarahâ¨
What: The Popular Resistance Committee of South Hebron Hills organizes an important meeting with representatives from Majaz, Tabban, Sfai, Fakheit, Halaweh, Mirkez, Jinba, and Kharuba which have a total of 1,500 residents in support of their rights to live and to resist after Defense Minister Ehud Barak has ordered the demolition and evacuation of these Palestinian villages. 
(http://tuwaniresiste.operazionecolomba.it/p=1343)Where: Al Mufaqarah village, South Hebron Hills
When: On Wednesday August 1st 2012, at 7.30 p.m.
Why: The purpose is to reinforce the communities' right to live, to spread the information and to organize national, israeli, international solidarity strenghts. Additional Info: These 8 villages are in a big danger because the territory is needed for Israel Defense Forces training exercises, the state told the High Court of Justice. The residents of the targeted villages will be moved to the town of Yatta and its environs. The IDF and the Civil Administration regard all of them as squatters in Firing Zone 918, even though the villages have existed since at least the 1830s. Evacuation orders were issued against the villages in 1999, but were frozen after legal appeal. The IDF had declared some 30,000 dunams (7,500 acres) in the area a closed military zone back in the 1970s.

Nevertheless, the Palestinian communities in the South Hebron Hills are strongly involved in affirming their rights and resisting to the Israeli occupation choosing the nonviolent way.

¨
Please come to partcipate and to support Palestinian communities under demolition and evacuation order in their attempt to affirm their right to exist. ¨-- 


Traduzione



At-Tuwani, South Hebron Hills 
Mercoledì 1 Agosto 2012 â "Azione € nel villaggio palestinese di Al Mufaqarahâ ¨
 
Cosa:
 Il Comitato di Resistenza Popolare di South Hebron Hills organizza un importante incontro con i rappresentanti di Majaz, Tabban, Sfai, Fakheit, Halaweh , Mirkez, Jinba e Kharuba che hanno un totale di 1.500 abitanti a sostegno dei loro diritti di vivere e di resistere, dopo il ministro della Difesa Ehud Barak ha ordinato la demolizione e l'evacuazione di questi villaggi palestinesi. â € ¨ ( http://tuwaniresiste.operazionecolomba.it/p=1343 )Dove: Al Mufaqarah villaggio, a sud di Hebron Hillsâ € ¨ Quando: Il Mercoledì 1 agosto 2012, alle 7.30 pma € ¨ Perché: Lo scopo è quello di rafforzare la diritto delle comunità a vivere, per diffondere le informazioni e per organizzare nazionali, Israele, punti di forza internazionali di solidarietà. 
Informazioni supplementari:
 Questi 8 villaggi sono in grande pericolo perché il territorio è necessario per Israele Defense Forces esercizi, lo stato ha detto alla Corte Suprema di giustizia. Gli abitanti dei villaggi mirati saranno spostati alla città di Yatta e dei suoi dintorni.L'IDF e il proposito dell'Amministrazione Civile tutti come abusivi in Firing Zone 918, anche se i villaggi sono esistite almeno dal 1830. Gli ordini di evacuazione sono stati emessi contro i villaggi nel 1999, ma sono stati congelati dopo il ricorso alle vie legali. L'IDF aveva dichiarato circa 30.000 dunam (7.500 acri) nella zona di una schiena zona militare chiusa nel 1970.

Tuttavia, le comunità palestinesi delle colline a sud di Hebron sono fortemente impegnati ad affermare i loro diritti e resistere all'occupazione israeliana la scelta del metodo nonviolento.¨
 

Venite a partcipate e per sostenere le comunità palestinesi sotto la demolizione e l'ordine di evacuazione nel loro tentativo di affermare il loro diritto di esistere.
 ¨ 


Operation Dove - Nonviolent Peace Corps
Palestine/Israel
Ass. Comunità Papa Giovanni XXIII

Email: tuwani@operationdove.org
Web: www.operationdove.org
Mobile: +972 54 9925773

venerdì 27 luglio 2012

L'altra America


Project Censored’s Summer Reading
Matthew A. Baum and Tim J. Groeling, War Stories: The Causes and Consequences of Public Views of War (Princeton University Press, 2010)
A landmark study of how media rhetoric influences public opinion during wartime.
Murray Edelman, Constructing the Political Spectacle, (University of Chicago, 1988)
With another election cycle underway, this slim classic proves timely and insightful once again.
Arundhati Roy, Walking with the Comrades (Penguin, 2011)
Essential reading for all who care about the commons, and a thoughtful challenge to those committed to non-violence.
Morris Berman, Why America Failed: The Roots of Imperial Decline (Wiley, 2011)
For anyone seeking to understand America today, how we got here, and where we unfortunately seem to be heading, cultural historian and social critic Morris Berman offers an unflinching and timely explanation. In an election year, this ought to be required reading.
Daniel J. Boorstin, The Image: A Guide to Psuedo-Events in America (Random House, 2012[1962])
The pseudo-events that Boorstin described fifty years ago now dominate our media landscape from “reality" TV to what passes for "news." We might still heed his warnings about America's obsession with celebrityhood and its consequences. In 2012, The Image reads like a user's manual for the illusion that is America.
Medea Benjamin, Drone Warfare (OR Books, 2012)
Benjamin challenges the legality and morality of the US’s escalating use of drones to kill its enemies, and she documents global opposition to their use—topics glossed in the corporate media.
Peter Dale Scott, American War Machine (Rowman & Littlefield, 2010)
Important documentation on the history and contemporary reality of the deep politics of the international drug trade and the US war machine.
Dennis Loo, Globalization and the Demolition of Society (Larkmead Press, 2011)
Loo’s work is an adventure in cognitive rebellion, helping us understand the socio-economic forces destroying our world.
Ray Bradbury, Fahrenheit 451 (Simon & Schuster 2012[1951])
A case study of censorship and resistance, the late Ray Bradbury’s novel inspired our introduction to the forthcoming Censored 2013.
Sarah van Gelder and YES! Magazine, This Changes Everything: Occupy Wall Street and the 99% Movement (Berrett-Koehler, 2011)
The good-news folks at YES! bring together some of the best and brightest minds and activists to remind us, the 99%, that we are the change agents for a better world and that our time for action is now. Read it and Occupy!
Charles Eisenstein, Sacred Economics: Money, Gift, and Society in the Age of Transition (Evolver, 2011).
A breakthrough in thinking… Sacred Economics explores time-tested and emerging concepts of the new economics, including local and negative interest currencies, resource-based economics, gift economies and the restoration of the commons.
Ross Jackson, Occupy World Street: A Global Roadmap for Radical Economic and Political Reform (Chelsea Green, 2012)
A sweeping vision of how to reform our global economic and political structures, break away from empire, and build a world based on ecological sustainability and human rights.
Mickey Huff and Project Censored, Censored 2012 (Seven Stories Press, 2011)
The “sourcebook for the media revolution.”
Traduzione


Project Censored Summer Reading
Matthew A. Baum e Tim J. Groeling, War Stories: cause e conseguenze di visualizzazioni pubbliche di guerra (Princeton University Press, 2010)
Uno studio fondamentale di come la retorica dei media influenzano l'opinione pubblica in tempo di guerra.
Murray Edelman, La costruzione dello spettacolo politico , (University of Chicago, 1988)
Con un altro ciclo elettorale in corso, questo classico sottile si rivela puntuale e penetrante, ancora una volta.
Arundhati Roy, Camminando con i compagni (Penguin, 2011)
Una lettura essenziale per quanti hanno a cuore i beni comuni, e una sfida pensiero a quelli commessi alla non violenza.
Morris Berman, Perché l'America non riuscito: Le radici del declino imperiale (Wiley, 2011)
Per tutti coloro che cercano di capire l'America di oggi, come siamo arrivati ​​qui, e dove, purtroppo, sembrano essere voce, storico culturale e sociale critico Morris Berman offre una spiegazione risoluto e tempestivo. In un anno elettorale, questa dovrebbe essere una lettura necessaria.
Daniel J. Boorstin, The Image: A Guide to pseudo-eventi in America (Random House, 2012 [1962])
Gli pseudo-eventi che Boorstin descritti cinquanta anni fa, ora dominano il nostro panorama dei media dalla TV "realtà" di ciò che passa per "news". Potremmo ancora dar retta ai suoi avvertimenti circa l'ossessione dell'America con celebrityhood e le sue conseguenze. Nel 2012, L'immagine si legge come di un utente manuale per l'illusione che è l'America.
Medea Benjamin, Drone Warfare (OR Books, 2012)
Benjamin contesta la legittimità e la moralità di utilizzo crescente degli Stati Uniti di droni per uccidere i suoi nemici, e si documenta opposizione globale al loro utilizzo-topics lucidate nei media corporativi.
Peter Dale Scott, American War Machine (Rowman & Littlefield, 2010)
Importante documentazione sulla realtà e la storia contemporanea della politica profonde del traffico internazionale di droga e la macchina da guerra degli Stati Uniti.
Dennis Loo, la globalizzazione e la demolizione della società (Larkmead Press, 2011)
Lavoro di Loo è un'avventura in ribellione cognitive, aiutando a comprendere le forze socio-economiche distruggendo il nostro mondo.
Ray Bradbury, Fahrenheit 451 (Simon & Schuster 2012 [1951])
Un caso di studio di censura e di resistenza, il romanzo di Ray Bradbury alla fine degli anni ha ispirato la nostra introduzione al prossimo Censored 2013 .
Sarah van Gelder e YES! Magazine, questo cambia tutto: Occupare Wall Street e il Movimento del 99% (Berrett-Koehler, 2011)
Le buone notizie ragazzi di YES! mettere insieme alcune delle menti migliori e più brillanti e attivisti per ricordarci, il 99%, che ci sono gli agenti di cambiamento per un mondo migliore e che il nostro tempo di agire è ora . Leggetelo e Occupare!
Charles Eisenstein, Economia Sacred: soldi, regalo, e società nell'età della transizione (Evolver, 2011).
Una svolta nel pensiero ... Economia Sacri esplora concetti di time-tested ed emergenti della nuova economia, comprese le valute locali e di interesse negativi, basate sulle risorse economiche, economie del dono e il restauro dei beni comuni.
Ross Jackson, Occupare World Street: Una tabella di marcia globale per radicale riforma economica e politica (Chelsea Green, 2012)
Una visione radicale di come riformare le nostre strutture globali economiche e politiche, staccarsi dall'impero, e costruire un mondo basato sulla sostenibilità ecologica e dei diritti umani.
Mickey Huff e Project Censored, Censored 2012 (Seven Stories Press, 2011)
Il "Sourcebook per la rivoluzione dei media".

giovedì 19 luglio 2012

Luisa Morgantini scrive

Cari e Care,

siamo lieti di annunciarvi che il progetto "Youth'Right!!", presentato come Associazione per la Pace all'interno del bando Youth in Action dell'Unione Europea è stato approvato!


Questo significa che dal 23 agosto al 4 settembre (le date potrebbero subire modifiche di qualche giorno) avremo il piacere di ospitare a Roma, dieci ragazzi dell' Human Supporter group di Nablus . Essendo un progetto di scambio, i ragazzi e ragazze palestinesi
lavoreranno con 10 coetanei italiani (di età 18-23) su Diritti Umani tramite Teatro, videoarte ed arti di strada con la partecipazione del Teatro Valle Occupato ed altre realtà Romane e non.

In allegato troverete una breve descrizione del progetto.

L'agenzia dell'unione europea tuttavia, copre solo il 70% delle spese e non prevede alcuna copertura per la seconda fase del progetto: il viaggio dei giovani italiani a Nablus previsto a chiusura dello scambio per Dicembre e le relative attività in Palestina. Per coprire questi costi abbiamo organizzato una lotteria (o sottoscrizioni a premi) di cui alleghiamo fac-simile del biglietto ed altri eventi sul territorio.

Chiunque voglia contribuire alla vendita, ma anche ad iniziative di sostegno, può scrivere a Luisa - lmorgantiniassopace@gmail.com, tel. 3483921465 che vi invierà un blocchetto e collaborerà alle iniziative.

Siamo grati a tutti quelli e quelle che ci hanno aiutato nel pensare, redigere e realizzare questa prima fase del progetto, in modo particolare al gruppo AssopacePalestina, ed un grazie anche a Farshid,responsabile legale dell'assopace. Un grazie naturalmente anche a tutti e tutte che vorranno sostenerci.

La solidarieta' e' la tenerezza dei popoli, ma non vi e' solidarieta' senza scambio e relazioni tra persone.
Un abbraccio


Andrea Cappellini, Giulia Giordano, Luisa Morgantini, Giulia Nardini, Rossella Palaggi

venerdì 13 luglio 2012

Largo a Marguerite Yourcenar


Marguerite Yourcenar, pseudonimo di Marguerite Cleenewerck de Crayencour (Bruxelles, 8 giugno 1903 – Mount Desert, 17 dicembre 1987), è stata una scrittrice francese. È stata la prima donna eletta alla Académie française. Nei suoi libri sono frequenti i temi esistenzialistici e in particolare quello della morte.

Noi abbiamo una sola vita: se anche avessi fortuna, se anche raggiungessi la gloria, di certo sentirei di aver perduto la mia, se per un solo giorno smettessi di contemplare l'universo. (da Pellegrina e straniera, traduzione di Elena Giovanelli, Einaudi)

Nacque da una famiglia franco-belga di antica nobiltà. Il padre, Michel Cleenewerck de Crayencour, era un ricco proprietario terriero che rappresentava la parte francese della famiglia; la madre, Ferdinande de Cartier de Marchienne, belga, anche lei di stirpe nobile, morì dieci giorni dopo la nascita di Marguerite, a causa di setticemia e peritonite insorte in seguito al parto. La Yourcenar fu educata privatamente solo dal padre in una villa a Mont Noir nel comune di Saint-Jans-Cappel, nel nord della Francia. La bambina si dimostrò subito una lettrice precoce, interessandosi a soli 8 anni alle opere di Jean Racine e Aristofane; imparò a dieci il latino e a dodici il greco. All'età di diciassette anni, da poco trasferitasi a Nizza, Marguerite de Crayencour pubblica sotto lo pseudonimo di "Marg Yourcenar" la prima opera in versi: Le jardin des chimères (Il giardino delle chimere); scelse questo pseudonimo con l'aiuto del padre, anagrammando il suo cognome (Crayencour, appunto). Nel 1924, in occasione di uno dei tanti viaggi in Italia, visita per la prima volta Villa Adriana e inizia la stesura dei primi Carnets de notes de Mémoires d'Hadrien (Taccuini di note di Memorie di Adriano).

Successivamente dà alle stampe La denier du rêve (La moneta del sogno), un romanzo ambientato nell'Italia dell'epoca. Nel 1937 Marguerite fa un incontro fondamentale per la sua carriera e per la sua vita in generale con Grace Frick, intellettuale americana, che divenne la sua compagna per il resto della sua vita. Nel 1939, allo scoppio della Seconda guerra mondiale si trasferì negli Stati Uniti d'America e ne prese la cittadinanza nel 1947, pur continuando sempre a scrivere in francese. Negli Stati Uniti insegnò letteratura francese e storia dell'arte dal 1942 al 1950 e dal 1952 al 1953.

Iniziò così un decennio di privazioni, che ella stessa definirà più tardi come il più brutto della sua vita. Questo periodo della sua vita si conclude con la pubblicazione delle Mémoires d'Hadrien (Memorie di Adriano), sicuramente il suo libro di maggior successo. A partire da questo momento la Yourcenar comincia una serie di viaggi in giro per il mondo, che conosceranno una pausa solo per l'aggravarsi delle condizioni di salute della sua compagna che la porteranno alla morte. Dopo la morte di Grace Frick la scrittrice conosce Jerry Wilson, che diventerà presto una delle sue più intense passioni. Ma neanche lui le sopravvive. Marguerite Yourcenar muore presso l'ospedale Bar Harbor di Mount Desert nel 1987.

Immagina di fare scrivere ad Adriano una lunga lettera nella quale parla della sua vita di imperatore all'amico Marco Aurelio, che poi diventerà suo nipote adottivo.

Base della ricerca, come sempre Wikipedia la grande:


http://it.wikipedia.org/wiki/Memorie_di_Adriano

http://it.wikipedia.org/wiki/Marguerite_Yourcenar


Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t'appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più... Cerchiamo d'entrare nella morte a occhi aperti...
Fonte



Animula vagula, blandula,
Hospes comesque corporis,
Quae nunc abibis in loca
Pallidula, rigida, nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos...

P. Aelius, Hadrianus, Imp.




Mio caro Marco,

Sono andato stamattina dal mio medico, Ermogene, recentemente rientrato in Villa da un lungo viaggio in Asia. Bisognava che mi visitasse a digiuno ed eravamo d'accordo per incontrarci di primo mattino. Ho deposto mantello e tunica; mi sono adagiato sul letto. Ti risparmio particolari che sarebbero altrettanto sgradevoli per te quanto lo sono per me, e la descrizione del corpo d'un uomo che s'inoltra negli anni ed è vicino a morire di un'idropisia del cuore. Diciamo solo che ho tossito, respirato, trattenuto il fiato, secondo le indicazioni di Ermogene, allarmato suo malgrado per la rapidità dei progressi del male, pronto ad attribuire la colpa al giovane Giolla, che m'ha curato in sua assenza. È difficile rimanere imperatore in presenza di un medico; difficile anche conservare la propria essenza umana: l'occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e di sangue. E per la prima volta, stamane, m'è venuto in mente che il mio corpo, compagno fedele, amico sicuro e a me noto più dell'anima, è solo un mostro subdolo che finirà per divorare il padrone. Basta... Il mio corpo mi è caro; mi ha servito bene, e in tutti i modi, e non starò a lesinargli le cure necessarie. Ma, ormai, non conto più, come sostiene ancora Ermogene, sulle virtù prodigiose delle piante, sulla dosatura precisa di quei sali minerali che s'è recato a procurarsi in oriente. È un uomo fine; eppure, m'ha propinato formule vaghe di conforto, troppo ovvie per poterci credere; sa bene quanto detesto questo genere d'imposture, ma non si esercita impunemente più di trent'anni la medicina. Perdono a questo mio fedele il suo tentativo di nascondermi la morte. Ermogene è dotto; è persino saggio; la sua probità è di gran lunga superiore a quella d'un qualunque medico di corte. Avrò in sorte d'essere il più curato dei malati. Ma nessuno può oltrepassare i limiti prescritti dalla natura; le gambe gonfie non mi sostengono più nelle lunghe cerimonie di Roma; mi sento soffocare; e ho sessant'anni.
Non mi fraintendere: non sono ancora così a mal partito da cedere alle immaginazioni della paura, assurde quasi quanto quelle della speranza, e certamente assai più penose. Se occorresse ingannarmi, preferirei che lo si facesse ispirandomi fiducia; non ci rimetterei più che tanto, e ne soffrirei meno. Non è detto che quel termine così vicino debba essere imminente; vado ancora a letto, ogni sera, con la speranza di rivedere il mattino. Nell'ambito di quei limiti invalicabili di cui t'ho fatto cenno poc'anzi, posso difendere la mia posizione palmo a palmo, e persino riconquistare qualche pollice di terreno perduto. Ciò nonpertanto, sono giunto a quell'età in cui la vita è, per ogni uomo, una sconfitta accettata. Dire che ho i giorni contati non significa nulla; è stato sempre così; è così per noi tutti. Ma l'incertezza del luogo, del tempo, e del modo, che ci impedisce di distinguere chiaramente quel fine verso il quale procediamo senza tregua, diminuisce per me col progredire della mia malattia mortale. Chiunque può morire da un momento all'altro, ma chi è malato sa che tra dieci anni non ci sarà più. Il mio margine d'incertezza non si estende più su anni, ma su mesi. Le probabilità che io finisca per una pugnalata al cuore o per una caduta da cavallo diventano quanto mai remote; la peste pare improbabile; la lebbra e il cancro sembrano definitivamente da escludere. Non corro più il rischio di cadere ai confini, colpito da un'ascia caledonia o trafitto da una freccia partica; le tempeste non hanno saputo profittare delle occasioni loro offerte, e sembra avesse ragione quel mago a predirmi che non sarei annegato. Morirò a Tivoli, o a Roma, tutt'al più a Napoli, e una crisi di asfissia sbrigherà la bisogna. Sarà la decima crisi a portarmi via, o la centesima? Il problema è tutto qui. Come il viaggiatore che naviga tra le isole dell'Arcipelago vede levarsi a sera i vapori luminosi, e scopre a poco a poco la linea della costa, così io comincio a scorgere il profilo della mia morte.
Vi sono già zone della mia vita simili alle sale spoglie d'un palazzo troppo vasto, che un proprietario immiserito rinuncia ad occupare per intero. Se non ci fosse altri che io a disturbarli, mentre ruminano e giocano, i caprioli sui monti d'Etruria potrebbero vivere tranquilli. Con la Diana delle foreste, ho avuto sempre i rapporti mutevoli e appassionati d'un uomo con l'oggetto amato: adolescente, la caccia al cinghiale m'ha offerto le prime occasioni di conoscere l'autorità e il pericolo; mi ci dedicavo con passione; i miei eccessi in questo esercizio mi attirarono le rampogne di Traiano. La spartizione della preda in una radura della Spagna è stata la mia prima esperienza della morte, del coraggio, della pietà per le creature, e del piacere tragico di vederle soffrire. Da uomo fatto la caccia mi rilassava da tante lotte segrete contro avversari di volta in volta troppo sottili ottusi, troppo deboli o troppo forti per me; è una lotta pari tra l'intelligenza umana e l'astuzia delle fiere e sembrava stranamente pulita in paragone con gli agguati degli uomini. Imperatore, le cacce in Etruria mi sono servite per giudicare il coraggio o le capacità dei miei alti funzionari: ivi ho scartato o prescelto più d'un uomo di Stato. Più tardi, in Bitinia, in Cappadocia, le grandi battute di caccia mi fornirono un pretesto di feste, di trionfi autunnali nei boschi dell'Asia. Ma il compagno delle mie ultime cacce è morto giovane, e il desiderio di questi piaceri violenti è molto scemato in me dopo la sua dipartita. Pure, persino qui a Tivoli, basta l'improvviso sbuffare d'un cervo sotto le fronde perché trasalisca in me un istinto più antico di tutti gli altri, grazie al quale mi sento gattopardo quanto imperatore. Chissà, forse sono stato così parco di sangue umano perché ho versato quello delle fiere: benché talvolta, segretamente, le preferissi agli uomini. La loro immagine, comunque, mi torna alla memoria più spesso, e m'è difficile non abbandonarmi ogni sera a interminabili racconti di caccia che mettono a dura prova la pazienza dei miei convitati. Certo, il ricordo del giorno della mia adozione mi è dolce, ma quello dei leoni uccisi in Mauretania lo vale.
Rinunciare al cavallo è un sacrificio ancora più penoso per me: una belva non è che un avversario, ma il cavallo era un amico. Se mi fosse lasciata la scelta della mia condizione, avrei optato per quella di Centauro. Tra Boristene e me i rapporti erano d'una precisione matematica: obbediva a me come al suo cervello, non come al padrone. Ho mai ottenuto altrettanto da un uomo? Un'autorità così totale comporta, come qualsiasi latra, il rischio d'un errore per chi la esercita, ma il piacere di tentare l'impossibile in fatto di salti all'ostacolo era troppo grande per rimpiangere la lussazione d'una spalla o la frattura d'una costola. Il mio cavallo surrogava i mille concetti inerenti al titolo, alla funzione, al nome, che complicano le amicizie umane, con la sola conoscenza del mio peso esatto. I miei slanci erano per metà suoi; conosceva con precisione, e forse meglio di me, il momento in cui la mia volontà divergeva dalle mie forze. Ma ora non infliggo più al successore di Boristene il peso d'un malato dai muscoli infiacchiti, troppo debole per issarsi in groppa da solo. In questo momento, il mio aiutante di campo, Celere, lo sta addestrando sulla strada di Preneste; tutte le mie esperienze di velocità mi consentono di condividere il piacere del cavaliere e quello dell'animale, di valutare le sensazioni d'un uomo lanciato a briglia sciolta in una giornata di sole e di vento; quando Celere balza da cavallo, io riprendo contatto col suolo insieme a lui. Lo stesso accade col nuoto: io vi ho rinunciato, ma partecipo ancora alla delizia del nuotatore carezzato dall'acqua. Correre, perfino sul più breve dei percorsi, oggi mi sarebbe impossibile quanto lo sarebbe a una statua massiccia, a un Cesare di pietra, ma ricordo le mie corse di fanciullo sulle arse colline della Spagna, il gioco che si fa con se stesso allorché, trafelati sino ai limiti della resistenza, si sa che il cuore saldo, i polmoni intatti ristabiliranno l'equilibrio; e provo, con il più oscuro tra gli atleti che si allenano alla corsa di fondo nello stadio, un'intesa che l'intelletto da solo non saprebbe darmi. Così, da ciascuna delle arti che praticai a suo tempo traggo una conoscenza che mi compensa in parte dei piaceri perduti. Ho creduto, e nei miei momenti migliori lo credo ancora, che in tal modo potrei partecipare all'esistenza di tutti; e questa simpatia potrebb'essere uno degli aspetti meno revocabili dell'immortalità. Ho avuto momenti in cui questa comprensione si è sforzata di superare l'umano, si è rivolta dal nuotatore all'onda. Ma, poiché in questo campo non c'è nulla di preciso a rendermi edotto, entro nella sfera delle metamorfosi, delle chimere.
Mangiar troppo, è un vizio romano, ma io sono stato sobrio con voluttà. Ermogene non ha dovuto modificar nulla del mio regime, se non forse frenare l'impazienza che m'ha sempre fatto divorare ovunque, a qualsiasi ora, un cibo qualsiasi, come per troncare d'un colpo le esigenze della fame. Un uomo ricco, che non ha mai conosciuto altre privazioni che quelle volontarie, o non ne ha sperimentate se non a titolo provvisorio, come uno degli incidenti più o meno eccitanti della guerra e dei viaggi, dimostrerebbe cattivo gusto se si vantasse di non satollarsi. Impinzarsi i giorni di festa è stata sempre l'ambizione, la gioia, e l'orgoglio naturale dei poveri. Mi piaceva l'aroma delle carni arrostite, il rumore delle marmitte raschiate, nelle festività militari, e che i banchetti al campo (o ciò che al campo costituiva un banchetto) fossero ciò che dovrebbero essere sempre, un compenso rozzo e festoso alle privazioni dei giorni di lavoro; tolleravo discretamente l'odor di fritto nelle pubbliche piazze al tempo dei Saturnali. Ma i conviti di Roma m'ispiravano ripugnanza e tedio tanto che se alle volte - durante un'esplorazione o una spedizione militare - ho visto la morte vicina, per farmi coraggio mi son detto che almeno sarei liberato dei pranzi. Non mi farai l'ingiuria di prendermi per un rinunciatario qualsiasi: un'operazione che si verifica due o tre volte al giorno, e serve ad alimentare la vita, merita certamente le nostre cure. Mangiare un frutto significa far entrare in noi una cosa viva, bella, come noi nutrita e favorita dalla terra; significa consumare un sacrificio nel quale preferiamo noi stessi alla materia inanimata. Non ho mai affondato i denti nella pagnotta delle caserme senza meravigliarmi che quella miscela rozza e pesante sapesse mutarsi in sangue, in calore, fors'anche in coraggio. Ah, perché il mio spirito, nei suoi giorni migliori, non possiede che una parte dei poteri d'assimilazione di un corpo?
A Roma, durante i lunghi pranzi ufficiali, mi è accaduto di pensare alle origini relativamente recenti del nostro lusso; a questo popolo di coloni parsimoniosi e di soldati frugali, satolli d'aglio e di orzo, improvvisamente immersi dalla conquista nelle delizie della cucina asiatica che ingozza manicaretti con la voracità rustica dei contadini. I nostri Romani si rimpinzano di cacciagione, s'inondano di salse, e s'intossicano di spezie. Un apicio va fiero della successione di portate, di quella serie di vivande piccanti o dolci, grevi o delicate, che compongono l'armonica disposizione dei suoi banchetti; e passi ancora se ciascuno di tali cibi fosse servito separatamente, assimilato a digiuno, sapientemente assaporato da un buongustaio dalle papille intatte. Ma serviti così, giornalmente, alla rinfusa, in mezzo a una profusione banale, essi formano nel palato e nello stomaco di chi mangia una confusione detestabile, nella quale odori, sapori, sostanze perdono il loro rispettivo valore, la loro squisita identità. Un tempo quel povero Lucio si dilettava a prepararmi qualche piatto raro; i suoi pasticci di fagiano, dove prosciutto e spezie vanno sapientemente dosati, erano il risultato di un'arte, esattamente come quella del musico o del pittore; eppure, rimpiangevo la carne pura e semplice del bel volatile.
In Grecia se ne intendono di più: quel vino che sa di resina, quel pane al sesamo, quei pesci girati sulla griglia in riva al mare, anneriti irregolarmente dal fuoco, insaporiti qua e là da un granello di sabbia che scricchiola sotto i denti si limitavano a placare l'appetito, senza sovraccaricare di complicazioni il più elementare dei piaceri. Ho assaporato, in qualche bettola di Egina o al Falero, cibi così freschi che restavano divinamente puliti a onta delle mani sudice dello sguattero che mi serviva; così sobri ma al tempo stesso così sostanziosi che pareva contenessero, nella forma più condensata possibile, un'essenza di immortalità. Anche la carne, arrostita la sera dopo la caccia, conteneva questa qualità direi quasi di sacramento, ci riportava indietro, alle origini selvagge delle razze; così il vino ci inizia ai misteri vulcanici del suolo, ai suoi misteriosi tesori: bere una coppa di vino di Samo, a mezzogiorno, col sole alto, o piuttosto sorseggiarlo una sera d'inverno, quando si è in quello stato di fatica che consente di sentirlo immediatamente colare caldo nella cavità del diaframma, e diffondersi nelle vene ardente e sicuro, sono sensazioni quasi sacre, persino troppo violente, per la mente umana. Non le ritrovo altrettanto genuine quando esco dalle cantine numerate di Roma, e mi spazientisce la pedanteria dei conoscitori di vigneti. Così, con un gesto ancor più devoto, bere l'acqua nel cavo delle mani o direttamente alla sorgente, fa sì che penetri in noi il sale più segreto della terra, e la pioggia del cielo. Ma, oggi, anche l'acqua è una voluttà che un malato come me deve concedersi con misura. Non importa: anche nell'agonia, mescolata all'amaro delle ultime pozioni, mi sforzerò di sentire sulle labbra la freschezza insapore.
Nelle scuole di filosofia, dove è di prammatica provare una volta per tutte ogni regola di condotta, ho sperimentato per breve tempo il regime vegetariano e, più tardi, in Asia, ho visto i ginnosofisti indiani, volgere il capo alla vista degli agnelli fumanti e dei quarti di gazzella serviti sotto la tenda di Osroe. Ma quest'astinenza, nella quale si compiace la tua austerità giovanile, esige attenzioni complicate, più della golosità: trattandosi di una funzione che si svolge quasi sempre in pubblico, il più delle volte sotto il segno della pompa o dell'amicizia, finirebbe per distinguerci troppo dagli altri. Preferisco nutrirmi tutta la vita di oche ingrassate e di galline faraone anziché farmi accusare dai commensali, a ogni pasto, di un'ostentazione di ascetismo. Già mi è stato tutt'altro che facile, con l'aiuto di poche frutta secche, o di una coppa sorseggiata lentamente, nascondere agli invitati che i manicaretti creati dai miei cuochi erano destinati a essi più che a me, e che la mia curiosità per quelle vivande cessava assai prima della loro. Un principe, in questo campo, non ha la libertà di un filosofo, non può concedersi troppe singolarità tutte insieme, e gli dèi sanno se quelle per le quali mi distinguevo non erano già troppo numerose, a onta della mia illusione che molte di esse passassero inosservate. Quanto agli scrupoli religiosi dei ginnosofisti e la ripugnanza che provano alla vista della carne sanguinolenta, mi colpirebbero di più se non venisse fatto di chiedere a me stesso in che cosa la sofferenza dell'erba falciata differisca essenzialmente da quella di un montone sgozzato, e se l'orrore che proviamo nel vedere trucidare un animale non dipenda soprattutto dal fatto che la nostra sensibilità appartiene al medesimo regno. Pure, in certi momenti della vita, a esempio nei periodi di digiuno rituale, o durante le iniziazioni religiose, ho apprezzato i vantaggi, nonché i pericoli, per lo spirito, delle diverse forme d'astinenza, persino dell'inedita volontaria, di quegli stati prossimi alla vertigine, durante i quali il corpo, in parte libero dal suo peso, entra in un mondo che non è fatto per lui, che gli offre in anticipo un'immagine della gelida levità della morte. In altri momenti, queste esperienze mi hanno consentito di bloccarmi con l'idea del suicidio progressivo, la morte per inedita, che fu quella di qualche filosofo; una specie di orgia alla rovescia, nella quale si perviene grado a grado all'esaurimento della sostanza vitale. Ma aderire totalmente a un sistema non mi sarebbe piaciuto mai, né avrei mai voluto che uno scrupolo mi privasse del diritto di saziarmi di carne d'ogni specie, se per caso ne avessi avuto voglia, o se quel nutrimento fosse stato il solo a mia disposizione.
I cinici e i moralisti si trovano d'accordo nel collocare le voluttà dell'amore tra i piaceri cosiddetti volgari, tra quello del mangiare e quello del bere, pur dichiarandole meno indispensabili, poiché, ci assicurano, se ne può fare a meno. Dal moralista mi aspetto di tutto: ma mi stupisce che s'inganni il cinico. Ammettiamo che gli uni come gli altri abbiano paura dei loro demoni - sia che resistano sia che cedano a essi - e che cerchino con ogni mezzo di avvilire il piacere per cercar di sottrargli la potenza quasi terribile alla quale soccombono, il mistero dal quale si sentono travolti. Accetterò di assimilare l'amore alle gioie puramente fisiche (ammettendo che ve ne siano) quando avrò visto un ghiottone anelare di piacere innanzi alla sua pietanza favorita come un innamorato sulla spalla dell'essere amato. Di tutti i nostri giochi, questo è il solo che rischi di sconvolgere l'anima, il solo altresì nel quale ci si deve abbandonare al delirio dei sensi. Non è necessario per un beone abdicare all'uso della ragione, ma l'innamorato che conservi la sua non obbedisce fino in fondo al suo demone. In qualsiasi altro caso, l'astinenza o la sregolatezza non impegnano che l'individuo; salvo il caso dio Diogene, le cui privazioni, il cui lucido pessimismo si definiscono da sé, ogni atto sensuale ci pone in presenza dell'Altro, ci coinvolge nelle esigenze e nelle servitù della scelta. Non ne conosco altre ove l'uomo sia spinto a risolversi da motivi più elementari e ineluttabili, ove l'oggetto della scelta venga valutato con maggiore esattezza per il peso di piaceri che offre, ove chi ama il vero abbia maggiori possibilità di giudicare la creatura umana nella sua nudità. Stupisco nel veder formarsi di nuovo ogni volta - nonostante un abbandono che tanto eguaglia quello della morte, un'umiltà più assoluta di quella della sconfitta e della preghiera - quel complesso di dinieghi, di responsabilità, di promesse: povere confessioni, fragili menzogne, compromessi appassionati tra i nostri piaceri e quelli dell'Altro, legami che sembra impossibile infrangere e che pure si sciolgono così rapidamente. Questo gioco misterioso che va dall'amore di un corpo all'amore d'un essere umano, m'è sembrato tanto bello da consacrarvi tutta una parte della mia vita. Le parole ingannano: la parola piacere, infatti, nasconde realtà contraddittorie, implica al tempo stesso i concetti di calore, di dolcezza, d'intimità dei corpi, e quelli di violenza, d'agonia, di grida. La piccola frase oscena di Poseidonio - che t'ho visto ricopiare sul tuo quaderno di scuola con una diligenza da primo della classe - a proposito dell'attrito di due piccole parti di carne, non definisce il fenomeno dell'amore, così come la corda toccata dal dito non rende conto del miracolo infinito dei suoni. Più ancora che alla voluttà, essa reca ingiuria alla carne, a questo strumento di muscoli, di sangue, di epidermide, a questa rossa nube di cui l'anima è la luce viva dei campi.
Confesso che la ragione si smarrisce di fronte al prodigio dell'amore, questa strana ossessione che fa sì che questa stessa carne, della quale ci curiamo tanto poco quando costituisce il nostro corpo, preoccupandoci unicamente di lavarla, di nutrirla, e - fin dov'è possibile - d'impedirle che soffra, possa ispirarci una così travolgente sete di carezze sol perché è animata da una individualità diversa dalla nostra, e perché è dotata più o meno di certi attributi di bellezza sui quali, del resto, anche i giudici migliori son discorsi. Di fronte all'amore, la logica umana è impotente, come in presenza delle rivelazioni dei Misteri: non s'è ingannata la tradizione popolare, che ha sempre ravvisato nell'amore una forma di iniziazione, uno dei punti ove il segreto e il sacro s'incontrarono. E per un altro aspetto ancora, l'espressione sensuale si può paragonare ai Misteri, in quanto il primo contatto appare al non iniziato un rito più o meno pauroso, violentemente diverso dalle funzioni consuete del sonno, del bere e del mangiare, oggetto di scherno, di vergogna o di terrore. L'amore, non altrimenti della danza delle Menadi e del delirante furore dei Coribanti, ci trascina in un universo insolito, ove in altri momenti è vietato avventurarci, e dove cessiamo di orientarci non appena l'ardore si spegne e il piacere si placa. Avvinto al corpo amato come un crocifisso alla sua croce, ho appreso sulla vita segreti che ormai si dileguano nei ricordi, per opera di quella stessa legge che impone al convalescente guarito di dimenticare le verità misteriose del suo male; al prigioniero, una volta libero, di obliare al tortura, e la trionfantore la gloria, quando l'ebbrezza del trionfo è svanita.
A volte, ho sognato di elaborare un sistema di conoscenza umana basato sull'erotica: una teoria del contatto, nella quale il mistero e la dignità altrui consisterebbero appunto nell'offrire al nostro Io questo punto di riferimento d'un mondo diverso. In questa filosofia, la voluttà rappresenterebbe una forma più completa, ma più caratterizzata altresì dei contatti con l'Altro, una tecnica in più messa al servizio della conoscenza del non Io. Anche nei rapporti più alieni dai sensi, l'emozione sorge o si attua proprio nel contatto: la mano ripugnante di quella vecchia che mi sottopone una supplica, la fronte madida di mio padre nei suoi ultimi istanti, la piaga detersa di un ferito, persino i rapporti più intellettuali o più anodini si istituiscono attraverso questo sistema di segnali del corpo: il lampo d'intesa che illumina lo sguardo del tribuno al quale si spieghi una manovra prima della battaglia, il saluto impersonale d'un subalterno che al nostro passaggio s'immobilizza in un atteggiamento di obbedienza, lo sguardo amichevole d'uno schiavo che ringrazi per avermi portato un vassoio, l'occhiata da intenditore d'un vecchio amico davanti al dono d'un cammeo greco. Con la maggior parte degli esseri umani, i più lievi, i più superficiali di questi contatti bastano, o persino superano l'attesa; ma se essi si ripetono, si moltiplicano attorno a un unico essere sino ad avvolgerlo interamente; se ogni particella d'un corpo umano si impregna per noi di tanti significati conturbanti quante sono le fattezze del suo volto; se un essere solo, anziché ispirarci tutt'al più irritazione, piacere o noia, ci insegue come una musica e ci tormenta come un problema, se trascorre dagli estremi confini al centro del nostro universo, e infine ci diviene più indispensabile che noi stessi, ecco verificarsi il prodigio sorprendente, nel quale ravviso ben più uno sconfinamento dello spirito nella carne che un mero divertimento di quest'ultima.
Opinioni come queste sull'amore possono indurre a una carriera di seduttore. Se non l'ho seguita, senza dubbio dipende dal fatto che mi son dedicato a cose diverse, se non migliori. Una carriera del genere, in mancanza d'estro, richiede una serie di attenzioni, persino di stratagemmi, per i quali non mi sentivo portato. Tendere insidie sempre eguali, percorrere la solita strada, che si limita a perpetui approcci, e alla quale la conquista segna il traguardo, son cose che mi hanno tediato. La tecnica del vero seduttore esige, nel passaggio da un soggetto a un altro, una disinvoltura, un'indifferenza che io non provo e che, comunque perdevo prima di abbandonarle intenzionalmente: non ho mai compreso come si possa essere sazio di un essere umano. La molteplicità delle conquiste contrasta con il desiderio di esumare esattamente le ricchezze che ogni nuovo amore ci reca, di osservarlo mentre si trasforma; fors'anche, mentre invecchia.
Un tempo, ho creduto che un certo gusto per la bellezza avrebbe surrogato per me la virtù, e avrebbe saputo immunizzarmi dalle tentazioni troppo volgari. M'ingannavo. Chi ama il bello finisce per trovarne ovunque, come un filone d'oro che scorre anche nella ganga più ignobile, e quando ha tra le mani questi mirabili frammenti, anche se insudiciati e imperfetti, prova il piacere raro dell'intenditore che è il solo a collezionare ceramiche ritenute comuni. Per un uomo di gusto, poi, l'ostacolo più grave consiste nel fatto di occupare una posizione preminente, che implica ineluttabilmente il rischio dell'adulazione e della menzogna. Il pensiero che in mia presenza qualcuno snaturi, sia pure di un'ombra, l'esser suo, piò giungere a farmelo compiangere, disprezzare, odiare persino. Ho sofferto di questi inconvenienti della mia fortuna come un povero di quelli della sua miseria. Ancora un passo, e avrei accettato la finzione che consiste nel pretendere di sedurre, quando si sa bene che ci si impone: ma di qui si comincia a esser nauseati, o forse imbecilli. Si finirebbe per preferire agli accorgimenti leggeri della seduzione le verità brutali della dissolutezza se anche qui non regnasse la menzogna. Sono pronto ad ammettere per principio che la prostituzione non sia che un'arte, alla stessa stregua del massaggio e della pettinatura, ma mi riesce già difficile andare di buon grado dal barbiere o dal massaggiatore. Non ci sono al mondo persone più volgari dei nostri complici. L'occhiata obliqua dell'oste che mi riserva il vino migliore, e per conseguenza ne priva qualcun altro, bastava già, nei giorni della mia giovinezza, a ispirarmi un profondo disgusto per gli svaghi di Roma. Non mi piace che un individuo ritenga di conoscer già il mio desiderio, prevederlo, adattarsi meccanicamente a quella che suppone la mia scelta: l'immagine bassa e deforme di me stesso, che mi offre in quei momenti quell'individuo, mi farebbe preferire i tristi effetti dell'ascetismo. Se la leggenda non ha esagerato gli eccessi di Nerone e le ricerche sapienti di Tiberio, quei voraci consumatori di piaceri dovevano avere sensi molto inerti per andar cercando apparati così complicati, e uno straordinario disprezzo degli uomini per tollerare che si ridesse o si abusasse di loro fino a quel punto. E tuttavia, se ho quasi rinunciato a queste forme troppo meccaniche del piacere, o almeno non mi sono spinto molto avanti, lo devo più alla mia buona sorte che a una virtù che non sa resistere a nulla. Potrei ricadervi, ora che invecchiato, come in una sregolatezza qualunque, o nel tedio. La malattia, la morte ormai imminente, mi salveranno forse dalla ripetizione monotona degli stessi gesti; e come il compitare stentato d'una lezione imparata a memoria.
Di tutti i piaceri che lentamente mi abbandonano, uno dei più preziosi, e più comuni al tempo stesso, è il sonno. Chi dorme poco o male, sostenuto da molti guanciali, ha tutto l'agio per meditare su questa voluttà particolare. Ammetto che il sonno perfetto è quasi necessariamente un'appendice dell'amore: come un riposo riverberato, riflesso in due corpi. Ma qui m'interessa quel particolare mistero del sonno, goduto per sé stesso, quel tuffo inevitabile nel quale l'uomo, ignudo, solo, inerme, s'avventura ogni sera in un oceano, nel quale ogni cosa muta - i colori, la densità delle cose, persino il ritmo del respiro, un oceano nel quale ci vengono incontro i morti. Nel sonno, una cosa ci rassicura, ed è il fatto di uscirne, e di uscirne immutati, dato che una proibizione bizzarra c'impedisce di riportare con noi il residuo esatto dei nostri sogni. Ci rassicura altresì il fatto che il sonno ci guarisce dalla stanchezza; ma ce ne guarisce temporaneamente, e mediante il procedimento più radicale riuscendo a fare che non siamo più. Qui, come in altre cose, il piacere e l'arte consistono nell'abbandonarsi deliberatamente a quest'incoscienza felice, nell'accettare di essere più deboli, più pesanti, più leggeri, più vaghi dell'esser nostro. Tornerò in seguito sulla popolazione prodigiosa dei sogni: preferisco parlare di certe esperienze di sonno puro, di puro risveglio, che confinano con la morte e la risurrezione. Cerco di riafferrare la sensazione precisa di certi sonni fulminei dell'adolescenza, quando si piombava addormentati sui libri, ancora vestiti, e dalla matematica o dal diritto si era trasportati d'un tratto entro un sonno duro e compatto, denso di energie potenziali, tanto che vi si assaporava, per così dire, il senso puro dell'essere attraverso le palpebre chiuse. Evoco i sonni repentini sulla nuda terra, nella foresta, dopo estenuanti battute di caccia: mi destava l'abbaiare dei cani, o le loro zampe ritte sul mio petto. Era un'eclissi così totale che, ogni volta, avrei potuto ridestarmi diverso, e mi sorprendevo - mi dolevo, a volte - della disposizione rigorosa che mi riconduceva da così lontano nell'angusta particella di umanità che è la mia. In che cosa consistono le caratteristiche alle quali teniamo di più, se contano così poco per chi dorme, e se per un istante, prima di rientrare di malavoglia nel mio guscio di Adriano, giungevo ad assaporare quasi coscientemente quell'uomo vuoto di sé, quell'esistenza senza passato?
D'altro canto, anche la malattia e l'età hanno i loro aspetti straordinari, e ricevono dal sonno altri favori, sotto altre forme: circa un anno fa, dopo una giornata particolarmente estenuante, a Roma, ho avuto uno di quei riposi in cui la spossatezza ha operato gli stessi miracoli, o meglio, altri miracoli, che le riserve inesauste d'altri tempi. Vado raramente in città, ormai; e, quando ci vado, cerco di sbrigare più cose che posso. Avevo avuto una giornata sgradevole, densa: una seduta in Senato, una in tribunale, e una discussione interminabile con uno dei questori; e infine, una cerimonia religiosa che non fu possibile abbreviare, sotto la pioggia. Avevo predisposto io stesso, una dopo l'altra, queste attività differenti, per lasciare il minor tempo possibile, negli intervalli, agli importuni e agli adulatori. Tornai a cavallo: fu una delle ultime volte. Rientrai in Villa depresso, accasciato, infreddolito come si può esserlo solo quando il sangue sembra fermare il suo corso, e non agisce più nelle arterie. Celere e Cabria si prodigavano intorno a me, ma le premure possono stancare, anche se sincere. Mi chiusi in camera, ingoiai poche cucchiaiate di brodo caldo, che preparai da me, non per sospetto - tutt'altro - come si immagina, ma perché così mi concedo il lusso d'esser solo. Mi misi a letto; il sonno pareva tanto lontano quanto la salute, la giovinezza, il vigore. Mi addormentai.
La clessidra mi provò che avevo dormito appena un'ora; un breve momento di abbandono totale, all'età mia, equivale ai sonni che in altri tempi duravano quanto impiegano gli astri a compiere per metà il loro percorso. Il tempo ormai si misura per me in unità molto più brevi. Ma era bastata un'ora sola per compiere l'umile e sorprendente prodigio: il calore del sangue mi riscaldava le mani; il cuore, i polmoni avevano ripreso a operare, quasi di buona lena; la vita come una fonte non molto copiosa, ma sicura. In così breve lasso di tempo, il sonno m'aveva fatto ricuperare il dispendio dovuto all'attività, con la stessa imparzialità con la quale avrebbe riparato gli eccessi del vizio. La divinità di questo grande donatore di ristoro consiste nell'operare i suoi benefici su chi dorme senza tener conto della sua persona, come l'acqua ricca di poteri terapeutici non si dà alcuna pena di sapere chi beve alla sorgente.
Ma ci occupiamo tanto poco di un fenomeno che assorbe almeno un terzo dell'esistenza di ognuno di noi perché è necessaria una certa dose di modestia per apprezzarne i doni: Caio Caligola e Aristide di giusto si equivalgono nel sonno. Io depongo i miei vani e pomposi privilegi, non mi distinguo più dal guardiano negro che dorme di traverso davanti alla mia porta. Che cos'è l'insonnia se non la maniaca ostinazione della nostra mente a fabbricare pensieri, ragionamenti, sillogismi e definizioni tutte sue, il rifiuto di abdicare di fronte alla divina incoscienza degli occhi chiusi o della saggia follia dei sonni? L'uomo che non dorme - da qualche mese a questa parte ho fin troppe occasioni di constatarlo su me stesso - si rifiuta più o meno consapevolmente di affidarsi all'onda delle cose. Fratello della morte... S'ingannava, Isocrate, e la sua frase non è altro che l'iperbole d'un retore. Comincio a conoscerla, la morte: essa cela altri segreti, ben più estranei alla nostra attuale condizione di uomini. E tuttavia, questi misteri di assenza, di oblio parziale sono così intricati e profondi che avvertiamo distintamente la sorgente chiara e quella oscura confluire chissà dove. Non mi è mai piaciuto guardare le persone che amavo mentre dormivano: si riposavano di me, lo so bene; mi sfuggivano, anche. E non c'è uomo che non provi vergogna del proprio viso, guasto dal sonno. Quante volte levandomi alle prime ore del mattino per studiare o per leggere, ho riordinato con le mie mani quei guanciali spiegazzati, quelle coperte in disordine, testimonianze quasi turpi dei nostri incontri con il nulla, prove che ogni notte non siamo già più...




... Come ai miei tempi migliori, mi credono dio; continuano a darmi quest'attributo nello stesso momento in cui offrono al cielo i sacrifici affinché l'Augusta Salute si ristabilisca. T'ho già detto per quali motivi questa credenza, così benefica, non mi appare insensata. Una vecchia cieca è arrivata qui, a piedi dalla Pannonia; aveva intrapreso questo viaggio immenso per chiedermi di toccare con le dita le sue pupille spente; ha ricuperato la vista sotto le mie mani, come il suo fervore s'aspettava in anticipo; la sua fede nell'imperatore-dio spiega questo miracolo. Altri prodigi si son verificati; ci son malati che affermano d'avermi visto nei loro sogni, come i pellegrini di Epidauro vedono in sogno Esculapio; pretendono d'essersi destati guariti, o, quanto meno, sollevati. Non sorrido del contrasto tra i miei poteri taumaturgici e il mio male; accetto con gravità questi nuovi privilegi. Quella vecchia cieca che dal fondo d'una provincia barbara s'incammina alla volta dell'imperatore è divenuta per me quel ch'era stato in altri tempi lo schiavo di Tarragona: il simbolo delle popolazioni dell'impero che ho governate e servite. La loro immensa fiducia mi compensa di vent'anni di fatiche che in fondo non mi sono dispiaciute. Recentemente, Flegone m'ha letto l'opera d'un ebreo d'Alessandria che mi attribuisce anche lui poteri più che umani; ho accolto senza sarcasmi questa descrizione d'un principe dai capelli grigi che è stato visto andare e venire su tutte le strade della terra, scendere fra i tesori delle miniere, ridestare le forze generatrici del suolo, stabilire prosperità e pace in ogni luogo; dell'iniziato che ha ripristinato i luoghi santi di tutte le razze, dell'esperto d'arti magiche, del veggente che ha collocato un fanciullo in cielo. Quell'ebreo nel suo fervore mi avrà compreso meglio che non tanti senatori e proconsoli; questo avversario conciliato completa Arriano; mi stupisce che, agli occhi di alcuni, a lungo andare io sia divenuto quello che sempre ho sperato di essere, e che questo risultato sia fatto di tanto poco. La vecchiaia, la morte imminente ormai aggiungono la loro maestà al mio prestigio; gli uomini fanno largo religiosamente al mio passaggio; non mi paragonano più come un tempo al Giove calmo e radioso, bensì al Marte Gradivo, dio delle lunghe campagne militari e della disciplina austera, al grave Numa ispirato dagli dèi; negli ultimi tempi, questo volto pallido e disfatto, questi occhi assorti, questo gran corpo irrigidito da uno sforzo di volontà ricorda loro Plutone, il dio delle ombre. Solo pochi intimi, pochi amici cari e provati sfuggono al contagio terribile del rispetto. Il giovane giurista Frontone, quel magistrato d'avvenire che sarà senza dubbio uno dei buoni servitori del tuo regno, è venuto a discutere con me un indirizzo da presentare al Senato: gli tremava la voce; ho letto nei suoi occhi quella stessa reverenza mista a un sacro timore. Le gioie pacate degli affetti umani non sono più per me: mi adorano tutti; mi venerano troppo per volermi bene.
Mi è toccata una sorte analoga a quella di certi giardinieri: tutto quel che ho cercato di piantare nella immaginazione umana vi ha preso radice. Il culto di Antinoo sembrava la più folle delle mie iniziative, lo straripare d'un dolore che non riguardava che me. Ma la nostra epoca è avida di dèi; preferisce i più ardenti, i più tristi, quelli che mescolano al vino della vita un miele amaro d'oltretomba. A Delfi, il giovinetto è divenuto l'Ermes guardiano della soglia, padrone dei passaggi oscuri che conducono alle ombre. Elusi, il luogo ove l'età e la sua qualità di straniero gli avevano impedito un giorno d'essere iniziato al mio fianco, ne fa il Bacco giovinetto dei Misteri, principe delle regioni confinanti tra i sensi e l'anima. L'Arcadia ancestrale lo associa a Pan e a Diana, divinità dei boschi; i contadini di Tivoli l'assimilano al dolce Aristeo, re delle api. In Asia, i devoti ritrovano in lui i loro teneri dèi infranti dall'autunno o divorati dall'estate. Al margine dei paesi barbari, il compagno delle mie cacce e dei miei viaggi ha preso l'aspetto del cavaliere Trace, del misterioso viandante che cavalca nelle boscaglie al chiaro di luna, e porta via le anime nelle pieghe del suo mantello. Tutto ciò poteva ancora essere null'altro che un'escrescenza del culto ufficiale, adulazione da parte dei popoli, servilismo di sacerdoti avidi di sussidi. Ma la figura del giovinetto mi sfugge; essa cede alle aspirazioni dei cuori semplici: mediante una di quelle reintegrazioni inerenti alla natura delle cose, l'efebo malinconico e soave è divenuto, per la pietà popolare, il sostegno dei deboli e dei miseri, il consolatore dei fanciulli morti. Il volto inciso sulle monete di Bitinia, il profilo del giovinetto quindicenne, dai riccioli al vento, dal sorriso ingenuo e stupefatto che ha conservato per così poco tempo, pende a guisa d'amuleto al collo dei neonati; in qualche cimitero di campagna, lo s'inchioda sulle piccole tombe. Un tempo, quando pensavo alla mia fine, come un pilota, noncurante di sé, trema però per i passeggeri e il carico della nave, mi dicevo amaramente che quel ricordo sarebbe affondato con me; mi sembrava così che quel giovane essere imbalsamato con tanta cura nel fondo della mia memoria dovesse perire una seconda volta. Questo timore, pur tanto giusto, s'è in parte placato: ho compensato come ho potuto quella morte precoce; per qualche secolo almeno sussisterà un'immagine, un riflesso, un'eco fievole di lui. Non si può far molto di più, in materia d'immortalità.
Ho rivisto Fido Aquila, governatore di Antinopoli, in viaggio per la sua nuova sede di Sarmizegetusa. M'ha descritto i riti annuali celebrati in riva al Nilo in onore del dio morto, i pellegrini convenuti a migliaia dalle regioni del Nord e del Sud, le offerte di birra e di grano, le preci; allo scadere di ogni triennio, ad Antinopoli si svolgono giochi anniversari, così come ad Alessandria, a Mantinea e nella mia diletta Atene. Tali feste triennali si rinnoveranno l'autunno prossimo, ma non conto di durare fino a questo nono ritorno del mese di Athyr. A maggior ragione è importante stabilire in anticipo ogni particolare di queste solennità. L'oracolo del defunto agisce nella stanza segreta del tempio che è stato riedificato a mia cura; giornalmente, i sacerdoti distribuiscono centinaia di risposte già pronte alle domande poste dalla speranza o dall'angoscia umana. Mi è stato rimproverato di averne composte più d'una anch'io. Non intendevo con questo mancar di rispetto al mio dio, né di compassione per la moglie di quel soldato che chiede se il marito tornerà vivo da un presidio in Palestina, o per quell'inferno assetato di conforto, né per quel mercante le cui navi beccheggiano sui flutti del Mar Rosso, né per quella coppia che vorrebbe un figlio. Tutt'al più, così facendo, ho prolungato le parti del logografo, le sciarade in versi alle quali, talvolta, giocavamo insieme. E allo stesso modo, qualcuno s'è meravigliato che qui, alla Villa, intorno a questa cappella di Canopo nella quale il suo culto si celebra alla maniera egiziana, io abbia lasciato costruire i padiglioni di piacere di quel quartiere d'Alessandria che porta questo nome, con gli svaghi e le distrazioni che offro ai miei ospiti ed ai quali m'è accaduto di prender parte. Egli s'era avvezzato a queste cose; e non ci si chiude per anni in un pensiero unico senza farvi rientrare, a poco a poco, tutte le abitudini d'una esistenza.
Ho fatto tutto quello che raccomandano: ho atteso. A volte, ho pregato. Audivi voces divinas... La sciocca Giulia Balbilla credeva d'udire, all'alba, la voce misteriosa di Memnone: io ho ascoltato i fruscii della notte. Ho eseguito le unzioni di miele e di olio di rose che attirano le ombre; ho disposto la coppa di latte, la manciata di sale, la goccia di sangue, ciò che alimentava la loro esistenza, prima. Mi sono disteso sul pavimento di marmo del piccolo santuario; attraverso le fessure della parete, s'insinuava il chiarore degli astri, posava qua e là scintillii inquietanti, pallidi fuochi. Ho ricordato gli ordini sussurrati dai sacerdoti all'orecchio del morto, l'itinerario inciso sulla tomba: <<Ed egli riconoscerà il suo cammino... E i guardiani della soglia lo lasceranno passare... E andrà e verrà intorno a coloro che l'amano per milioni di giorni...>> A volte, a lunghi intervalli, ho creduto d'avvertire il lieve tocco di qualcuno che s'avvicina, leggero come il contatto delle ciglia, tiepido come un palmo. <<E l'ombra di Patroclo appare al fianco di Achille...>> Non saprò mai se questo calore, se questa dolcezza emanavano solo da l più profondo dell'essere mio, prove estreme d'un uomo in lotta contro la solitudine e il freddo della notte. Ma la domanda, che ancora si pone in presenza dei nostri amori viventi, oggi non m'interessa più: poco m'importa se i fantasmi da me evocati vengano dai limbi della mia memoria o da quelli d'un altro mondo. La mia anima, se pure ne posseggo una, è fatta della stessa sostanza degli spettri; questo corpo dalle mani gonfie, dalle unghie livide, questa triste carne già per metà in dissoluzione, quest'otre di mali, di ambizioni e di sogni, non è molto più solido né più consistente d'un'ombra. Non mi distinguo dai morti se non per la facoltà di soffocare qualche momento ancora; in un certo senso, la loro esistenza mi sembra più certa della mia. Antinoo e Plotina sono reali almeno quanto me.
La meditazione della morte non insegna a morire; non rende l'esodo più facile, ma non è questo quel ch'io cerco. Piccola figura imbronciata e volontaria, il tuo sacrificio non ha arricchito la mia vita, ma la mia morte. Il suo approssimarsi ristabilisce tra noi due una sorta d'intima complicità: i vivi che mi circondano, i servi devoti, importuni a volte, non sapranno mai sino a qual punto il mondo non c'interessa più. Penso con disgusto ai tetri simboli delle tombe egizie: l'arido scarabeo, la rigida mummia, la rana dei parti eterni. A dar retta ai sacerdoti, t'ho lasciato in quel luogo ove gli elementi d'un essere si lacerano come un abito logoro che si strappa, in quel sinistro crocevia tra ciò che esiste eternamente, ciò che fu, e ciò che sarà. Può darsi che in fin dei conti essi abbiano ragione, che la morte sia fatta della stessa materia fluttuante e informe della vita. Ma tutte le teorie sull'immortalità m'ispirano diffidenza: il sistema delle retribuzioni e delle pene lascia freddo un giudice consapevole della difficoltà d'un giudizio. D'altra parte, mi accade altresì di trovar troppo banale la soluzione opposta, il puro nulla, il vuoto ove risuona la risata d'Epicuro. Osservo la mia fine: questa serie di esperimenti compiuti su me stesso prosegue il lungo studio iniziato nella clinica di Satiro. Fino a ora, sono mutamenti esteriori, quanto quelli che il tempo e le intemperie fanno subire a un monumento di cui non alterano né la materia, né la plastica: a volte, attraverso le crepe, mi sembra di scorgere e toccare le fondamenta indistruttibili, il tufo eterno. Sono quel che ero: muoio senza mutarmi. A prima vista, l'adusto fanciullo dei giardini di Spagna, l'ufficiale ambizioso che rientra nella tenda scrollandosi dalle spalle i fiocchi di neve, sembrano tanto cancellati quanto lo sarò io dopo che sarò passato attraverso il rogo; ma essi son qui; io ne sono inseparabile. L'uomo che ha urlato sul petto d'un morto continua a gemere in un angolo di me stesso, a onta della calma più e meno che umana alla quale partecipo già; il viaggiatore racchiuso nel corpo del malato orami sedentario per sempre s'interessa alla morte perché essa rappresenta una partenza. Quella forza ch'io fui sembra capace ancora di animare parecchie altre vite, di sollevare dei mondi. Se, per miracolo, qualche secolo venisse aggiunto ai pochi giorni che mi restano, rifarei le stesse cose, persino gli stessi errori, frequenterei gli stessi Olimpi e i medesimi Inferi. Una constatazione simile è un argomento eccellente in favore dell'utilità della morte, ma nello stesso tempo m'ispira dubbi sulla totale efficacia di essa.
In certi periodi della mia vita, ho preso nota dei sogni; ne discutevo il significato con i sacerdoti, i filosofi, gli astrologhi. La facoltà di sognare, attenuata da anni ormai, mi è stata ridata in questi mesi d'agonia; gl'incidenti dello stato di veglia ci appaiono almeno reali, a volte meno importuni dei sogni. Se questo mondo larvale e spettrale, dove si miete l'informe e l'assurdo ancor più largamente che sulla terra, ci offre un'idea delle condizioni dell'anima separata dal corpo, senza dubbio trascorrerò l'eternità a rimpiangere il controllo squisito dei sensi e l'adattamento prospettico della ragione umana. E, tuttavia, non è privo di debolezza questo immergersi nelle regioni vaghe dei sogni; ivi, possiedo per un istante segreti che subito mi sfuggono; mi disseto a sorgenti. L'altro giorno, mi trovavo nell'oasi di Ammone, la sera della caccia alle belve. Ero felice: tutto si è svolto come ai bei tempi della mia forza; il leone ferito è caduto, poi s'è rialzato; mi sono avventato per finirlo. Ma, questa volta, il mio cavallo, impennatosi, m'ha gettato a terra; l'orribile massa sanguinante mi è precipitata addosso; le sue zanne m'hanno lacerato il petto; sono tornato in me, nella mia camera di Tivoli, invocando aiuto. Ancor più di recente, ho rivisto mio padre, eppure ci penso ben poco; giaceva nel suo letto di malato, in una stanza della nostra casa d'Italica, che ho lasciata subito dopo la sua morte. Aveva sul tavolo una fiala piena d'una pozione sedativa, e l'ho supplicato di darmela. Mi sono destato senza che avesse avuto il tempo di rispondermi. Mi fa meraviglia che la maggior parte degli uomini abbia tanta paura degli spettri, mentre si acconsente così facilmente a parlare con i morti, in sogno.
Anche i presagi si moltiplicano: ormai, tutto sembra un'intimazione, un segno. Ho lasciato cadere e infrangersi una preziosa pietra, incastonata in un anello, sulla quale un artigiano greco aveva inciso il mio profilo. Gli auguri scrollano gravemente il capo; io rimpiango semplicemente quel capolavoro. Mi capita di parlare di me stesso al passato: in Senato, discutendo avvenimenti posteriori alla morte di Lucio, mi si è inceppata la lingua e varie volte mi son trovato a parlare di quelle circostanze come se avessero avuto luogo dopo la mia morte. Pochi mesi fa, il giorno del mio anniversario, mentre mi portavano in lettiga su per le scale del Campidoglio, mi son trovato faccia a faccia con un uomo in gramaglie che piangeva: ho visto il mio vecchio Cabria cambiar colore. In quell'epoca, uscivo ancora; continuavo a esercitare le mie funzioni di Pontefice Massimo, di Fratello Arvale, a celebrare io stesso quei riti antichi della religione romana che finisco per preferire alla maggior parte dei culti stranieri. In piedi davanti all'altare, m'apprestavo ad accendere la fiamma; offrivo agli dèi un sacrificio per Antonino. Improvvisamente, il lembo della toga che mi copriva la fronte scivolò e mi ricadde sulla spalla, lasciandomi a testa scoperta; passavo così dal rango di sacrificatore a quello di vittima. E, a dire il vero, è proprio la mia volta.
La mia pazienza dà i suoi frutti: soffro meno; la vita torna a sembrarmi quasi dolce. Non mi bisticcio più con i medici; i loro sciocchi rimedi m'hanno ucciso; ma la loro presunzione, la loro pedanteria ipocrita è opera nostra; mentirebbero meno se noi non avessimo paura di soffrire. Mi mancano le forze per gli attacchi di furore d'altri tempi: so bene, da fonte certa, che Platorio Nepote, che mi è stato molto caro, ha abusato della mia fiducia; ma non ho tentato di sbugiardarlo; non l'ho punito. L'avvenire del mondo non mi angustia più; non m'affatico più per calcolare angosciosamente la durata, più o meno lunga, della pace romana; m'affido agli dèi. Non già ch'io abbia acquisito una maggior fiducia nella loro giustizia, che non è la nostra, o una maggior fede nella saggezza umana; è vero il contrario. La vita è atroce; lo sappiamo. Ma proprio perché aspetto tanto poco dalla condizione umana, i periodi di felicità, i progressi, anche parziali, gli sforzi di ripresa e di continuità mi sembrano altrettanti prodigi che compensano quasi la massa immensa dei mali, degli insuccessi, dell'incuria e degli errori. Sopravverranno le catastrofi e le rovine; trionferà il caos, ma di tanto in tanto verrà anche l'ordine. La pace s'instaurerà di nuovo tra le guerre; le parole umanità, libertà, giustizia ritroveranno qua e là il senso che noi abbiamo tentato d'infondervi. Non tutti i nostri libri periranno; si restaureranno le nostre statue infrante; altre cupole, altri frontoni sorgeranno dai nostri frontoni, dalle nostre cupole; vi saranno uomini che penseranno, lavoreranno e sentiranno come noi: oso contare su questi continuatori che seguiranno, a intervalli irregolari, lungo i secoli, su questa immortalità intermittente. Se i barbari s'impadroniranno mai dell'impero del mondo, saranno costretti ad adottare molti dei nostri metodi; e finiranno per rassomigliarci. Cabria si preoccupa di vedere un giorno il pastoforo di Mitra o il vescovo di Cristo prendere dimora a Roma e rimpiazzarvi il Pontefice Massimo. Se per disgrazia questo giorno venisse, il mio successore lungo i crinali vaticani avrà cessato d'essere il capo d'una cerchia d'affiliati o d'una banda di settari per divenire a sua volta una delle espressioni universali dell'autorità. Erediterà i nostri palazzi, i nostri archivi; differirà da noi meno di quel che si potrebbe credere. Accetto con calma le vicessitudini di Roma eterna;
Le medicine non mi soccorrono più; aumenta l'enfiagione delle mie gambe; e sonnecchio seduto più che disteso. Uno dei vantaggi della morte sarà d'esser disteso ancora, in un letto. Ormai, tocca a me consolare Antonino. Gli ricordo che da tempo, ormai, la morte mi appare la soluzione più elegante dei miei problemi; come sempre, i miei voti finiscono per realizzarsi, ma in modo più lento, più indiretto di quel che potessi mai credere. Mi rallegro che il male m'abbia lasciato la lucidità sino all'ultimo; di non aver dovuto subire la prova dell'estrema vecchiezza, di non esser destinato a conoscere quell'indurimento, quella rigidità, quell'inerzia, quella atroce assenza di desideri. Se i miei calcoli son giusti, mia madre è morta pressapoco all'età alla quale io son giunto; la mia vita è già stata d'una metà più lunga di quella di mio padre, morto a quarant'anni. Tutto è pronto: l'aquila incaricata di recare agli dèi l'anima dell'imperatore è tenuta in riserva per la cerimonia funebre; il mio mausoleo, sulla sommità del quale vengono piantati in questo momento i cipressi destinati a formare contro il cielo una piramide nera, sarà terminato pressappoco in tempo per deporvi le mie ceneri ancor tiepide. Ho pregato Antonino che in seguito vi faccia trasportare Sabina; ho trascurato di farle decretare onori divini alla sua morte, e in fin dei conti le son dovuti; non è male riparare a questa negligenza. E vorrei che i resti di Elio Cesare fossero collocati al mio fianco.
M'hanno portato a Baia; con questo caldo di luglio, il tragitto è stato penoso, ma in riva al mare respiro meglio. L'onda manda sulla riva il suo mormorio, fruscio di seta e carezza; godo ancora le lunghe sere rosate. Ma ormai non reggo più queste tavolette che per occupare le mie mani, che si muovono, mio malgrado. Ho mandato a chiamare Antonino; un corriere lanciato a tutta corsa è partito per Roma. Rimbombano gli zoccoli di Boristene, galoppa il Cavaliere Trace... Il piccolo gruppo degl'intimi si stringe al mio capezzale. Cabria mi fa pena. Le lacrime mal si addicono alle rughe dei vecchi. Il bel volto di Celere è, come sempre, singolarmente calmo; è intento a curarmi senza lasciare trapelar nulla che potrebbe contribuire all'ansia o alla stanchezza d'un malato. Ma Diotimo singhiozza, la testa affondata nei guanciali. Ho assicurato il suo avvenire; non ama l'Italia; potrà realizzare il suo sogno di far ritorno a Gadara e aprirvi con un amico una scuola d'eloquenza; con la mia morte, non ha nulla da perdere. E, tuttavia, l'esile spalla si agita convulsamente sotto le pieghe della tunica; sento sotto le dita queste lacrime deliziose. Fino all'ultimo istante, Adriano sarà stato amato d'amore umano.
Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t'appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più... Cerchiamo d'entrare nella morte a occhi aperti...


AL DIVINO ADRIANO AUGUSTO

Figlio di Traiano vincitore dei parti
nipote di Nerva
pontefice massimo
rivestito per la XXII volta
della potestà tribunicia
tre volte console due volte trionfatore
padre della patria
e alla sua divina consorte
Sabina
Antonino loro figlio

A Lucio Elio Cesare
figlio del divino Adriano
due volte console

Marguerite Yourcenar



Appendice (per chi ha voglia di leggere ancora)




Nel centenario della nascita di Marguerite Yourcenar (2003) -
Il fascino delle «Memoires d'Hadrien»
di Massimo Barile
Su Marguerite Yourcenar le parole espresse dal mondo letterario si sprecano con abbondanza di particolari, a volte di imprecisioni, altre volte esagerazioni in senso positivo e negativo soprattutto sulla sua forte personalità, in alcuni casi giudizi frettolosi ed imperfetti di una certa critica che non l'ha mai vista di buon occhio: analisi piene di pregiudizi e preconcetti che Marguerite avrebbe aborrito albergando in lei la figura di uno storico proteso alla perfezione ed al contempo di un poeta mai condizionato dalla passione di parte ma sempre capace di un giudizio morale sereno, obiettivo, moderato.
Marguerite de Crayencour, la gran dama della letteratura francese, l'ultima aristocratica del pensiero, la bonne dame de Petit Plaisance, la grande seduttrice, l'archeologa dell'anima, storica e memorialista, tessitrice di storie e miti, orgogliosa e con una buona dose di snobismo ereditato dal padre, traduttrice di Virginia Woolf e degli spirituals, in esilio volontario a Mount Desert dove la leggenda immagina una donna col vestitino rosso delle beghine di Bruges o con gli zoccoli ai piedi e un fazzoletto nero in testa.
Scrittrice, non donna, alla quale piaceva inventarsi la vita, alla quale non importava vincere ma essere liberi, che affermava «scrivere è come fare il pane» e poi ancora «la poesia non è un extra» e con l'inquietudine del poeta arrivò alla saggezza attraverso il disincanto, «saggezza del vivere, soavità del morire», guardando alla storia come ad una alchimia inevitabile e alla propria esistenza come al lato visibile della vita eterna e forse fu proprio la poesia di Kavafis, (con il sentimento di quella giustapposizione continua del presente e del passato) tradotta dal greco e tanto amata, a condurre la scrittrice, così legata alla memoria storica, ad astrarsi dal tempo in una visione delle cose che mentre continuano a scorrere giungono ad un tempo che confina con l'eterno: attualità e passato, presente e futuro si intersecano, si inglobano e, come nelle memorie di Adriano, non si distingue più se è l'imperatore che parla, qui ed ora, o la scrittrice-segretaria dell'imperatore "pellegrino" che oltrepassa il confine ultimo liberandosi dell'Io e delle sue limitazioni convergendo in un mondo che racchiude in sé ogni istante fino al momento assoluto della poesia.
Scrittrice accarezzata dalla grazia e privilegiata in quel mondo letterario che la vide sempre sospesa tra la memorialista meticolosa e il poeta inquieto con le ambiguità del suo privato: sempre sulla linea di confine e costantemente all'erta per raccogliere nuovi incanti, per raccontare ciò che non si può narrare, ciò che rimane dietro gli occhi che guardano ed esiste solo nel proprio mondo spesso celato, scevro dalle false apparenze, incontaminato dai luoghi comuni, non contagiato ancora da speculazioni di ogni sorta.
Affascinata dal viaggio si sposterà in continuazione da una parte all'altra del mondo con numerosi viaggi in molti paesi dell'Europa e negli Stati Uniti per poi alternare una serie infinita di viaggi e ritorni dalla sua residenza di Mount Desert Island: per lei ogni viaggio, ogni avventura è al tempo stesso un'esplorazione interiore, una contemplazione mobile. Per tutta la vita è stata stimolata dal viaggio come un bisogno irrinunciabile, una sorta di desiderio carnale come lei stessa dirà, e anche negli ultimi anni nonostante una accentuata costrizione ad una vita immobile non rinuncerà all'avventura nel mondo con il consueto slancio, con rinnovato entusiasmo per ogni nuova esperienza, con l'impareggiabile attenzione a vedere le realtà spesso nascoste delle terre di confine, dei luoghi più selvaggi, quasi a rispecchiarsi nello stesso amore che Adriano nutriva per il mondo barbaro.

Una voce ispirata fin dall'infanzia quando leggeva Ibsen con il padre che le insegnava il gusto della precisione e della verità, l'unico modo per capire ogni passaggio, per entrare nel personaggio senza lasciarsi influenzare da se stessa e dalle proprie visioni o dai sentimenti personali che potevano contaminare una fedele comprensione: e lei riprenderà questo modo di procedere con le Memorie ponendosi a fianco, facendo parlare direttamente la voce dell'Imperatore divino. Ricreare la storia «dal di dentro», raccontare in prima persona la vita d'un uomo arrivato al potere supremo con la sua azione politica, le sue gesta, i suoi piaceri: un testamento del più illuminato degli imperatori, della sua cultura, della sua volontà politica di stabilizzare un mondo dopo le lunghe guerre e prevenire futuri cruenti conflitti.
Il successo delle Memorie deve forse la sua solidità come opera proprio a questa caratteristica, a questo tessuto robusto del monologo: ispirazione, segreto e rigore, di un'opera non facile, di un'avventura di un uomo d'eccezione in un momento unico della storia.
Da un lato l'originalità del suo valore intellettuale che è riuscito a sintonizzarsi sull'universale e dall'altro la condizione solitaria dello scrittore così indispensabile alla sua arte che le fa dire «l'individuo non conta, la solidarietà è per l'umanità».
In un mondo dove l'importante è assicurarsi un posto fisso e duraturo sotto i riflettori lei è sempre stata lontana ed estranea a determinati ambienti, anche quando nel 1981 viene eletta tra gli "Immortali" dell'Académie Française non modifica il suo comportamento, non frequenta l'Académie, e continua ad alternare i suoi viaggi con i soggiorni a Mount Desert, sulla costa atlantica degli Stati Uniti. Si posiziona volontariamente in un angolo, serena e, a volte, quasi distaccata, nel suo angolo che le permette di guardare il mondo e di viverlo intensamente senza rientrare in una categoria o in una linea letteraria per inseguire libera la sua visione: nel modo più giusto.
Da privilegiata ha potuto condurre in assoluta libertà un'esistenza errabonda scoprendo il mondo e non ha mai dovuto sottostare a compromessi per potersi assicurare un pubblico più vasto e nel minor tempo possibile: «Potevano leggermi in tre ed era la stessa cosa» un po' civettuola amava ripetere.
In quell'angolo di mondo, immerso nel silenzio, nel suo studio, senza televisione, ogni tanto all'ascolto della radio, circondata da libri, tappeti antichi, il calore del camino, in una esistenza ridotta all'essenziale come a seguire il ritmo della natura scandito dalle stagioni e assaporare una pace conquistata, il lirismo assoluto.

E proprio come poeta è il suo esordio con un volume di versi e brevi prose Le jardin des chimères e subito dopo con Les dieux ne sont pas morts che rappresentano comunque semplici esercizi di un'esordiente dove abbondano le imitazioni (poi la sua intera produzione poetica sarà raccolta ne Les charitès d'Alcippe alla fine della sua esperienza letteraria). Come poeta sembra già voler afferrare ogni fatto, ogni evento come fossero ultimi momenti irripetibili ed illuminati da luce celestiale e al contempo abbandona repentinamente queste prime esperienze per dedicarsi ad altro quasi si trovasse a far fronte ad una continua maratona con la vita e con le esperienze che essa offre: la consapevolezza di vivere una esistenza dove non è possibile fermarsi troppo a lungo, perdersi in eccessive soste o cadere in oblìo ma al contrario ci si deve immergere attivamente in ogni nuovo entusiasmo per correre dietro alla vita perché il tempo scorre veloce. Fondamentale è il senso che dà alla parola poeta: «poeta è qualcuno che è "in contatto" attraverso cui passa una corrente» e per lei la poesia deve poggiare su effetti ripetitivi, tali da svolgere un ruolo incantatore o per lo meno imporsi al subconscio. Quando la poesia è priva di ritmi immediatamente percettibili non stabilisce quel contatto necessario al lettore, non si fa magia o incantesimo e la corrente poetica viene interrotta perché viene a mancare quel ritmo che ricorda al lettore che si tratta proprio di un incantesimo e di un canto che dipendono appunto dal ritmo della frase e dalla iterazione dei gruppi di suoni.
E proprio nella poesia, nella sua ultima parola, nel suo ultimo canto, come araba fenice sembra risorgere dalle ceneri del passato e rivivere i giorni e le stagioni come se il tempo continuamente lasciasse adagiare sulla superficie nuove sensazioni, ritrovati stupori, un rinnovato impensabile entusiasmo che credeva ormai impossibile: solo la maturità degli anni e la capacità di rileggersi, di rivedersi, di rivisitarsi potrà cogliere appieno le illuminazioni, le parole del tempo.

Le memorie di Adriano
Marguerite Yourcenar come storico dovizioso crea un archivio col passare degli anni, annota ogni notizia utile, esamina ogni fonte, salva le plausibili elimina le fantasiose o poco attendibili anche se a volte si lascia prendere la mano e pur sapendo che ciò che dice Adriano è quasi sicuramente frutto della fantasia lo salva; vaglia ogni circostanza sotto l'aspetto cronologico, verifica le varie ipotesi ed infine sottopone all'analisi le migliaia di fogli ed appunti illeggibili che daranno vita alle Mémoires d'Hadrien.
Prende una figura importante, nota, compiuta, definita dalla Storia in modo da abbracciarne con lo sguardo l'intero percorso e cerca di cogliere lucidamente il momento in cui l'uomo, protagonista di questa esistenza unica ed irripetibile, la soppesa, la esamina e per un istante è in grado di giudicarla. Il processo è assai lungo e tortuoso: il libro concepito e scritto in parte tra il '24 e il '29 viene distrutto, ripreso nel '34 con laboriose indagini e poi abbandonato più volte fino al '37 anno nel quale durante un soggiorno negli Stati Uniti scrive alcuni frammenti come ad esempio la visita al medico e la rinuncia agli esercizi fisici da parte di Adriano. Nel 1939 il manoscritto viene lasciato in Europa con la gran parte degli appunti ma porta sempre con sé una carta dell'Impero romano alla morte di Traiano e il profilo di Antinoo come a ricordare a se stessa che la sfida è sempre aperta. Nel '41 in un negozio scopre per caso delle stampe di Piranesi ed una di queste rappresenta la veduta di Villa Adriana proprio quella visione che aveva fatto scattare la scintilla tanti anni prima. Sarà guardata e riguardata per anni. Fino al 1948 sembra abbandonare la sua idea, subentra una certa indifferenza dopo aver bruciato altri appunti e si sente quasi impotente davanti a quella che pare ormai impresa impossibile: «Mi ci sono voluti molti anni per calcolare esattamente la distanza tra l'imperatore e me»... «per colmare non solo la distanza che mi separava da Adriano ma soprattutto quella che mi separava da me stessa». Ma durante quegli anni aveva continuato a leggere gli autori antichi: quello che poteva essere il modo migliore per far rivivere il pensiero d'un uomo quasi a ricostruire la sua biblioteca negli scaffali di Tivoli.
Proprio quelle memorie e quei frammenti, dimenticati per anni, per caso emergono dall'interno di un baule pieno di cianfrusaglie e vecchia corrispondenza e Marguerite si diverte a buttare via o a dare alle fiamme le cose inutili ("a me piacciono i falò") quando salta fuori una brutta copia delle prime pagine ingiallite delle Memorie. Siamo nel 1948 ed erano passati diversi anni: c'era stata la guerra, il soggiorno a New York, l'isola di Mount Desert, il fascino di tanti luoghi ed incontri e nel succedersi degli eventi il buon Adriano era stato dimenticato. Alla vista di quelle prime pagine scatta il colpo di fulmine, quei fogli ingialliti del manoscritto perduto erano il segno del destino che quel libro doveva essere scritto a qualunque costo. Rivivono le ricerche iniziate prima della guerra e i testi della biblioteca comprati nel periodo in cui era nata l'idea: due libri su Adriano, uno dello storico greco Dione Cassio con il capitolo de "La storia romana" consacrato ad Adriano e un'edizione moderna dell'Historia Augusta (più precisamente il testo de la Vita Hadriani del cronachista latino Spartiano). Sia Dione Cassio che Spartiano si basavano su testi ormai perduti tra i quali le Memorie pubblicate da Adriano e una raccolta di lettere dell'imperatore. V'è da rilevare che, nonostante Dione Cassio e Spartiano non siano grandi storici sono risultati essere estremamente fedeli alla vita vissuta da Adriano e le indagini scrupolose odierne hanno confermato molte delle loro affermazioni.
Le esperienze vissute nel periodo intercorso tra le varie stesure regalano nuovo vigore e arricchiscono la figura e l'epoca di Adriano che ormai si delineava in modo più complesso e oltre al letterato, al viaggiatore, all'ellenista, all'amante emergeva quella più forte dell'Uomo di Stato, dell'Imperatore.
Da quelle pagine e dalle numerose letture di poeti e filosofi greci, sempre coltivate nel corso degli anni, alla fine aveva ricostruito la cultura di Adriano «sapevo pressapoco quello che Adriano leggeva, quali erano i suoi punti di riferimento e il modo in cui considerava determinate cose in base ai filosofi che aveva letto». Era stato un continuo impregnarsi in modo totale nella figura di Adriano finché essa non era emersa: chiara, netta, precisa.
Le pagine bianche portate con sé si riempivano nella cabina di un vagone letto o nel ristorante d'una stazione, attraverso ricerche ed elaborazioni tra erudizione e magia ispiratrice come a trasferirsi con il pensiero nell'interiorità d'un altro con un ritratto di una voce: le memorie scritte in prima persona per fare a meno di un intermediario compresa se stessa «Adriano era in grado di parlare della sua vita in modo più fermo, più sottile di come avrei saputo farlo io».
Imparare tutto, leggere tutto, informarsi su ogni cosa, mettere a fuoco con precisione l'immagine che abbiamo creato sotto le palpebre chiuse: attraverso lo studio e le ricerche, perseguire l'attualità dei fatti, rendere quei volti cosa viva, leggere un testo del secondo secolo con gli occhi di quel tempo, calarsi nei panni di uno storico del tempo per coglierne la verità ed eliminare la fantasia, usare con prudenza gli studi, immergersi in un soggetto per scoprire le cose più semplici.
Far raccontare allo stesso Adriano, con la sua voce, le idee politiche, le azioni e le campagne belliche, la politica pacificatrice e le riforme sociali e finanziarie: ridare vita, a poco a poco, alla sua personalità, alla sua grandezza, alla sua generosità e alla sua esuberanza. Tutto era stato preso in esame soprattutto le stesse opere autentiche di Adriano: la corrispondenza amministrativa, i frammenti di discorsi o di rapporti come il celebre Discorso di Lambesa, pareri legali riportati da giureconsulti, poesie citate da autori del tempo come la famosa Animula vagula blandula o rilevate da iscrizioni votive e monumenti, le celebri tre lettere di Adriano riguardanti la sua vita personale (Lettera a Matidia, Lettera a Serviano, Lettera dell'imperatore sul letto di morte ad Antonino). I numerosi accenni ad Adriano e al suo ambiente, sparsi nelle opere degli autori del II e del III secolo, con le cronache, alcuni dati interessanti ed episodi come «Le cacce di Adriano e di Antinoo», il testo geroglifico dell'Obelisco del Pincio che narra le esequie di Antinoo e descrive le cerimonie del suo culto e la storia degli onori divini resi ad Antinoo che si desumono dalle iscrizioni, dai monumenti figurativi e dalle monete.
Il fortuito arrivo di un baule ormai dato per disperso era stato dunque l'evento necessario, il caso aveva un ruolo fondamentale. Toccando quelle pagine e quei libri per Marguerite era come toccare Adriano e il suo mondo ma quelle iniziali stesure erano solo un abbozzo di scrittura dal tono di un diario intimo o di un lungo dialogo dove non emergeva la voce potente di Adriano ed era improponibile per un romano: era necessario farlo esprimere con un monologo conforme alle norme e quindi Adriano doveva servirsi della parola organizzata, quasi impersonale, strumento del mondo greco-romano di cui egli è perfetto rappresentante, ed il monologo era l'unica scelta, senza inserire dialoghi o conversazioni nel testo perché non vi sono fonti per sapere come gli antichi parlassero tra loro. Adriano poteva evocare la sua vita solo attraverso le sue stesse parole e la fortuna era che si trattava di un uomo colto e al contempo uomo d'azione, un uomo che aveva un lungo passato alle spalle e alcune nozioni di ciò che avrebbe potuto essere l'avvenire, di ciò che temeva che fosse o voleva che fosse e poi era già abbastanza in là con gli anni da avere una vita già tracciata e da poterla guardare in prospettiva.
Poi segue un attento studio degli storici del tempo di Adriano o quelli poco posteriori per fare emergere l'artista, l'amatore d'arte, il mecenate, l'amante e, facendo tesoro di ogni esperienza e della nuova impostazione, quello che sarebbe stato impossibile vent'anni prima, cioè l'uomo di Stato.
Mémoires d'Hadrien è l'opera universale, il libro più famoso di Marguerite Yourcenar ed il suo fascino è duplice: sia sul piano storico che su quello letterario grazie a questa attenta rievocazione della vita e dell'epoca dell'imperatore romano. È scritto sotto forma di memorie indirizzate da Adriano stesso, ormai sessantenne e condannato da una grave malattia, al figlio adottivo Marco Aurelio designato come successore. Nel ritiro della sua villa di Tivoli Adriano sotto lo scacco della morte imminente, accettata ed attesa con coraggio, rievoca la propria vita: la gioventù in Spagna, gli studi ad Atene (un'iscrizione ricorda che il sofista Iseo fu uno dei maestri del giovane Adriano), la lunga ascesa al potere come successore di Traiano, gli anni del potere e della gloria. Tornano a vivere i ricordi e le gesta del condottiero militare e dello statista geniale e grande attenzione è dedicata alle passioni della sua vita come l'amicizia con la moglie di Traiano, l'imperatrice Plotina che gli annunziò prima la sua adozione da parte di Traiano e due giorni dopo lo informò della morte del marito e della sua nomina a successore con il Senato che non poté che sanzionare la sua proclamazione, e poi l'amore per Antinoo, il giovane bitinio, il divino adolescente, ed il grande dolore per la sua tragica morte. Sullo sfondo delle memorie rivive anche l'ambiente della Roma del II secolo con i suoi cortei trionfali, gli spettacoli dei mimi, i giochi del circo, le pratiche magiche delle Sibille, i sanguinosi riti delle religioni d'Oriente, quel mondo di indovini, di fattucchiere e di praticanti in scienze occulte di cui Adriano si circondò.
Per scrivere le Memories lavora anche di notte deve sapere tutto di Adriano gli anni della gioventù, gli anni della guerra, della vanità e della carriera durante i quali Adriano si sforza di diventare ufficiale dello stato maggiore di Traiano, console, governatore: deve ricreare tutto attraverso i documenti dell'epoca e il curriculum vitae degli alti funzionari. Anno per anno le diverse funzioni e le varie cariche di cui è stato insignito Adriano, il nome degli amici, il suo gruppo romano, la sua vita personale: una attenta ricostruzione partendo dai documenti ma cercando di rianimarli, vivificarli: perché i documenti da soli sono morti. Questo lavoro dura circa tre anni con un impegno intenso e continuo quasi in simbiosi con il personaggio Adriano scoprendone i difetti, le menzogne o le cose taciute per interesse (ad esempio a proposito della sua conquista del potere), i delitti politici (l'esecuzione di quattro consolari del partito militare come semplice regolamento di conti anche se non è sicura la sua presenza a Roma durante l'esecuzione o la condanna a morte del cognato novantenne Serviano e di suo nipote Tusco) quando Adriano sembra quasi travolto da una sorta di indifferenza verso la morte: «una più o una meno che importa ormai!».
Le Memorie di Adriano sono sicuramente un'opera dal respiro più vasto rispetto alle precedenti esperienze e non v'è alcuna soluzione di continuità con gli altri libri : attraverso un lavoro faticoso e tremendamente difficile portava in primo piano un Impero, un uomo che moriva a sessantadue anni, che aveva visto tante cose, era passato attraverso tante vicende. Non a caso per riuscire a scrivere le Mémoires d'Hadrien con quella prospettiva era necessario sapere ogni cosa sull'epoca e sulle condizioni della vita stessa nel mondo romano, aver letto il codice sul quale si trovano risoluzioni e deliberazioni di Adriano: tutte cose che non si fanno in un giorno e quando, lei solo ventenne, aveva iniziato le sue ricerche non aveva ancora quel bagaglio di esperienze, necessario per un lavoro simile, ed è per questo che le stesure iniziali non potevano essere all'altezza perché ancora acerbe mentre invece la redazione definitiva, grazie ad una maturità letteraria raggiunta, poteva essere solo quella scritta molto tempo dopo a più di quarant'anni.
Lo stesso Adriano quando muore Lucio suo ex favorito e figlio adottivo si chiede «Se Cesare fosse morto a quell'età che cosa resterebbe di lui? Il ricordo di un uomo dissipato che si occupava di politica». E questo lo spinge a guardare con maggiore pietà a chi moriva senza che il suo destino si fosse del tutto compiuto.
Adriano è stato uno dei primi ad essere dio di diritto in quanto imperatore e ad aver goduto del culto dell'imperatore divinizzato da vivo, oltre ad un entusiasmo religioso che lo circonda verso la fine della sua vita. L'uomo ispirato che giunge a quarant'anni dopo aver superato tutte le tappe: impara il latino che conosceva male , impara il greco, studia ed esercita tutte le funzioni militari e civili, fa l'esperienza dei paesi barbari, osserva il periodo di crisi sotto Domiziano e non vi partecipa seguendo i consigli dei saggi, attraversa quindici anni di guerra proprio lui l'uomo della pax romana e quando diventa imperatore fa cessare la guerra contro i Parti. Dovrà ritornarvi con la guerra di Palestina che sarà vista, proprio per questo motivo, come uno dei suoi insuccessi.
Ma dalle Memorie emerge un Adriano continuamente innovatore, costantemente riformatore, un uomo con rara intelligenza capace di riassestare l'economia con geniale creatività (alcuni dei primi provvedimenti adottati furono gli aumenti di distribuzione di congiaria alla popolazione dell'Urbe, raddoppio del premio alle truppe e sospensione della riscossione dell'aureum coronarium dovuto dalle province n.d.r.) migliorare le condizioni degli schiavi, pacificare la terra, emancipare le province mantenendo l'unità romana, proporre l'ellenismo senza la forza e inaugurare un periodo di sviluppo dell'arte greca. È un uomo lucido non folgorante, con una visione mentale aperta ad altri mondi che non sono i suoi come ad esempio il mondo barbaro e ai poeti che scherzavano su questa sua propensione rispondeva: «Restate pure a Roma, nelle taverne, a farvi pungere dalle zanzare e a cianciare di letteratura». Questa fervida inclinazione per il mondo greco e il senso del mondo barbaro non fanno dimenticare il presente di Roma dove, facendo appello alla mia memoria di antichi studi classici e se ben ricordo, questa sua grande ed insaziabile passione ellenica fu motteggiata dai romani che per derisione lo soprannominarono greculo o grechetto. E fu anche il «romano spagnolo diventato greco» o come dice il Bengtoon nella sua Storia Greca «Adriano fu il primo vero ellenista sul trono dei Cesari».
Ma il colpo di genio involontario è forse Antinoo che poteva rappresentare l'incontro con il suo ideale umano e poteva incarnare le aspirazioni dell'imperatore ma è importante sottolineare che Adriano non aveva certo bisogno della figura di Antinoo perché aveva in sé le caratteristiche del grande funzionario, del letterato e del principe anche se il culto di Antinoo ha forse posto a simbolo quell'ideale religioso e passionale: «Ci vuole sempre una vampata di follia per costruire un destino» dirà Marguerite Yourcenar.
Non per niente Adriano ha disseminato per tutto l'Impero le effigi di Antinoo: in tutte le città greche o dell'Asia minore vi sono monete che lo raffigurano, creando quel culto che le dedicherà la città di Antinopoli, fondata dall'imperatore in onore del suo favorito, ancora visibile fino agli inizi del secolo e poi distrutta da un industriale egiziano che utilizzerà i ruderi per costruire uno zuccherificio.
Per quanto riguarda la tragica morte di Antinoo annegato nelle acque del Nilo si possono fare delle ipotesi e la versione ufficiale sembra indirizzarsi verso il sacrificio di sé ad Adriano, un suicidio-sacrificio del favorito «per fuggire all'invecchiamento, all'usura della passione, all'odiosità degli intrighi di palazzo». La versione del suicidio sacrificale che si desume dalle fonti era questa: Antinoo aveva saputo per mezzo di un oracolo che la vita di Adriano non si sarebbe conservata a lungo a meno che un altro non avesse offerto in cambio la sua alle divinità infere e per il grande amore che Antinoo aveva nei confronti del suo imperatore avrebbe offerto la sua vita. Interessante è annotare come in una lettera, scritta da Adriano poco tempo prima della morte, sembra di avvertire ormai un abbandono al semplice godimento del piacere: in ogni caso la scomparsa di Antinoo sconvolgerà la mente dell'imperatore. A sublimazione del suo grande dolore colse l'occasione per fare un Dio del suo divino amante. Per prima cosa cambiò il nome della città di Besa (dove era morto Antinoo) in quello di Antinopoli e la ingrandì con numerosi edifici, vi eresse un tempio e vi istituì un culto. In tutto l'Impero si fece a gara nel dedicare ad Antinoo templi, e statue che erano la riproduzione pura dei lineamenti e del corpo del divino adolescente, e poi simulacri che ne rivestivano le sembianze e in occidente predominarono i simulacri bacchici di Antinoo. Dione Cassio narra inoltre che Adriano giurò di aver visto nel cielo risplendere una nuova stella che doveva essere certamente l'anima di Antinoo assurta a divinità. Questa interpretazione divina rasenta il delirio religioso se consideriamo che nella villa di Tivoli, di cui aveva fatto il santuario dei suoi sogni, sono state rinvenute decine di statue, busti, simulacri di Antinoo ed è la dimostrazione che la perdita di Antinoo segni una svolta decisiva nella vita di Adriano. Dopo pochi anni dalla morte di Antinoo la sua salute peggiorava, messa a dura prova dal suo peregrinare per le terre dell'Impero. Il fisico era in declino il suo stato di salute si era aggravato e le condizioni mentali peggioravano: ormai il grande principe che aveva portato l'Impero a splendori mai conosciuti è prossimo alla fine, sopraffatto da una malattia che lo obbliga ad una forzata inattività ed «Adriano è un uomo di quelli che invecchiando peggiorano a vista d'occhio». Frequenti segni di squilibrio, imprevedibili sbalzi d'umore, violenti rancori, tremende gelosie, una costante invidia dei minimi fatti altrui, senza dimenticare le acute crisi di disperazione supplicando a chi gli era vicino e fedele di offrirgli del veleno. Ormai ridotto ad uno stato di semi impotenza nella sua villa di Baia avrebbe spedito sentenze di morte da attuarsi da parte di Antonino che lo sostituiva al potere: logicamente Antonino Pio, non ne teneva assolutamente conto (ironia del destino forse l'appellativo di Pio decretata dal Senato non era casuale); e proprio il buon Antonino Pio tentava di riabilitare la memoria del padre adottivo e cercava di convincere il Senato a concedere ad Adriano gli onori dell'apoteosi che lo accoglieva nell'Olimpo delle divinità romane.
Attenendosi alle fonti giova sottolineare che in realtà se da una parte invocava la morte dall'altra ricorreva a stregoni, indovini e maghi affinché lo guarissero ma il male faceva il suo corso e il 10 luglio del 138 si spense.
La parabola di una vita viene fissata in modo meraviglioso dalla stessa Marguerite Yourcenar che, per scrivere l'atto finale, immersa in una sera gelida a Mount Desert cerca di rivivere quel giorno di luglio: «il peso del lenzuolo sulle gambe stanche, il mormorio quasi impercettibile d'un mare senza marea, l'ultimo sorso d'acqua, l'ultima immagine, l'imperatore non ha che da morire».
Ma Adriano rimase l'Augusto per eccellenza, il padre della patria, il secondo Romolo col quale l'Impero romano aveva raggiunto l'apogeo oltre il quale cominciava l'inevitabile declino, l'inesorabile parabola discendente quasi simbolizzata negli ultimi anni di uno dei più grandi imperatori della storia di Roma: lacerata da sprazzi di crudeltà che si alternano a periodi di assoluta indifferenza, pervasa ancora dalle ultime lucide e geniali intuizioni mentre aumenta sempre più la perdita di contatto con la realtà: per scongiurare la fine dell'imperatore dio e del mito dell'eterno impero romano non c'era più nulla da fare.

L'accoglienza entusiasta delle Memorie ha sicuramente posto un forte accento su Antinoo come il momento culminante della vita di Adriano ma nelle Memorie vi sono «quarantacinque anni di tensioni seguiti da nove anni di travagli» come dirà Marguerite Yourcenar come a voler sottolineare una visione ben più ampia dell'opera. Nell'arco della vita di Adriano si è focalizzata l'attenzione soprattutto sul suo successo straordinario, all'apice della gloria, in trionfo ed amato, ma per l'autrice emergono con vigore anche le figure minori, i personaggi che esistono a metà che hanno anche loro un fascino particolare e poi v'è la malinconica visione di un uomo che invecchia a suo modo, secondo il proprio stile di vita: quando la lucidità viene meno o è portata fino al sospetto, l'uomo è in preda a folgoranti accessi di follia, ripensa con amarezza alla inevitabile guerra di Giudea, vive da Imperatore i momenti di angoscia davanti alla malattia.
Il successo delle Memorie sorprenderà la stessa scrittrice soprattutto per quell'idea che s'era fatta che la vita di un imperatore poco poteva interessare alla gente (e le Memorie era un libro certamente non dei più facili) ed è importante ricordare ciò che Marguerite disse: "Nel caso di Hadrien c'è stata quella tendenza del lettore a identificazione con il protagonista e soprattutto con l'avventura amorosa. Sono rari i lettori che hanno visto l'insieme del libro (direi quell'intero processo umano di un imperatore). In genere i lettori non vedono l'insieme; vedono la punta saliente, l'angolazione che più li tocca. Colgono sempre, di un libro, l'aspetto che riflette la loro vita».
«Avevo scritto la storia di un principe e al tempo stesso un grande destino individuale e poi è sempre piacevole dare a un essere che è vissuto un piccolo rilancio nel tempo».
Le Memorie è stato un libro che durante le sue diverse stesure ha subito una riduzione, una spoliazione: è rimasto in vita il condensato di un libro molto più vasto, il riassunto di scene che erano state descritte nei minimi particolari e nelle sfumature più impensabili durante notti insonni e magiche: è rimasto «solo ciò che un uomo ha creduto di essere, ciò che ha voluto essere, ciò che è stato».

Non è un caso che Marguerite Yourcenar durante un'intervista abbia risposto: «La vita è spoliazione ed arricchimento: Ci togliamo i vestiti per dorarci al sole» e lei ha rivissuto come protagonista della sua storia le stagioni della propria esistenza come se il lento fluire del tempo e le memorie del passato avessero il potere di riaprire lo scrigno di emozioni dimenticate.
Questo incessante sguardo all'indietro e al passato viene fissato con precisione, la parola si erge a testimone, sempre incantata, perennemente condannata a raccontare ciò che pareva dimenticato, una totale immersione nella memorialistica: e trasforma la vita in letteratura.
Si rende conto che non ha senso inseguire il passato e archiviarlo tra le pagine come reperto e decide di interpretare la vita: le vicende della vita sono argilla, l'architettura della memoria poggia sulla sabbia e si mette a guardare il mondo con lo sguardo incantato dell'infanzia, con lo stupore della sorpresa.
Le sue meditazioni sul tempo vedono ogni rapporto come effimero, doloroso e precario e si incidono sempre nella memoria con lacerazioni sul proprio corpo e lo stesso Adriano afferma «Oggi comincio a scorgere il profilo della mia morte»: l'ombra funerea è sempre in agguato come in diabolica attesa per un ultimo dialogo, la morte unico referente ammesso dalla stessa scrittrice come misura dell'universale.
Da archeologa della memoria scoperchia le urne, codifica i segni, legge le iscrizioni, riassembla i reperti frantumati e ricostruisce la vita dei defunti, le passioni, le fragilità, le scelte, le gesta: la storia si fa apologo.
Marguerite Yourcenar da mirabile tessitrice di storia e di miti con la sua parola ricrea la trama del passato ed ogni passo compiuto dai suoi personaggi, con le azioni, e con le passioni è immerso nel mondo che deve fare i conti con il calendario che riporta le date e gli eventi. Gli anni trascorsi al di fuori della consuetudine sociale dopo aver cambiato paese, lingua e continente, in quel rifugio sulla costa nordamericana, tentando di sconfiggere o trovarsi pronta ad assaporare la morte attraverso l'esumazione del tempo: guardare al passato come alla sola entità indiscussa, e con una ineguagliabile grazia muoversi oltre le soglie del tempo. «L'uomo è ambiguo perché ha rinunciato al sogno e ha piegato la trasparenza della volontà alle aride leggi del calcolo personale»: per salvare l'umanità dalla catastrofe bisogna abbattere le mura del tempo e comprendere i secoli nelle pagine fuggevoli di un libro. Le figure storiche divenute personaggi letterari attraverso il rigore intellettuale e la scrittura con quel gusto della precisione di un biografo postumo sono immessi nell'eternità.
Nella sua ricerca "alla deriva del caso" la scrittura può nascere a bordo di un treno, in una sala d'attesa, nella camera d'un albergo chissà dove o durante una visita alla Villa Adriana o facendo una passeggiata. Gli strumenti per far emergere i ricordi sono custoditi nella memoria familiare o nella memoria storica e attraverso una accurata documentazione vuole ricostruire la scena completa che offra una più compiuta immagine: il punto di partenza è il documento, il reperto registrato, per riassemblare tra loro i pezzi con curiosità per vedere che cosa ne verrà fuori. Il suo corpo sembra dileguarsi in lontananza, il suo Io è altrove e si assiste ad una frattura tra individuo e realtà, come l'artista che non partecipa al gioco, vive ai margini o se ne sta in un angolo. Perennemente impegnata nella ricerca del proprio destino attraverso quello altrui, la sua memoria la conduce inesorabilmente sempre davanti a quel senso della perdita: una malinconia sotterranea permea tutte le azioni e il mondo appare come un enorme archivio di frammenti da riunire per ottenere una sublime ultima opera. Grande anima dolente estende la sua pietà all'universo, all'umanità: la sofferenza del mondo comune a tutti gli individui nella loro esistenza non è più sofferenza privata ma destino.
Nella religione del buddismo cercò la chiave per accettare e superare tale destino: la fuga verso l'alto può sottrarre l'artista allo smarrimento e la scrittura può mutare la vita. Nelle memorie cercherà un comune denominatore fra i diversi destini e troverà «l'infinita pietà per la nostra pochezza e, per contrasto, il rispetto e la curiosità per le fragili e complesse strutture che posano come palafitte sopra l'abisso».
In questo incessante viaggiare sulle tracce del passato e con quel desiderio vibrante di contemplare il mondo nel quale vive darà vita alle memorie, darà un senso alla parola che può germogliare ovunque perché il luogo non ha importanza.
Da scrittrice estranea all'ovvio, al banale e all'autoreferenza, rifuggirà sempre dal privilegiare il proprio caso personale perché l'individuo è valido solo all'interno di un disegno globale ed universale: l'importante è non smettere mai di cercare la visione.
Proprio questo guardare al mondo con una visione così complessa rende inevitabile il superamento dell'Io, quasi mai utilizzato nella narrazione, una abolizione che diventa una necessità, una limitazione che non ha più ragione d'esistere: la sua assenza diventa liberazione.
In un continuo superamento, approfondendo e studiando il Tantrismo, lo Zen, la conoscenza buddhista nelle sue varie scuole, la scrittrice cercherà nelle direzioni più diverse:«il pugnale per uccidere l'Io».
Con uno scatto incredibile trasformerà la perdita in guadagno e l'esperienza diventerà contemplazione.
Sarà una lenta conquista iniziata con la scoperta che occorre identificarsi con l'altro non per un annullamento ma per comprenderlo nella sua singolarità, nella sua unicità, e capirlo più profondamente. Come nel caso di Adriano che girò e rigirò nella sua testa per decenni prima di esprimersi ancora con la sua voce. Si arrabbiava quando le dicevano «Adriano sei tu»: perché lei non si era identificata con lui ma vi si era posta accanto, lì vicino per ascoltarlo, per capirlo, per contemplarne l'esistenza, sicuramente più importante di tante altre, ma indubbiamente facente parte di tutte le altre, del tutto.
Cadere nel tutto ad occhi aperti, far perdere le tracce nella foresta nordica, andare verso la propria sorte, la propria desolata méta.
«I nostri rapporti con gli altri non hanno che una durata; quando si è ottenuta la soddisfazione, si è appresa la lezione, reso il servigio, compiuta l'opera, cessano; quel che ero capace di dire è stato detto; quello che potevo apprendere è stato appreso».
La consapevolezza della maturità e del tempo «l'anima che assiste al passare delle gioie, delle tristezze e delle morti di cui è fatta la vita ha ricevuto la grande lezione delle cose che passano». Rimangono i momenti migliori, i momenti alti che sono sempre i più felici come in un rapporto tra la grandezza e la felicità adrianea. Quel sentimento greco della felicità: i momenti migliori sono anche i più felici.

Cosa avrebbe voluto rivedere Marguerite Yourcenar nel momento ultimo della propria fine? I giacinti del Mont Noir, le arance appese ai rami da suo padre, un cimitero in rovina invaso dalle rose, il mare con il suo rumore che dura dal principio del mondo, il carillon che suona un'arietta di Haydn al capezzale di Grace Frick morente (la sua compagna di vita per lunghi anni nonché una straordinaria traduttrice in lingua inglese della sua opera), o quel giorno a Corbridge, distesa in mezzo ad un campo di scavi quando si è lasciata impregnare di pioggia insieme alle ossa dei morti romani, o un arrivo mattutino a Segesta, a cavallo, attraverso sentieri allora deserti e sassosi che profumavano di timo o i volti amati, confusi tra i volti immaginari o tra i volti della storia. O niente di tutto questo, forse solo... il vuoto fiammeggiante come il cielo d'estate, che divora le cose, e a prezzo del quale il resto non è più che una successione d'ombre.
La morte come la vita, le Care memorie e l'innocenza di una fanciulla, le vestigia e i profumi del presente, la linea di confine sempre lambita e molte volte attraversata, mille simboli e rimandi ma una sola certezza: l'indicazione per giungere alla méta ogni lettore la deve cercare dentro se stesso.